Perché in Italia si semina tanto odio?

Riflessioni pasquali sulla degenerazione del linguaggio, dai politici ai social

E’ Pasqua ed almeno oggi eleviamo lo sguardo oltre le meschinità e contraddizioni della nostra politica. In più, a Torino, nel pomeriggio di ieri, in occasione del Sabato Santo, evento centrale per la cristianità, l’arcivescovo di Torino, mons. Cesare Nosiglia, ha celebrato una speciale liturgia nella Cattedrale, davanti alla Sindone. Evento di cui daremo risalto nei prossimi giorni. Ma proprio con l’anelito di pace e di miglioramento personale e sociale, non possiamo esimerci da rendere pubblica qualche considerazione.

È molto diffusa la critica al linguaggio usato da una buona parte degli utenti dei social media. È un linguaggio irresponsabile – questa è l’accusa – che molto spesso incita all’odio senza che sia possibile esercitare su questi mezzi un controllo adeguato, senza che gli autori di veri e propri reati possano essere chiamati a rispondere delle loro azioni. Si tratta di una critica ben fondata anche se finora non si è trovato il modo di far corrispondere all’ampia libertà che i social media offrono un adeguato uso del principio di responsabilità.

Ma bisogna anche chiedersi se questa vera e propria semina dell’odio venga esercitata soltanto attraverso i social media o se viceversa essi siano l’aspetto più visibile e clamoroso di una degenerazione del linguaggio politico che coinvolge anche attori che, al contrario dei “leoni da tastiera”, godono di un preciso status professionale e sono facilmente identificabili.

Il primo fenomeno che salta all’occhio è costituito dai cosiddetti talk-show. È un fenomeno che ha avuto in Italia una diffusione sconosciuta ad altri Paesi europei. Chiunque segua un dibattito politico su una qualsiasi televisione europea non può non essere colpito dalla diversità di linguaggio usato anche quando lo scontro politico è particolarmente aspro. La ragione è trasparente ed è resa visibile nel termine stesso che viene usato.

Se l’essenza stessa di questo genere di trasmissioni è lo spettacolo e se questa spettacolarizzazione deve essere raggiunta esclusivamente con le parole (non con la musica, con la danza o con gli altri mezzi abitualmente usati negli spettacoli televisivi) allora è inevitabile che le parole debbano caricarsi di un peso che va al di là del loro significato.

Questo peso aggiuntivo è costituito non solo dall’uso di termini dove il superlativo, anziché essere una modalità di espressione eccezionale, diventa la regola. L’insulto – che dovrebbe essere anch’esso una modalità di espressione eccezionale – diventa, nei talk show, una forma linguistica accettata e, si può dire, prevista. È così che la macchina dell’odio si mette in moto e una volta attivata vive di vita propria.

La situazione nel mondo della carta stampata sembra andare meglio, non fosse altro perché la parola scritta lascia una traccia più visibile e induce a una maggiore cautela. Tuttavia anche in questo campo non manca la semina dell’odio. Poi ci sono trasmissioni che, forse per l’inclinazione dei conduttori o su pressione degli editori, toccano il fondo della volgarità e del disprezzo.

Ma se riflettiamo, si stanno usando tecniche non nuovissime, erano già state sperimentate dai regimi totalitari del ‘900. Fa comunque un certo effetto ritrovare in un quotidiano del nostro tempo gli stilemi tipici del “Völkischer Beobachter”. D’altra parte la cosa non può stupire più che tanto: per secoli l’odio si è esercitato soprattutto contro gli eretici e le minoranze, non è quindi un caso che a questi modelli si attinga per l’esercizio dell’insulto contemporaneo.

Gli autori ben noti di queste scelleratezze, non si ritengano innovatori, bensì emuli del peggior giornalismo di regime, anche se si pavoneggiano con altri colori e sono a libro paga di giullari e naif.

Stampa solo il testo dell'articolo Stampa l'articolo con le immagini

Articolo pubblicato il 04/04/2021