Il lavoro nell'Antico Egitto: realtà controversa e poco nota

Una interpretazione ragionata dell'egittologo Riccardo Manzini

La storia ha sempre documentato la presenza della “schiavitù” nelle società antiche, le circostanze che la alimentavano, proponendo interpretazioni giustificative di questa realtà nella necessità di sostenere un’economia primitiva basata quasi esclusivamente sulla forza lavoro gratuita.

La vulgata tradizionale, condizionata sovente da suggestioni interpretative arbitrarie, ha dato per scontato la presenza generalizzata della “schiavitù” anche nella storia dell’Antico Egitto.

Ci giunge in merito una documentata analisi del dr. Riccardo Manzini - medico chirurgo ed egittologo di lungo corso – che offre una interpretazione ragionata ed alternativa a quella tradizionale.

Nel ringraziare l’Autore, per la sua precedente e attuale collaborazione, auguriamo buona lettura (m. b.).

 

Il lavoro in Egitto

Pensando alle piramidi, ai grandiosi monumenti ed alle innumerevoli tombe fittamente decorate, potrebbe sembrare che in Egitto si lavorasse sempre e duramente, e tale sensazione è certamente influenzata anche dalla tradizione biblica che ci lascia intendere una feroce schiavitù.

Prescindendo dal fatto che per sua stessa natura la schiavitù è sempre feroce in ogni tempo ed in ogni Paese per chi la subisce, in realtà dagli studi è emerso che in Egitto è documentata solamente in una fase storica avanzata ed apparentemente limitata ai prigionieri di guerra.

Basti pensare che fino al Medio Regno, cioè per tutto il periodo in cui furono costruite le grandi piramidi in pietra, l’Egitto non aveva neppure un consistente esercito stabile che nell’antichità costituiva l’unico strumento con cui procurarsi una manodopera gratuita numerosa, e che i sovrani dell’Antico Regno si vantarono di imprese militari consistenti in realtà in modeste scorrerie contro nomadi del deserto numericamente insignificanti.

Solo con l’avvento del Nuovo Regno e l’espansione dell’Egitto fino a divenire un impero vi è traccia di prigionieri di guerra (slide 1) che avrebbero potuto essere impiegati come schiavi, ma del loro utilizzo in tale regime non vi è alcuna esplicita testimonianza.

Per quanto riguarda poi il popolo egizio non vi è alcun indizio che ci possa far supporre che sia mai stato costretto a lavorare in condizioni disumane e meno che mai in una sorta di schiavitù; i debitori ed i truffatori venivano puniti con bastonature (slide 2), gli illeciti pubblici con i lavori forzati ed i ladri di tombe anche con la morte, ma non risulta che potessero divenire schiavi.

D’altronde il Paese era ricco naturalmente ed i lavoratori venivano regolarmente retribuiti con beni di consumo, ma soprattutto erano tutelati dallo Stato anche nei periodi di carestia con elargizioni delle scorte alimentari che erano state accumulate nei silos pubblici sotto forma di tassa (slide 3).

Certo all’epoca l’aspettativa di vita era molto breve e per la maggior parte della popolazione doveva essere piuttosto dura, ma se confrontiamo la società egizia con tutte le altre coeve, impegnate anche nella sopravvivenza o in guerre, ci accorgiamo comunque quanto fosse mediamente più umana, ricca e socialmente evoluta.

Per quanto qualunque analisi riguardante la civiltà egizia andrebbe esattamente definita nel suo tempo in quanto l’enorme durata di quella civiltà comportò mutamenti anche sostanziali, è possibile dedurre alcune caratteristiche tendenziali del loro mondo del lavoro.

Sebbene non vi siano infatti a riguardo dei dati espliciti, dai reperti è stato possibile ricostruire come in ogni tempo il lavoro pare essere stato sempre retribuito e regolamentato secondo consuetudini codificate, decisamente in controtendenza rispetto a quanto ci si aspetterebbe.

Solamente il lavoro del contadino egizio (slide 4) potrebbe non rientrare in questa affermazione poiché non è valutabile esattamente sia per la sua stessa natura, che anche oggi non consente una sua esatta determinazione in quanto legato a molti fattori condizionanti, che per l’impossibilità a quantificarlo in impegno lavorativo.

Per altro dagli studi sembra che per tutto l’Antico Regno il territorio egizio fosse di proprietà dello Stato, salvo progressivi stornamenti a favore della classe sacerdotale, e che ad ogni contadino venisse assegnato un appezzamento demaniale di estensione pari a quella che aveva dimostrato di saper sfruttare. Per ogni terreno era quindi richiesta annualmente una tassa da pagare in natura proporzionale alla produttività stimata localmente per quell’estensione in base al livello raggiunto dalla piena del Nilo, misurato con appositi nilometri (slide 5), pena la riduzione dell’appezzamento l’anno successivo.

Tutti gli altri lavoratori, per gran parte regolarmente retribuiti dallo Stato o in altri periodi anche da possidenti, svolgevano i propri compiti nell’ambito di quella perfetta organizzazione del lavoro che portò la società egizia a produrre le magnificenze che oggi ammiriamo. Come esempio valga l’analisi del lavoro durante il Nuovo Regno in cui, dai dati in nostro possesso, si presume che quelli artigianali (slide 6) impegnassero per circa 10 ore giornaliere per 10 giorni continuativi, cui seguivano due giorni di riposo.

Ovviamente il lavoro dei funzionari esulava da queste consuetudini essendo del tutto differente, ma era anch’esso comunque valutato in base ai risultati ottenuti di cui ognuno doveva rendere conto al sovrano, il quale poteva anche revocarne la carica.

I sacerdoti addetti alla ritualità ed al mantenimento dei templi erano esentati dalle tasse e godevano dei proventi dei terreni che erano riusciti a stornare dal demanio e delle offerte dei devoti.

La certezza che i lavori venissero retribuiti secondo regole pattuite in base alla loro professionalità ci è data da alcune testimonianze, tra cui famosa è quella di uno sciopero (slide 7) in cui un capomastro ricorda ripetutamente all’amministratore dell’area della Valle dei Re che vi erano stati numerosi solleciti per ottenere il pagamento pattuito in cereali, pesce, birra, pomate solari ed indumenti, fino a segnalare l’avvenuta astensione dal lavoro (certamente impossibile a degli schiavi) perché il compenso non era giunto.

Se confrontiamo tale documentazione con quella delle civiltà coeve, ci rendiamo conto dell’equità di quella egizia, sicuramente favorita dall’assenza di competizione con i Paesi limitrofi e dalla naturale ricchezza del territorio.

Tra le numerose testimonianze di questa regolamentazione del lavoro giunte a noi sono particolarmente interessanti e dettagliate quelle provenienti dalla città operaia di Deir el-Medina (slide 8). Questo villaggio, dove risiedevano in 70 case singole (slide 9) le famiglie degli artigiani impegnati nella realizzazione delle tombe della Valle dei Re, è posto nelle vicinanze di quel luogo di lavoro ma quasi diametralmente opposto rispetto alla cima della montagna tebana.

Poiché quei lavoratori erano impegnati per tutto il giorno ed era proibito passare la notte nella Valle dei Re per ragioni di sicurezza, ogni sera i lavoratori avrebbero dovuto compiere un lungo cammino per attraversare la montagna e tornare alle loro famiglie. Onde risparmiare questa fatica, in un pianoro sulla montagna tra la Valle dei Re ed il villaggio realizzarono una borgata, costituita da piccole abitazioni (slide 10) in cui i lavoratori pernottavano ed a cui i familiari provenienti da Deir el-Medina portavano giornalmente il cibo e le necessità urgenti.

Ma se questa era la loro vita per 9 giorni lavorativi, alla sera del decimo scendevano fino al villaggio per unirsi alle famiglie. A riguardo esistono numerosi scritti in cui si decantano le piacevolezze delle nottate di riposo trascorse sul tetto della casa a godersi il fresco, conversando con gli amici, mangiando e giocando.

Anche il mantenimento di questi lavoratori era sostenuto dallo Stato che faceva giungere periodicamente al villaggio acqua, alimenti e birra, oltre a fornire mugnaie ed addetti ai lavori di manutenzione. Le derrate alimentari, consistenti in pesce, olio, verdura e cereali, cui si aggiungevano occasionalmente carne e vino, erano molto abbondanti, tanto che ogni casa aveva contenitori per immagazzinare le eccedenze.

Per questi artigiani il lavoro a dipendenza non era però vincolante ed esclusivo. Sfruttando la libertà di cui godevano nei giorni di riposo e le proprie attitudini professionali, questi artigiani realizzarono infatti nelle adiacenze una necropoli con tombe meravigliose (slide 11), per realizzare le quali ogni artigiano prestava a turno e collettivamente le proprie capacità.

Tutte queste notizie così dettagliate sulla vita quotidiana a Deir el-Medina e molte altre riguardanti l’alimentazione, l’amministrazione, le abitudini e la legalità, ci sono giunte per gran parte grazie al ritrovamento nelle vicinanze del villaggio della sua discarica. In questa voragine vennero infatti trovati i rifiuti più disparati, quali resti del cibo, compiti scolastici dei bambini, lamentele, pettegolezzi, atti legali ed esercizi di disegno (slide 12), ma anche comunicazioni riguardanti il lavoro e la sua organizzazione tracciati su frammenti di coccio o di pietra.

Come ripetutamente sottolineato, bisogna però ricordare sempre che la storia egizia è durata circa 3.000 anni e si è sviluppata in ambienti e situazioni tanto differenti che nessuna considerazione è generalizzabile. Sicuramente la vita del contadino del Delta era molto differente da quella dell’artigiano o del minatore, come la stessa attività era regolamentata in maniera differente nel laico e “statale” Antico Regno rispetto all’Egitto dell’impero (Nuovo Regno) o ancor più della decadenza.

Questa breve panoramica sul lavoro egizio non pretende quindi di essere valida in assoluto, ma vuole chiarire attraverso questi pochi esempi come vi siano motivi di credere che anche in questo aspetto la civiltà egizia si sia distinta dalle altre (e non solo da quelle coeve) per il rispetto dei lavoratori, ma soprattutto che non vi è storicamente alcuna traccia dei millantati schiavi maltrattati con ferocia gratuita.

Riccardo Manzini 

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Articolo pubblicato il 29/03/2021