Retorica richiesta di perdono per "colpe" altrui?

Emanuele Filiberto di Savoia e la Storia (di Aldo A. Mola)

La coscienza personale è sfera intima; la storia è materia esplosiva. “In coscienza” ognuno parla per sé, non per “famigliari” se non ne è formalmente richiesto e delegato. Meno ancora può farlo quando appartenga a una “Casa” dalla storia millenaria. La “lista” degli errori politico-militari e dei torti inflitti a “popoli” e a “privati” da parte di “capi di Stato” è lunga quanto la storia. La Bibbia insegna. 

 

Altro discorso vale per le leggi, che nel regime statutario come in quello odierno sono frutto di poteri condivisi: capo dello Stato, governo e Parlamento. Diverso ancora (e più alto) è il compito della storiografia, che indaga, comprende, spiega.

 

Vittorio Emanuele III avrebbe potuto rifiutare di firmare il decreto-legge 17 novembre 1938, n.1728 su “Provvedimenti per la difesa della razza italiana”, in realtà “contro gli ebrei” solo nella certezza di avere il sostegno delle Camere, che esercitavano con lui il potere legislativo. Ma queste, succube del “duce”, approvarono il decreto-legge senza alcun dibattito il 12 e 19 dicembre.

 

Il re avrebbe dovuto abdicare? Se lo avesse fatto, non avrebbe fermato l’offensiva antiebraica dell’ala repubblicana del fascismo, messa in moto da Mussolini contro la Corona. Avrebbe scaricato la responsabilità sul figlio Umberto, all’epoca trentaquattrenne e padre di un maschio (Vittorio Emanuele, principe di Napoli) di appena un anno. Se, per coerenza, tutti i Savoia (compresi gli Aosta e i Genova) avessero abdicato, in forza dell’art. 15 dello Statuto le Camere avrebbero eletto un Reggente: probabilmente Mussolini stesso, ormai abbacinato da Hitler, o un suo zerbino.

 

La Storia non esprime giudizi morali: espone i fatti nella loro a volte tragica realtà.  

 

La “responsabilità storica” delle leggi razziali ricade sul Parlamento e si spiega con il vasto consenso per il regime attestato dal plauso di politici, accademici e futuri intellettuali antifascisti” (quali Amintore Fanfani e Paolo Emilio Taviani sino a Eugenio Scalfari e Giorgio Bocca) e del gesuita Tacchi Venturi, che da 17 anni era tramite fra Mussolini e la Santa Sede, dalla quale non si levò alcuna autorevole e netta “condanna” delle leggi contro i “perfidi giudei”.

 

Il dissenso manifestato personalmente dal re a Mussolini e da pochi gerarchi, come Italo Balbo, “assente ingiustificato” alla Camera, e da Luigi Einaudi (fu tra i dieci senatori che votarono “no”), impose attenuazioni, a cominciare dalla “discriminazione” che, a richiesta degli interessati, dichiarò “di razza italiana” 2500 famiglie ebree, in specie di Medaglie d’Oro e di fascisti conclamati.

 

È infine storiograficamente insostenibile imputare a Vittorio Emanuele III (come in tanti fanno profittando delle incaute affermazioni del bisnipote) la responsabilità degli infami crimini perpetrati dai tedeschi nelle regioni sotto controllo loro e degli alleati succubi-succubi: Mussolini e la macchina politico-amministrativa della Repubblica sociale. Nelle terre ove il Re assicurò la continuità dello Stato le leggi anti-ebraiche furono abrogate. La storia non nasconde il passato; lo documenta e ne spiega i clamori e i silenzi, “sine ira et studio”. 

            

Aldo A. Mola

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Articolo pubblicato il 27/01/2021