Un certo Liberalismo
Giuseppe Fassino

Contro la falsificazione di un nobile ideale

Ci furono anni, nella nostra storia quasi recente, in cui definirsi liberale era praticamente una bestemmia.

Chi ha qualche anno in più ricorderà come nei “formidabili” anni settanta, per usare una vecchia ed enfatica espressione di Mario Capanna, una invincibile follia collettiva, come sempre ben supportata dalla stampa conformista, l’ideologia che aveva costruito l’occidente moderno venne relegata nei bassifondi del dibattito pubblico e accusata di tutti i mali della modernità. Il liberalismo e la sua versione economica -il liberismo- furono oggetto di un attacco concentrico da parte di tutto un multiforme esercito di sinistra  che andava dal marxismo più fanaticamente operaista all’azionismo più snobisticamente alto-borghese, dai sostenitori della lotta armata agli assidui delle terrazze romane (artisti, politici, intellettuali, belle donne...), insomma da Curcio a Paolo Mieli, via Bertinotti e Gad Lerner.

La “fragile saggezza del liberalismo”, come la definì Valerio Zanone, fu vinta più volte, e in  molte sue espressioni, dalla tentazione modaiola e narcisistica del sedicente progressismo da rivista patinata. Ne nacque un liberalismo molto liberal, molto anglosassone, molto gobettiano, che piaceva alla gente che piaceva, e che ben poco aveva a che fare col liberalismo classico, sopratutto italiano e, mi si consenta l’azzardo provinciale, piemontese. Molti di questi convertiti transitarono poi con naturalezza in altre forze politiche simil-liberali come i radicali o i repubblicani o ancora più a sinistra. Nulla di male naturalmente: si trattava di legittime e personalissime revisioni culturali, di scelte di campo sovente molto ben argomentate e comunque degne di rispetto.

Chi, come molti di noi, rimase invece nell’alveo di un liberalismo più legato al territorio (più “piemontese”, come già detto) fece una scelta altrettanto legittima e, per certi versi, forse più coerente in quanto più radicata in una realtà ben conosciuta.

Si trattava di un liberalismo e di un liberismo incardinati in un’antica tradizione di libertà locali, municipali, provinciali in cui i problemi erano conosciuti nei fatti e non nei libri, un liberalismo scarno, senza fronzoli, con una percezione netta non della libertà crociana intesa come categoria dello spirito ma della libertà einaudiana intesa come pratica quotidiana dell’agire economico e istituzionale: nell’agricoltura, nei commerci, nelle industrie, nei consigli comunali e provinciali, nelle banche locali, nella scelta dei candidati politici, nella riproposizione di libertà antiche e nella ricerca di libertà nuove. Un liberalismo e un liberismo  entrambi calati nella storia delle comunità e degli individui, ma -sopratutto-nelle loro capacità di auto-determinazione e auto-organizzazione, e che si incarnò in un notabilato sì locale ma per nulla provinciale.

L’antico liberalismo europeo, che in Adam Smith ebbe il suo empirico e concretissimo profeta, e che nella nostra terra aveva maturato i frutti di cui sopra, oggi è andato dileguandosi per lasciare il posto a un liberalismo tutto astratto, tutto ideologizzato, tutto avulso dalla realtà dei popoli. Dalla scuola austriaca al monetarismo, si è generato cioè il liberalismo dei grandi numeri, dei grandi spazi economici, dei grandi profitti a cui non corrisponde più la creazione dei beni della vita come nella mitica fabbrica di spilli descritta nella Ricchezza delle nazioni.

E’ il liberalismo finanziario -che ha innescato quello che Luttwak ha chiamato “turbocapitalismo”- ad aver scardinato la visione di un’economia al servizio dell’uomo o, nell’ottica provinciale di cui si diceva, al servizio delle comunità, dove era la domanda reale a produrre una offerta altrettanto reale. Ne è nato un modello supply side dove è il produttore a creare la domanda di beni, spesso inutili, spesso indefiniti, spesso assurdi in una parossistica ricerca di nuova crescita, nuovi mercati, nuovi bisogni. Il tutto spinto da capitali vaganti in cerca di impiego, di rendimenti, di occasioni. Produzione di futilità a mezzo di inutilità.

E’ ovvio che tutto ciò non può che generare accumulazioni spropositate di capitali in cerca di libertà sempre più ampie per chi li muove, cosa che si ottiene sopratutto tramite la connivenza del potere politico a tutti i livelli: locali, nazionali, sovranazionali. Di qui monopoli e oligopoli industriali e finanziari che vivono di quella commistione tra poteri pubblici e privati -o meglio, sull’abolizione di questa distinzione- di cui abbiamo già parlato quando accennammo alla “privatizzazione del diritto”, sopratutto internazionale, descritta sotto vari aspetti da giuristi che vanno da Stefano Rodotà, a Luciano Barra Caracciolo, a Ugo Mattei e molti altri.

Parlare di liberalismo o liberismo a proposito di queste realtà è assolutamente fuorviante. Il binomio liberalismo/liberismo ha sempre combattuto il potere nel momento in cui non era più finalizzato alla crescita e alla dignità dell’individuo e delle comunità. Monopoli, oligopoli industriali e finanziari, oligarchie politiche, economiche, culturali non possono che essere nemici di quel liberalismo originario che i nostri padri ci hanno trasmesso.

Che la sinistra non colga questa situazione e insegua un suo liberalismo intellettualistico, di plastica,  abbandonando completamente la concreta tutela dei più deboli per farsi portavoce delle istanze di un capitalismo finanziario “apatride” (per usare una vecchia e bella espressione di De Gaulle) non è cosa che stupisce ed è stata analizzata da molti, fra cui -con particolare arguzia- dal torinese Ricolfi. Stupisce invece che questa visione sia adottata da chi non si definisce di sinistra e propone un tecnicismo efficientista senza anima, o un vago centrismo senza radici, o ancora un cristianesimo tutto mediatico, o semplicemente progetti politici personalistici in cerca di contenuti e di elettorato: una palude politica e culturale di cui non è possibile individuare caratteristiche nette e definite ma contenuta nel grande invaso cosiddetto neo-liberista.

Ma non si è veri liberisti se, contestualmente, non si è anche veri liberali, se cioè non si hanno ben chiari gli obiettivi etici e politici sopra delineati. Comprendere e riproporre quel liberalismo/liberismo un po’ provinciale ma storicamente definito e, sopratutto, sicuramente genuino potrebbe essere un ottimo antidoto alla deriva politica e intellettuale contemporanea.

 

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Articolo pubblicato il 08/03/2021