Le ambiguità di Alan Friedman

Le sue tante disinvolture, oltre alle scuse a bassa voce per Melania

L’infelice battuta di Friedman che in un programma televisivo delle scorse settimane ha definito “escort” Melania Trump, ha suscitato la giusta ira di femministe, e non, del mondo del giornalismo e della politica. Melania si affermò come modella a Milano, poi si trasferì a New York dove continuò il suo lavoro normalmente. Ma se nel passato professionale di Melania Trump non ci sono stati scandali o situazioni per cui vergognarsi, altrettanto non si può dire di Alan Friedman.

Nato a New York da genitori ebrei fuggiti dalla Germania nazista, Friedman si laurea alla London School of Economics, poi prosegue i suoi studi con un master alla John Hopkins University di Washington. Diventa inviato del Financial Times in Italia e poi corrispondente dell’International Herald Tribune, del Wall Street Journal. Scrive a 30 anni, senza soggezione, una biografia di Gianni Agnelli, si stabilisce in Italia dove collabora con giornali italiani e stranieri, partecipando a talk-show televisivi. Pubblica un libro-intervista con Berlusconi, tradotto in 15 lingue che diventa anche un film documentario diffuso da Netflix. Nonostante tutto questo successo, fama e ricchezza, c’è un lato oscuro della sua personalità che non si concilia con l’etica del giornalista.

Consultando la stampa internazionale circa dieci anni fa, emerge che volendo vendere la sua bella villa sulle colline lucchesi ad un prezzo di 18 milioni di euro, si rivolse ad un certo Proto che si vantava di essere l’agente immobiliare dei V.I.P. Per pubblicizzare la vendita i due inventano una storia sul desiderio del principe Williams e della fidanzata Katherine Middleton di voler trascorrere la luna di miele nella villa. Questa storia inventata, fu pubblicata sul Corriere della Sera e su altri giornali.

Poco prima Friedman si era fatto lautamente finanziare dal governo della Malaysia una società  che avrebbe dovuto produrre programmi televisivi per conto della BBC. Quando la televisione pubblica venne a conoscenza del finanziamento, strappò il contratto.

Ma il suo vero passo falso, Alan Friedman lo commette nel giugno del 2011 quando entra in contatto con Paul Manafort, un consulente politico americano al servizio del presidente ucraino Viktor Yanukovych che aveva vinto da poco le elezioni e subito dopo aveva imprigionato il suo avversario politico, Yulia Tymoshenko.

Per questo motivo USA e UE avevano imposto sanzioni economiche contro l’Ucraina che era quindi diventato uno stato paria in Europa. Friedman e Manafort per rompere questo isolamento e promuovere l’immagine di Yanukovych si adoperarono su due punti: creare un gruppo di pressione, denominato informalmente Hapsburg Group formato da ex statisti per una campagna di lobby sui media e istituzioni americane ed europee e contemporaneamente condurre una campagna, certamente non benevola, nei confronti della Tymoshenko.

Il gruppo di pressione Hopsburg era coordinato dall’ex Cancelliere austriaco Alfred Gumsbauer e tra i coinvolti ci fu addirittura Romano Prodi.

Sulla Tymoshenko, in carcere, Friedman produsse un documento di tre pagine titolato: Ucraina a digital road map- a plan to deconstruct Tymoshenko via videos, articles and social media.

Manafort accettò la proposta di Friedman e gli accreditò su un conto offshore 1,2 milioni di dollari più un accredito di 150mila dollari ogni tre mesi. Tutta questa attività di lobby e relativa documentazione è riportata nella relazione di Mueller, ex direttore della FBI, incaricato dal Congresso di stabilire se c’era stata interferenza russa nell’elezione di Trump nel 2016.

Paul Manafort, infatti dopo la sua attività di consulente politico in Ucraina, dove aveva nel suo staff un ex spia russa, era diventato per 5 mesi responsabile della campagna elettorale presidenziale di Trump. Con il suo passato, Manafort fu subito oggetto delle indagini di Mueller. Tutta la sua attività di lobbysta in Ucraina fu passata al setaccio, compresi i suoi rapporti con Friedman.

La documentazione fu trasmessa alla magistratura che incriminò Manafort di vari reati: evasione tasse, pagamenti off-shore ed attività di lobby in America a favore di un governo straniero senza essersi registrato. Manafort si giustificò dichiarando che la sua attività si era svolta in Europa. Ed a questo punto è saltato fuori Romano Prodi che aveva firmato un articolo, secondo alcuni scritto assieme a Friedman, pubblicato sul New York Times.

Inoltre è stato documentato un viaggio di Prodi a Washington dove aveva incontrato un senatore e funzionari della Commissione Esteri per parlare dell’Ucraina. La prova era una lettera del ministro degli esteri ucraino che si congratulava con Manafort per l’attività di Prodi. Qui si può aggiungere un altro particolare per inquadrare meglio Friedman.

Manafort fu arrestato e, dietro cauzione, gli furono concessi gli arresti domiciliari, con l’obbligo naturalmente di non contattare coimputati o testimoni. Manafort, agli arresti domiciliari, inviò un messaggio WhatsApp “This is Paul” a Friedman e lui lo denunciò alle autorità come un tentativo per indurlo alla falsa testimonianza. Il giudice si dichiarò d’accordo e rinviò Manafort in prigione.

Tutto questo è di dominio pubblico in quanto fu pubblicato, come già anticipato, oltre due anni fa su Guardian, New York Times, Politics ed altri giornali. Eppure Alan Friedman ha scandalizzato tutti solo quando gli è sfuggita una battutaccia su Melania Trump. Ma tutto è finito lì. Chissà perché?

Stampa solo il testo dell'articolo Stampa l'articolo con le immagini

Articolo pubblicato il 08/02/2021