Bicentenario dimenticato. L'indipendenza della Grecia e la coscienza dell'Europa
Massacro di Scio (E. Delacroix) - Santorre di Santarosa (Savigliano, CN)

3 aprile 1821. Cadono due secoli dall'inizio della lunga lotta dei greci per la propria liberazione dal giogo turco-ottomano. Orgoglio dell'Europa civile. Vergogna per quella della "diplomazia" (di Aldo A. Mola)

“L’Europa non c’è! L’Europa non esiste!”: così esordì Eddy Sogno in una conferenza organizzata al Cinema “Italia” di Saluzzo su invito dell’allora segretario locale del Movimento studentesco per l’Organizzazione internazionale. Trentacinque anni fa. Quale Europa esiste ora? Il pachiderma affossato dalla Corte costituzionale tedesca che ha sconfessato il Parlamento germanico sul “Recovery Plan”? Persino Mario Draghi, presidente del Consiglio dei ministri dello Stato d’Italia e già presidente della Banca Centrale Europea, prende atto, oggi, che l’Europa continua a non esserci. L’uscita della Gran Bretagna (a maggioranza risicata) ha suscitato scalpore. Ma molti Stati dell’Unione, dopo un decennio dall’entrata in vigore della “moneta unica”, non hanno mai adottato l’euro fiutandone gli effetti tossici: l’aumento drastico dei prezzi, il dimezzamento del potere d’acquisto e, quindi, del valore dei risparmi, l’impoverimento del ceto medio. L’Europa non c’è sul piano basso di vaccini e siringhe e neppure su quello, più alto e “sofisticato”, degli eurobond, che poi altro non sono se non un indebitamento colossale perpetuo, condivisibile da Paesi spreconi (Italia in testa), molto meno da quelli che nascondono le rughe dei loro antichi imperi sotto le creme del potere finanziario, che non conosce bandiere.

L’Europa non c’è, come non c’era quando albeggiò il Risorgimento italiano, che non sbocciò come un fiore in serra, ma nacque dal sangue degli italiani che combatterono sotto le bandiere di Napoleone, da Austerlitz alla campagna di Russia, ove il loro valore militare rifulse anche nella cavalleria comandata da Gioacchino Murat, suscitando l’ammirazione dell’Europa del tempo. Ne scrissero Silvio Pellico e il ventenne Giacomo Leopardi, che credeva nell’“Italia” quale correttivo della pochezza degli italiani.

 

In principio è la Grecia, Grande Madre delle Libertà

Nel 1815 il Congresso di Vienna ritenne di poter cancellare venticinque anni di storia bilanciando Tradizione e Legittimità e ignorando le “nazioni”, vittoriose su Napoleone nella battaglia di Lipsia (1813). Germogliate proprio per effetto della Grande Rivoluzione, queste andavano rimosse dalla scena. Troppo pericolose per un’Europa con la testa rivolta al passato remoto. Bisognava riportare le lancette all’indietro. Cancellare non solo Napoleone, ma anche quanti lo avevano avversato in nome della libertà di pensiero e di stampa, a tacere delle rivendicazioni sociali. Furono ripristinati i codici di fine Settecento, con tanto di torture e di esecuzioni efferate, come la pena della ruota. Tutto dove possibile, le monarchie appena restaurate, per consolidarsi, si afferrarono ai panni della Chiesa cattolica. A Pio VII e immediati successori non parve vero di avere quell’ombrello.

A squassare la “pax” artificiosa del Congresso di Vienna, basata sulla repressione, si mossero le periferie dell’Europa. Primi fra tutti furono i liberali di Spagna, che imposero al fatuo Fernando VII il ripristino della Costituzione del 1812, mentre al di là dell’Atlantico cominciò a collassare l’immenso impero coloniale di Madrid, dal Messico all’Argentina. Ma che cosa ne sapeva e ne capiva la generalità degli abitanti del Vecchio Continente, in massima parte analfabeti alle prese con la sopravvivenza e una speranza di vita ferma a 30 anni di età? Che cosa ne sapevano e capivano i governi di Stati di medie e piccole dimensioni, inclusi quelli del mosaico italiano dell’epoca?

A comprendere e a spiegare fu la minoranza colta, che promosse riviste (come a Milano “Il Conciliatore” di Federico Confalonieri e a Firenze l’“Antologia” di Gian Pietro Viesseux): una goccia nel mare del conformismo, ma combattiva e collegata alle avanguardie culturali d’Oltralpe, dalla Germania “narrata” da Madame de Stael alla Francia di René de Chateaubriand, all’Inghilterra (come la Gran Bretagna era comunemente detta).

Dopo la Spagna, fu la volta della Grecia. Il 7 marzo 1821, due secoli fa, Alessandro Maurogonato irruppe in Moldavia e Valacchia contro il secolare dominio turco-ottomano e il 9 aprile entrò in Bucarest. Il 3 aprile insorsero i Greci, ispirati dall’Eterìa (=Fratellanza), una società segreta nata a Odessa nel 1814 e costituita da capitani di mare, militari, studiosi, e protetta dallo zar di Russia, Alessandro I, deciso a tutelare sia i Luoghi Santi sia i greco-ortodossi dell’antica Ellade. Ne fu capofila Alessandro Ypsilanti.

Dopo la conquista di Costantinopoli da parte di Maometto II (1453), anche la Grecia era stata soggiogata dai turchi, che la scomposero in sei sangiaccati affidati a “beg”, che dominavano con imposizione fiscale vessatoria e rastrellavano ragazzi per l’esercito del Sultano. I tentativi di riscossa della Repubblica di Venezia fallirono lo scopo. Solo nell’età napoleonica risuonò la diana della riscossa, sull’esempio della “Marsigliese”: “Orsù, figli dell’Ellade...”. Poi la Grecia ripiombò sotto il giogo turco, ancora più duro e spietato. L’aspirazione all’emancipazione ellenica fu soffocata da spietati interessi politico-militari ed economici delle maggiori potenze “occidentali”. Con il Trattato di Giannina il 7 maggio 1817 l’Inghilterra restituì agli islamici alcune isole e cittadine greche temporaneamente libere. Fu il caso di Parga, i cui abitanti il venerdì santo del 1819 abbandonarono la propria terra, bruciarono tutto e partirono per Corfù, portando con sé anche le salme degli antenati. L’Europa liberale ne fu scossa. In Italia parlò per tutti Giovanni Berchet (Torino, 1783-Milano, 1852) nel poema I profughi di Parga. Carbonaro, cospiratore, esule a Parigi per sottrarsi alla feroce repressione austriaca, sensibile allo “Spirito che soffia dove vuole”, Berchet anticipò il celebre quadro di Francesco Hayez che nel 1831 immortalò la tragedia dei parghelioti.

La Grecia, dunque, era nel cuore dei liberali italiani quando il 9 aprile 1821 gli indipendentisti lanciarono l’appello all’Europa affinché accorresse in aiuto dei suoi “fratelli maggiori”. Per i colti era indissolubile il legame con la patria primogenita del Bello e Valoroso, della filosofia e della storiografia. All’insorgenza che indisse la crociata per la liberazione della Grecia e ottenne qualche successo soprattutto in mare, il Sultano rispose impiccando Gregorio V, Patriarca di Costantinopoli, e infierendo sulla popolazione. Lo zar Alessandro I cozzò con la Santa Alleanza, indifferente alle sorti dei greci e decisa, all’opposto, a schiacciare i liberali spagnoli con l’invio dell’esercito dei centomila “figli di San Luigi”, che avanzarono come un rullo compressore contro i costituzionali.

Malgrado dissidi interni, il 13 gennaio 1822 a Epidauro venne proclamata l’indipendenza della Grecia e fu approvata la “legge organica” di 110 articoli: una Costituzione alla cui elaborazione concorse Vincenzo Gallina (Ravenna, 1795-Aleppo, 1842), membro del Consiglio supremo carbonaro delle Romagne, esule al seguito di Pietro Gamba e apprezzato da Alessandro Maurocordato e da Teodoro Negri.

Due secoli di storia travagliata

La lotta dei greci per l’indipendenza si protrasse per un decennio, segnato anche dalle discordie al limite della guerra civile tra opposte fazioni. Essa fu scandita da orrori, come avvenne nell’isola di Chio e a Missolungi (ove il 19 aprile 1824 cadde il celebre e inarrivabile lord George Gordon Byron), riconquistate dai turchi, spintisi poi a riprendere l’Attica e la stessa Atene, seminandovi il terrore.

Dopo vari e inconcludenti trattati (1827-1828) e la vittoria navale franco-anglo-russa a Navarino (20 ottobre 1827), finalmente le potenze europee addivennero al Protocollo del 3 febbraio 1830 che instaurò in Grecia la monarchia costituzionale. Nel 1832 la corona fu assegnata a Ottone di Wittelsbach, figlio di Luigi I di Baviera. Nel 1863 (messa da canto l’ipotesi di conferirla ad Amedeo di Savoia, duca di Aosta, come propugnato dal monregalese Carlo Michele Buscalioni, che nel 1870 concorse poi a issarlo sul trono di Madrid e venne ripagato col titolo di “Grande di Spagna”) il trono passò a Guglielmo Giorgio, figlio di Cristiano di Danimarca, che assunse nome di Giorgio I. Ma il resto della penisola balcanica rimase nelle mani del Sultanato-Califfato “Grande malato d’Oriente”. Anche dopo il collasso dell’impero turco nella Grande Guerra, anche profittando della guerra civile in atto nell’ex impero zarista, l’“Occidente” continuò a lasciare in mano turca Costantinopoli. E così rimane. La miopia si paga nei secoli.

Conquistata l’indipendenza con dieci anni di guerra, la Grecia continuò ad avere una storia travagliata, ripetutamente lontana dagli ideali dei patrioti italiani che vi accorsero e donarono la vita per la sua libertà. Primo fra tutti Santorre di Santarosa...

 

Aldo A. Mola

 

SANTORRE DI SANTAROSA

UNA VITA PER LA LIBERTÀ DELLA GRECIA

 

“Quando si ha un animo forte, conviene operare, o scrivere, o morire” annotò Annibale Santorre Derossi, conte di Pomerolo e signore di Santarosa (Savigliano, 18 novembre 1783-Sfacteria, 8 maggio 1825) in un’accorata lettera spedita da Londra alla moglie, che non vedeva dall’inizio del suo forzato esilio (la si legge nella poderosa raccolta del suo Epistolario (1821-1825), curato da Antonino Olmo per la Biblioteca scientifica dell’Istituto per la storia del Risorgimento italiano (Roma, 1969).

Alfiere a tredici anni nei Granatieri reali comandati dal padre, Michele, colonnello e massone, Santorre partecipò alle battaglie contro l’Armata d’Italia di Napoleone a Mondovì (1796) e a Marengo (14 giugno), ove il padre lasciò la vita sul campo. Entrato nella vita pubblica, maire di Savigliano dal 1807 e sottoprefetto a La Spezia dal 1812, al mai interrotto studio delle armi e della storia unì la passione per le lettere, con l’intento di possedere la lingua italiana proprio quando Napoleone impose l’obbligo del francese nelle terre (come il Piemonte e la Liguria) direttamente annesse al suo Impero. Ne lo documentano la “Istoria del Romito” e i Carmi, che fece stampare in due sole copie nel 1812 e vennero ristampati dall’Artistica di Savigliano, a cura di Olmo. Forte dell’ampia cultura (di cui scrisse Antonio Piromalli negli atti del convegno saviglianese coordinato da chi scrive il 5 maggio 1984, con la partecipazione degli storici Narciso Nada e Franco Della Peruta, presente l’ambasciatore di Grecia), nel 1814, col ritorno a Torino di Vittorio Emanuele I, Santarosa entrò capitano nel reggimento Guardie e col suo I battaglione combatté valorosamente a Grenoble in difesa del restaurato Regno di Sardegna.

Affiliato alla Carboneria, società segreta mirante al ripristino della monarchia costituzionale, e a contatto con movimenti settari quali gli Adelfi e i Federati, egli fu tra quanti premettero su Carlo Alberto di Savoia-Carignano per la promulgazione della Costituzione spagnola detta di Cadice, rifiutata dal re, che preferì abdicare, e rinnegata dal suo successore (e fratello) Carlo Felice, che, temporaneamente a Modena, impose al parente di tredicesimo grado (qual era Carlo Alberto) di recarsi a Novara, agli ordini del maresciallo La Tour, pronto a stroncare la ribellione.

Quell’insorgenza da preminentemente monarchica assunse anche altre vesti, più radicali, in specie ad Alessandria. Ministro della Guerra nella Giunta provvisoria di governo, presieduta dal saluzzese canonico Bernardo Marentini, Santarosa sfuggì alla repressione ma venne impiccato in effige a Savigliano, per monito ai liberali. Riparato in Svizzera, da cui fu espulso, andò esule a Parigi, ove il filosofo Victor Cousin l’aiutò a migrare in Inghilterra per sottrarsi all’estradizione in “Piemonte” e alla tragica sorte che gli sarebbe toccata. A Londra Santarosa condivise l’esilio con Luigi Ornato (Caramagna Piemonte, 1787-Torino, 1842), una tra le menti europee più alte della sua epoca, e conobbe altri esuli insigni, come Ugo Foscolo. Privo di mezzi, visse di stenti. Deluso e a volte depresso (“I miei sogni, i sogni della mia vivissima fantasia, sono ormai svaniti...” scrisse nel 1823), nel novembre 1824 partì alla volta del Peloponneso con l’amico di sempre, Giacinto Ottavio Provana di Collegno, che indossava la divisa militare da quando aveva sette anni, per concorrere alla lotta dei greci contro i turchi di Istanbul e i loro alleati egiziani.

Si domandò: “chi sa quali accoglienze, chi sa che fine ci attende?”. Come temeva, i greci non gli conferirono alcun comando e riluttarono ad accettarlo persino come soldato semplice, nel timore che la sua presenza nelle loro file ostacolasse l’aiuto della Francia conservatrice di Luigi XVIII e di Carlo X e forse anche del governo inglese, scaltramente opportunista.

Inviato infine a soccorrere l’isola di Sfacteria, l’8 maggio 1825 fu travolto nella mischia e ucciso dal nemico che non faceva prigionieri se non nella certezza di trarne vantaggio col riscatto. Accorso nell’isola pochi giorni dopo, Collegno non ne rinvenne neppure la salma. Anni dopo gli venne eretto un modesto monumento su impulso di Cousin.

La sua vera eredità furono il meditato e sofferto saggio La Révolution piémontaise (1822, ristampata a Torino nel 1850 e di prossima riedizione anastatica come “Quaderno de L’Ipotenusa”), vari memoriali, che saranno alla base del convegno in programma a Pinerolo sabato 18 settembre 2021 per iniziativa della Società Storica Pinerolese, e soprattutto il suo esempio di coerenza, spinto sino al sacrificio della vita in nome di un ideale universale: la libertà e la fratellanza dei popoli, enunciato con Guglielmo Moffa di Lisio all’inizio del moto costituzionale del marzo 1821.

Aldo A. Mola

 

Stampa solo il testo dell'articolo Stampa l'articolo con le immagini

Articolo pubblicato il 28/03/2021