San Valentino cancella lupercalia

“Santi d’Italia” è il voluminoso libro nel quale lo scrittore torinese Alfredo Cattabiani riporta questa leggenda: il Vescovo Valentino, involontario testimone d’un litigio tra innamorati, donò loro una rosa da tenere tra le mani con attenzione, per non pungersi, e li riconciliò. Papa Gelasio Primo lo santificò nel 496 e ne fissò la ricorrenza nel giorno della sua morte avvenuta nel 273, il 14 febbraio. Le spoglie di questo patrono degli innamorati e protettore degli epilettici sono venerate nella basilica di San Valentino a Terni.

Una chiesetta, dedicata a un altro San Valentino, sorgeva nell’area del Parco del Valentino di Torino. Fu demolita con la costruzione del Borgo medievale per la Esposizione generale italiana del 1884 e le reliquie lì custodite di questo Santo, che pare avrebbe dato nome al Parco, furono trasferite nella chiesa di San Vito sulla collina antistante, oltre il Po. Sin dal Medio Evo, comunque, era indicata come “Vallatium” la zona, dove i conti Birago avevano fatto costruire una grande “casa di delizie”, acquistata poi nel 1564 da Emanuele Filiberto di Savoia e ampiamente rimaneggiata nel tempo. Nota oggi come Castello del Valentino, ospita la Direzione del Dipartimento di Architettura e Design del Politecnico di Torino, ma fu residenza amata da Madama Reale Maria Cristina di Borbone, che nel 1619, il giorno in cui compiva 13 anni, andò sposa a Vittorio Amedeo I di Savoia.

San Valentino, per consuetudine oggi festa degli innamorati, ha cristianizzato un rito pagano con pratica ricorrente, che ha toccato l’apice, forse, col Santo Natale, celebrato da un certo momento il 25 dicembre, nella imminenza del solstizio d’inverno, quando i Romani festeggiavano il “Dies solis invicti”. Così, la festa del Natale di Gesù, luce di Verità nel mondo cristiano, ha preso il posto della festa pagana della (ri)nascita del Sole, luce di vita nel mondo eminentemente agricolo d’un tempo.

Nella stessa maniera la festa di San Valentino, il 14 febbraio, ha cancellato “Lupercalia”, che gli antichi romani, nel medesimo periodo, dedicavano alla fecondità. Una antica leggenda, narrava infatti d’un ciclo di sterilità delle loro donne, che sarebbe terminato quando fossero state possedute da un caprone; per esorcizzare questa sciagura, nel periodo delle idi di febbraio, i sacerdoti del fauno Luperco, partiti dalla grotta in cui una lupa aveva allattato Romolo e Remo e che dava nome alla festa, correvano seminudi per le strade, seguiti da una folla di giovani gaudenti e disinibiti e insieme, a propiziare la fecondità, nel licenzioso baccanale, battevano le donne, che lasciavano fare volentieri, con pelli, legate intorno ai fianchi, di capri appena sacrificati al fauno.

Alle donne, che non si picchiano neanche con un fiore, per la festa degli innamorati la tradizione anglosassone prevede l’invio di “valentine”, di bigliettini galanti, cui si affidano messaggi brevi, ma appassionati. Oggi, è l’etere che ne trasporta migliaia da un telefonino all’altro, in linguaggio spesso criptico, che solo chi li riceve sa interpretare, siglati da emoticons talvolta maliziosi. Le simpatiche faccine ammiccanti dicono anche quel che non si può scrivere, lasciando intendere ciò che si vorrebbe fare, sicché, al disagio esistenziale che ora ci governa, gli innamorati pongono rimedio come possono, pur violando regole di buon senso, perché al cuor non si comanda, nemmeno in pandemia. Si vales, vàleo.

armeno.nardini@bn.eu

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Articolo pubblicato il 09/02/2021