«La tolleranza religiosa egizia»: una realtà da esplorare
Ramesse II abbraccia gli dei Amon e Mut

Una ricerca dell'egittologo Riccardo Manzini per la comprensione di questa antica civiltà

I condizionamenti culturali creano sovente un filtro che impedisce l’interpretazione reale di molti eventi e periodi storici, rischio sempre presente nella produzione storica. La narrazione che ne segue, così condizionata, non fa altro che autoconfermarsi come realtà storica indiscutibile.

Per evitare questo risultato deviante occorre introdurre nella critica storica una visione che tenga conto di elementi probanti che esplorano i fatti secondo diverse angolazioni.

È quanto ci viene proposto dal dr. Riccardo Manzini – medico chirurgo ed egittologo di lungo corso – con l’articolo “La tolleranza religiosa egizia”, che offre una interessante versione “alternativa” per approfondire la conoscenza della complessa società dell’Antico Egitto.

Nel ringraziare l’Autore, per la sua precedente e attuale collaborazione, auguriamo buona lettura (m.b.).

 

La tolleranza religiosa egizia

 

Sulla religione egizia si è detto e scritto molto presentandola sovente con superficialità come un freddo politeismo, spesso attribuendo a questa definizione un connotato negativo o quanto meno, con malcelata sufficienza, di ingenua arretratezza.

La conoscenza emersa dagli studi relativi ha invece evidenziato una sua sorprendente raffinatezza teologica, tanto che molte delle sue mitologie e caratteristiche quali gli insegnamenti morali, il concetto di Trinità, il dio che muore e risorge, il giudizio finale, l’acqua lustrale ecc. sono state riprese concettualmente, se non proprio copiate, dalle religioni monoteiste.

Parlando di religione egizia si omette però soprattutto, forse perché in contrasto con i racconti biblici, quello che sembra il suo aspetto più interessante da un punto di vista teologico, costituito non solo dalla tolleranza religiosa ma addirittura dall’assoluta estraneità al concetto di contrasto religioso derivato proprio dalla sua origine.

La principale difficoltà a condividere questa caratteristica basilare della religione egizia deriva dal nostro retaggio culturale che non concepisce come, per la sua stessa natura basata sull’assimilazione e sull’identificazione, abbia sempre adattato le altre teologie ai propri concetti senza generare resistenze. Esemplificativa è la statua di Ramesse II che abbraccia la dea leonessa Anat (slide 1) la quale non solo è estranea al pantheon egizio in quanto siriana, ma è una divinità venerata da quei prigionieri di guerra evidentemente accolta dalla religione egizia in quanto correlabile ad una propria divinità.

Questo atteggiamento portò gli egizi ad affermare contemporaneamente principi e credenze sensibilmente differenti e di diversa provenienza, senza che questo comportasse una “Verità” assoluta o prevalente rispetto alle altre. Nella cultura egizia troviamo infatti riferimenti a situazioni teologiche anche contrastanti ma ugualmente condivise, che sole possono spiegare, ad esempio, come i vari concetti della Creazione differiscano nei nomi degli dèi ma siano concordanti nei contenuti.

Queste caratteristiche sostanziali, che diversificano la religione egizia da tutte le altre dell’antichità, sono infatti state comprese con chiarezza solamente ricostruendo la formazione della religione in Egitto, che ha proceduto parallelamente a quella della società.

In origine la popolazione egizia era dispersa sul territorio e viveva in tribù, ognuna delle quali divinizzò gli animali (slide 2), le piante (slide 3) o gli eventi naturali (slide 4) più frequenti nell’ambiente circostante, attribuendogli caratteristiche teologiche compatibili con quelle dell’entità di origine. Si crearono in questo modo le premesse per un pantheon in cui lo sciacallo era legato al mondo dei morti, il falco al sole, l'avvoltoio all'amore materno ecc. Inoltre sovente, ad imitazione dei nuclei familiari elementari, queste divinità tribali comprendevano un maschio, una femmina ed un giovane.

Quando la società egizia iniziò a formarsi con l'aggregazione delle tribù meno organizzate attorno a quelle più evolute, le prime apportarono il culto delle proprie divinità; ma mentre alcune di queste scomparvero altre, forse le meglio caratterizzate, sopravvissero e furono assimilate nelle divinità “ospitanti”. In tal modo persero la propria esistenza individuale, ma molte delle loro qualità principali trovarono una continuità proprio nel trasferimento o nell'identificazione in queste ultime, ognuna delle quali acquisì in questo modo molteplici caratteristiche anche molto diverse.

Solo attraverso questo processo è possibile spiegare le apparenti anomalie di alcune divinità dell'epoca storica che presentano caratteristiche contrastanti o comunque estranee a quelle tipiche dell'entità rappresentata.

Alla progressiva aggregazione politica delle comunità seguì quindi questo sincretismo religioso che mirò a rendere accette le divinità più evolute anche alle popolazioni assimilate, non sopprimendone gli dèi ma trasferendo le loro caratteristiche a quelle divinità, comportando di conseguenza che per qualunque devoto ogni altro dio non fosse che una limitata manifestazione del proprio.

La scelta di questo sincretismo trova per altro una motivazione sociale, in quanto con l’espansione delle zone di influenza le teologie sarebbero venute a contrasto se non si fosse potuto riscontrare negli altri dèi le caratteristiche delle proprie divinità, ma in una forma più limitata.

Esemplificativo di questo sincretismo e delle sue conseguenze è la coesistenza in Seth (slide 5) di caratteristiche positive e negative se giudicate secondo i nostri canoni, quali essere l’assassino del fratello ma anche colui che apporta la vitale acqua essendo il dio della tempesta.

Tra le varie prerogative acquisite da Seth, dio della “violenza giustificata”, vi era anche quella di protettore dei confini dell’Egitto, ma anche altre divinità tra cui Sekhmet (slide 6) avevano tra le loro caratteristiche questa prerogativa pur presentandone altre differenti. In conseguenza di questa formazione sincretistica delle divinità i devoti di ognuno di questi dei vedevano quindi nelle divinità che avevano la medesima caratteristica solamente delle manifestazioni parziali del proprio dio, ma non certo dei competitori.

In questo modo non solo fu possibile giungere ad un'unità politica del Paese ed alla pacifica coesistenza di etnie e culture differenti, ma si creò quella assoluta estraneità all’intolleranza religiosa che caratterizzò la storia egizia per l’assenza di motivi di contrasto con qualunque divinità, in quanto tutte condividevano qualche peculiarità e tutte erano necessarie all’esistenza dell’Universo.

Questa equivalenza tra gli dèi fece sì che in Egitto non sia mai esistita una divinità principale e la prevalenza nelle antiche citazioni di alcuni dei sia solamente dovuta alla loro maggior diffusione derivata dalla semplicità della loro teologia o per il legame con la dinastia regnante, similmente a quanto avvenne ad esempio nella nostra cultura per i Borboni devoti a San Gennaro o i Savoia a San Maurizio.

Per altro anche quando i greci introdussero Zeus durante il periodo tolemaico o i romani Giove, questi furono pacificamente accettati dagli egizi in quanto identificabili con proprie divinità con cui condividevano alcune caratteristiche, ma senza mai assumere in Egitto il ruolo prioritario che avevano presso quelle civiltà.

Poiché la cultura egizia è caratterizzata dalla concretezza il loro sentimento religioso fu sempre estraneo alle divinità trascendenti, per cui gli dèi egizi (che il loro concetto di Creazione li collocava tra i mortali essendo destinati anch’essi a scomparire all’inevitabile fine dell’Universo) avrebbero dovuto poter agire nella realtà quotidiana, ma ne sarebbero stati limitati dalle stesse caratteristiche fisiche dell'essere simboleggiato.

Per ovviare a questa incongruenza, accanto alla fisicità delle entità originarie (slide 7), queste stesse divinità acquisirono anche un aspetto antropomorfo in cui tutto il capo (slide 8) o anche solo un emblema su di esso (slide 9), riproduceva la caratteristica fisica identificativa dell’entità originaria.

In tale presenza, infatti, probabilmente unita al desiderio di creare un alone di mistero e di imperscrutabile distacco dalle cose terrene, trovano spiegazione le promiscuità del pantheon egizio e le caratterizzazioni indifferentemente “naturali” o antropomorfe con cui vennero raffigurati gli dèi.

Estendendo questo concetto, curiosamente persino gli stessi emblemi religiosi (slide 10) vennero antropomorfizzati (slide 11) affinché potessero intervenire più concretamente nelle vicende umane.

Riccardo Manzini

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Articolo pubblicato il 26/01/2021