La «Torino noir» vista e narrata da Milo Julini

Adulterio, che passione!

Oggi si sente spesso affermare che Torino sia una città magica. Sarà poi vero? Certo che anche nelle storie di corna che stiamo considerando può entrare la magia, almeno nell’opinione di un marito ingenuo.

Lo racconta La Stampa dell’11 agosto 1951 dove leggiamo:

 

In seguito alla denuncia di un giovane, ed estremamente ingenuo marito, il commissariato di San Paolo ha risolto in questi giorni un’intricata questione coniugale. All’ufficio di polizia si presentava tempo fa un operaio ventitreenne raccontando che sua moglie - una graziosa brunetta di 19 anni - era ossessionata da un giovanotto dotato di arti magiche.

«Non appena io esco per recarmi al lavoro, costui suona alla porta di casa e con la sua forza magnetica costringe mia moglie ad introdurlo. Non posso certo pensare che ci sia qualcosa di male, perché la mia Elisa è una creatura angelica, ma la cosa è ugualmente spiacevole. Vi prego, fate qualcosa...».

Il sottufficiale che aveva ricevuto la denuncia, meno ingenuo dell’operaio, intuiva subito come stavano le cose e sottoponeva l’«angelica» Elisa ad un interrogatorio inducendola a confessare che il presunto mago altri non era che il suo amante, un focoso siciliano da poco giunto a Torino. Quest’ultimo veniva rintracciato e rimpatriato con foglio di via obbligatorio.

Il secondo racconto ci propone una scena classica delle pochade francesi: il marito, che dubita della fedeltà della consorte, tende una trappola annunciandole una sua prolungata assenza notturna, per poi rientrare e constatare cosa succeda in sua assenza.

Una investigazione fai-da-te che non sempre porta a risultati soddisfacenti come racconta La Stampa del 18 dicembre 1951:

 

Il Commissariato di San Secondo s’è dovuto ieri mattina interessare di un insolito casa d’adulterio.

Da tempo il signor Salverio M. di 35 anni, abitante in corso Orbassano, sospettava fortemente della fedeltà di sua moglie Anna, una ventiquattrenne biondissima e formosa.

L’altra sera usciva di casa verso le 21 e diceva alla moglie:

«Bada, non rientrerò prima delle una o delle due. Stasera al circolo avremo una seduta di fine d’anno lunghissima».

Invece alle 22,30 ritornava. Accostava l’orecchio alla serratura e gli sembrava di udire, con la voce di sua moglie, quella robusta di uno sconosciuto. Cercando di fare il minor strepito possibile, infilava la chiave nella toppa ed apriva. L’anticamera era buia. Allungava una mano per raggiungere l’interruttore e accendere la luce, ma incontrava il corpo della moglie, che s’era addossata alla parete. Nel tempo stesso avvertiva, nella stessa anticamera, un fruscio: indubbiamente c’era qualcuno. La collera lo stravolgeva. Si gettava in avanti e sferrava un tremendo pugno alla cieca, in direzione del fruscio. Gli rispondeva un urlo di dolore. Faceva per avvinghiare l’avversario, ma alle sue spalle piombava la moglie, che gli faceva uno sgambetto e lo scaraventava al suolo. Intanto la porta d’uscita dell’alloggio si apriva e si chiudeva. Un uomo era sgusciato fuori.

Un attimo dopo il Salverio era sul pianerottolo: ma l’intruso era già in fondo alle scale: inutile inseguirlo. Rientrava in casa e il succinto abbigliamento della moglie e un certo disordine nel salotto gli confermavano decisamente i sospetti. La moglie però negava: e ne sorgeva una lite che si protraeva sino all’alba.

Ieri mattina, pallido e stralunato, meditando la separazione legale, il Salverio M. s’avviava in ufficio. Ed ecco, in corso Stati Uniti s’imbatteva in tale Mario F., un suo amico che da parecchi mesi aveva identificato per un corteggiatore della moglie. Il Mario F., come lo vedeva, cercava di scantonare: aveva una ferita sotto l’occhio sinistro, risultato certo di un formidabile pugno.

Lo rincorreva e lo fermava, gli chiedeva conto della ferita. L’altro s’impappinava, impallidiva, balbettava, non sapeva dare spiegazioni. Il diverbio scoppiava, si radunava attorno una piccola folla. I due uomini finivano al Commissariato S. Secondo, ove il Mario F. dapprima confessava e poi ritrattava la confessione.

Dal canto suo l’Anna M. seguitava a negare. Sono in corso indagini e il marito ha dichiarato che, appena sarà in possesso delle prove inconfutabili, inizierà le pratiche per la separazione legale.

Tra la goffaggine del marito e il sabotaggio della moglie fedifraga, la sorpresa è stata in parte vanificata. Soltanto il caso ha permesso il riconoscimento dell’amico (bell’amico!) che gli insidia la moglie.

«S’it veule mariete, l’é mej ch’i të spete. S’at passo le veuje, it ses fortunà» (Se vuoi sposarti, è meglio che aspetti. Se ti passano le voglie, sei fortunato), dice il ritornello della canzone ‘L divorssi, di Roberto Balocco. Una malinconica constatazione che pare adatta come commento alla nostra storia: la normativa in vigore nel 1951 punisce l’adulterio, ma soltanto previa constatazione da parte della Polizia. E in questo caso moglie e amante sono due ossi duri: chissà come si sarà conclusa la triste vicenda del nostro povero Salverio?

Concludiamo con una declinazione molto particolare di adulterio. Così la racconta un anonimo cronista su La Stampa del 17 aprile 1951:

Un uomo sulla quarantina, piccolo e magro, un poco calvo, saliva ieri, con molte esitazioni, le scale di uno stabile di via Bardonecchia. Giunto all’ultimo piano sostava a lungo dinanzi a un uscio, poi si decideva a suonare. Veniva ad aprire un omaccione peloso, di aspetto trucibaldo. Dietro s’intravvedeva una donna di 30-35 anni, formosa e piacente. Fra i tre s’intavolava un’accanita discussione: l’ometto chiedeva con insistenza, implorando, qualcosa: e gli altri negavano recisamente.

Infine l’omaccione s’infastidiva, afferrava con un sol braccio il malcapitato e lo scaraventava contro il muro del pianerottolo: e poiché l’altro insisteva gli rifilava un pugno tale da chiudergli un occhio. Dopo di che la coppia si ritirava, sbattendo la porta.

L’ometto ridiscendeva le scale, passava da un farmacista per la medicazione e infine si presentava all’ufficio di P. S. dl borgo S. Paolo. «Tre giorni fa mia moglie è scappata di casa, durante una mia assenza di ventiquattr’ore. E s’è portata via mobili, biancheria, oggetti varii: tutta roba di mia proprietà. Ho girato, ho indagato: e ho saputo che mia moglie, con il suo amante, s’era sistemata in una soffitta di via Bardonecchia. Ci sono andato... E guardi, mi hanno ammaccato un occhio». «Capisco, lei voleva che sua moglie tornasse a casa e allora...». «Ma no, ma no! In volevo la roba, non la moglie! Per carità, maresciallo, per tutto l’oro del mondo non desidererei che mi fosse restituita. Sapesse che carattere... Se la tenga pure, quel facchino! Ma mi restituisca la roba! La moglie gliela cedo, la roba no».

Grazie all’intervento di due agenti la coppia era costretta a ridare al marito tradito e derubato l’intero maltolto. Ma nonostante le insistenze dei funzionari, l’ometto s’è rifiutato di sporgere denuncia d’adulterio e di abbandono di tetto coniugale.

 

Una conclusione malinconica per una situazione un po’ squallida.

Cerchiamo di nobilitarla con il ricordo della commedia “Sotto a chi tocca” di Luigi Orengo, resa nota dall’interpretazione di Gilberto Govi: il protagonista, Bertomé Pittaluga, è un ometto deriso e compianto perché cornuto. È stato infatti abbandonato dalla moglie che dall’amante ha avuto un figlio. Ma proprio grazie a questo figlio, Bertomé potrà entrare in possesso di una eredità milionaria!

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Articolo pubblicato il 15/04/2021