Myanmar: vietato parlare di comunismo

Luigi Cabrino: "Chiamare le cose col proprio nome alle volte è difficile"

C’è un problema grosso Con l’utilizzo dei termini quando si trattano certi argomenti spinosi, chiamare le cose col proprio nome alle volte è difficile, lo diceva già Napoleone.

E’ di lunedì mattina la notizia che nella notte precedente i militari della ex Birmania, ribattezzata Myanmar, hanno arrestato Aung San Suu Kyi, Nobel per la pace  e già incarcerata per anni dal regime birmano prima di un accenno di graduale transizione verso un qualcosa che potesse lontanamente assomigliare ad una democrazia.

Dopo la liberazione della San Suu Kyi e la sua vittoria alle elezioni di alcuni anni fa i militari hanno concesso un minimo di passaggio di poteri, mantenendo comunque i ministeri chiave del Governo.

L’affermazione elettorale di alcuni mesi fa non è andata giù ai generali e poco prima dell’insediamento del nuovo parlamento, che avrebbe dovuto affrontare importanti riforme promesse in campagna elettorale, hanno arrestati i leader politici democratici ed occupato radio,TV, bloccato le comunicazioni telefoniche e proclamato lo stato d’emergenza per un anno.

Le cancellerie mondiali hanno protestato timidamente ma nessuno che si sia azzardato a definire i militari birmani per quello che sono e sono sempre stati: COMUNISTI MARXISTI.

Fin dalla presa del potere nei primi anni ’60 i militari si sono ispirati al marxismo economico e sociale, nessuno spazio all’iniziativa privata e, ovviamente, patti economici e politici con la Cina maoista; dopo alcuni anni, quando il comunismo non andava tanto più di moda, hanno tolto ogni riferimento al socialcomunismo nel nome del partito di governo e negli atti ufficiali, ma la sostanza è rimasta la stessa.

Inoltre questo regime comunista non si è mai fatto tanti scrupoli nel perseguitare le minoranze etniche, i Rohingya fuggono a centinaia di migliaia negli stati vicini per scappare alle terribili pulizie etniche guidate dal regime a cui, va detto, nemmeno la San Suu Kyi ha saputo opporsi in questi anni.

Dalla liberazione del Nobel San Suu Kyi e poi con la sua vittoria politica qualche anno fa la ex Birmania ha avuto un flebile speranza di normalità politica e sociale, ma i militari - comunisti marxisti, va ricordato allo sfinimento- hanno posto fine ad ogni possibilità di transizione democratica, consolidando il loro potere e i potenti affari con le grosse multinazionali che da qualche anno possono investire nel paese comunista (esattamente come nella Cina post maoista che, non a caso, si è affrettata ad opporsi in sede ONU a qualunque misura contro il golpe, la fraternità comunista è forte….).

Tra le condanne formali e comunque molto deboli della comunità internazionale – spesso blandi comunicati stampa- la parolina magica COMUNISMO non compare; sono troppi nelle nostre società libere a simpatizzare per quei regimi; per restare a casa nostra molti dei maestri di pensiero settantenni che scrivono sui quotidiani o guidano le TV provengono da quei movimenti estremisti che negli anni ’60 e ’70 dello scorso secolo stravedevano per Mao ed i regimi comunisti dei paesi vicini alla Cina, quindi meglio dare la notizia, se proprio si deve, del golpe birmano tacendo le radici ideologiche dei generali e sperando che nel giro di qualche giorno tutto si dimentichi.

Tuttavia va ricordato sempre che il regime militare birmano che ha imprigionato i leader democratici liberamente eletti non è senza aggettivi, ma è comunista rosso fuoco, oltre che criminale ed omicida.

 

Luigi Cabrino

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Articolo pubblicato il 03/02/2021