Napoleone: fu vera storia
Napoleone Primo Console: le dita a compasso del Legislatore, un messaggio cifrato verso l’Impero del Sole (Dipinto di Jean Auguste Ingres).

di Aldo A. Mola

L’“ardua sentenza” ...

A distanza di due secoli si può rispondere all’interrogativo posto da Alessandro Manzoni (Milano, 1785-1873) in Cinque Maggio: “Fu vera gloria?”. Oggi si può pronunciare l’“ardua sentenza”: Napoleone il Grande fu “vera storia”. Cattolico non senza ambasce, nella stagione degli Inni sacri e delle tragedie (Il conte di Carmagnola e Adelchi) il poeta e scrittore milanese conferiva al sostantivo gloria un valore aggiunto, morale, che in sé originariamente esso non ha. Manzoni ritenne di dovere distinguere la nomea imperitura conquistata dall’Eroe con imprese memorabili talora atroci, svettanti e abissali a un sol tempo, e la gloria “vera”, riservata non tanto a chi raggiunge fama universale, ma al campione di valori positivi, al “cavaliere dell’umanità”, novello Baiardo senza macchia e senza paura e soprattutto senza imputazioni di sorta. Di lì la sua esitazione a tracciare il bilancio del quarto di secolo dominato da Napoleone, che aveva sulle spalle azioni spregiudicate come l’arresto di Cadoudal, poi suppliziato, e il rapimento e fucilazione del duca di Enghien (“più che un delitto, un errore” osservò Charles-Maurice di Talleyrand, “vescovo apostata” di Autun (come scrive p. Giovanni Sale S.J. in “La Civiltà cattolica” del 15 aprile 2021).

Da poeta “morale” (come avrebbe osservato Dante), sulla futura “ardua sentenza” Manzoni insinuò condizioni che debbono stare al di fuori sia dell’accertamento processuale di colpevolezza, sia della storiografia. Nel primo i magistrati debbono accertare e valutare i fatti non sulla base delle proprie inclinazioni personali, bensì secondo le leggi, che non sono mai retroattive (nullum crimen sine lege). Senza dover ricordare la lezione di Benedetto Croce, il giudizio storiografico vero è formulato correttamene se ci si cala nell’epoca e nelle vicende degli uomini sui quali si “indaga”, senza pretendere di impartire lezioni al passato remoto. Ne conviene padre Sale che giustamente dissente da valutazioni retrospettive anacronistiche, “anche perché spesso i personaggi storici, come anche gli eventi della storia, possono essere giudicati e letti in modo differente a seconda della sensibilità e degli orientamenti psicologico-culturali di chi li valuta e, soprattutto, della cultura dominante in un certo periodo storico”. Vale per i pontefici e gli ecclesiastici cattolici del passato prossimo e remoto, come per gli “eresiarchi” (Giovanni Calvino fece bruciare vivo Michele Serveto per mero dissenso teologico), nonché per gli imperatori, re, principi e capitani come Cesare Borgia ammirato da Niccolò Machiavelli in Il Principe, capolavoro del discernimento oggi raccomandato da papa Francesco.

Quando correttamente rinviò ai “posteri” l’“ardua sentenza” Manzoni interpretò dunque la necessità di lasciar decantare il tempo. La pula si sarebbe separata dal chicco, la fanghiglia si sarebbe depositata sul fondo; l’acqua, tornata limpida, avrebbe fatto distinguere il durevole dal contingente, l’imminente dall’immanente, permettendo di cogliere i raggi della “vera gloria”.

Napoleone, Uomo cosmico-storico

Nel 1821 sull’“immagine” dell’Imperatore si allungavano le ombre del trentennio di conflitti che avevano sconvolto l’Europa, inclusa la feroce guerrilla degli spagnoli contro francesi e afrancesados (1808-1813), prima lotta per l’indipendenza nazionale, assunta a modello dai Fronti di liberazione nei due secoli seguenti, compresi quelli contro il dominio coloniale europeo negli spazi afro-asiatici, dall’Algeria all’Indocina (ma possiamo aggiungervi anche quelli nell’America latina contro regimi dittatoriali tenuti per le dande dagli Usa: valga il caso della Bolivia di “Che” Guevara).

Gigante buono per gli uni, Mostro tirannico per gli altri, Napoleone era già stato collocato nella giusta cornice dal Giorgio Guglielmo Federico Hegel, che lo aveva definito “Genio del mondo”. L’imperatore non era solo un “se stesso”, il trentacinquenne asceso dalla difficile adolescenza e da imprese azzardate e sfortunate per l’indipendenza della sua nativa Corsica a dominatore dell’Europa, vittoria su vittoria, da Marengo ed Ulm e ad Austerlitz e a Iena. Era Uomo cosmico-storico. Vi è motivo di rileggere il filosofo nella traduzione delle Lezioni sulla filosofia della storia pubblicata da Guido Calogero e Corrado Fatta nell’ottobre 1941 (ed. La Nuova Italia), all’indomani dell’“Operazione Barbarossa” e poco prima che la guerra europea divenisse nuovamente mondiale. Gli individui cosmico-storici, scrisse Hegel, “afferrano lo spirito universale superiore” del Tempo e “ne fanno il loro fine”. Sono “lo spirito che batte alle porte del presente, che è tuttora sotterraneo. Gli altri debbono loro obbedire perché lo sentono. I loro discorsi e le loro azioni sono il meglio che poteva essere detto e fatto. Così i grandi individui storici si possono comprendere solo al loro posto”, cioè quando “lo stato del mondo non è ancora conosciuto” ed essi “lo producono trovandovi la propria soddisfazione”. Certo gli individui cosmico-storici “soddisfano dapprima sé medesimi: non agiscono affatto per soddisfare gli altri (...) resistere a questi individui è impresa vana. Essi sono spinti irresistibilmente a compiere la propria opera. C’è in essi un potere sopra loro medesimi”. Sono, in sintesi “condottieri di anime” al cui seguito si pongono anche quanti non lo comprendono appieno e persino li avversano ma ne sono fascinati, attratti, rapiti e ne divengono comunque seguaci. Hegel non lo scrive ma si può aggiungere che sono demoniaci, pervasi dal dàimon che, anziché frenarli, li sospinge ad andare sempre oltre, anche al di là dei propri stessi “sogni”: Alessandro Magno, Caio Giulio Cesare e i veramente grandi navigatori ed esploratori, gli inventori e gli scienziati che hanno cambiato il mondo, i poeti, i compositori, gli artisti che hanno dato forma universale alle “voci” che i più sentivano senza saperle tradurre in Verbo e questo in Atto, come Giovanna d’Arco, arsa viva e secoli dopo proclamata santa.

 

Dalla giovinezza, sottotenente d’artiglieria (l’“arma dotta”), guardato con degnazione perché da poco citoyen e poi dalle amicizie sospette (quella con Augustin Robespierre, fratello del giacobino e terrorista Massimiliano rischiò di costargli cara), Buonaparte (cognome di non facile pronuncia in francese) accompagnò gli studi giovanili di matematica, balistica e geografia e le velleità letterarie, consegnate al romanzo che gli meritò la “comprensione” postuma dei tanti “colleghi mancati”, con la lettura appassionata dei classici della storiografia greco-romana, in specie le Storie di Polibio e le Vite parallele di Plutarco. I suoi modelli erano i grandi capitani dell’antichità, gli strateghi che nei secoli avevano colto la vittoria con geniali manovre, gettando infine nella mischia i reparti di élite, tenuti di riserva per infliggere il colpo finale e menare strage dei vinti. Per quegli uomini cosmico-storici i combattimenti non erano carneficina e dispendio di vite umane ma Arte della Guerra e i terreni delle battaglie non erano lugubri distese di morte ma campi della Gloria. Immorali o quanto meno “amorali”, per chi si fermava allo spettacolo desolante dei cadaveri e dei feriti (spesso destinati al trapasso) ai suoi occhi erano, se si preferisce, affermazione di altra e più alta moralità: la carne che si fa Spirito, l’azione tumultuosa che diviene sviluppo dell’Idea.

 

Dalla prima campagna militare condotta dall’Armata d’Italia in autonomia di decisione (1796-1797), Napoleone mostrò la sua personale concezione dell’impiego della forza militare. Come intuito dai coevi Jomini e Clausewitz la guerra è in tutto e per tutto politica, accelerazione della maturazione dei tempi, sintesi del trapasso dalla potenzialità all’atto. Sbaragliare gli eserciti austro-sabaudi in poche settimane, imporre esosi armistizi, profittare delle illusioni di chi, come Foscolo, lo celebrava “liberatore”, salvo constatare che trattava la Repubblica di Venezia quale pedina di un gioco europeo, molto più ampio dell’ottica locale, uscire temporaneamente dalla scena franco-italica per colpire l’Inghilterra in India, passando dall’Egitto e dal Vicino e Medio Oriente (dalla battaglia delle Piramidi all’assedio di San Giovanni d’Acri) segnarono il cambio storico). Esso sfuggì ai Termidoriani e al Direttorio, espressione di una nuova casta impastata di borghesi arruffoni e aristocratici trasformisti, come anche ai seguaci del visionario Caio Gracco Babeuf. Esaurita la spinta innovatrice della Rivoluzione (diritti dell’uomo e del cittadino, avvento della nazione, avvio di profonde riforme sociali), uomini come Barras concepivano l’espansione della Francia come ingorda rapina. Ma la Rivoluzione non era affatto conclusa: mancavano i nuovi codici e il rinnovamento dello Stato. A restituirle impulso non furono l’annessione di Malta, sottratta all’Ordine dei Cavalieri di San Giovanni, e la “spedizione in Egitto”, col seguito di cinquecento tra gli esponenti della cultura d’avanguardia cresciuta nella lettura dell’Enciclopedia di Diderot e d’Alembert e delle opere di Voltaire (non solo Candide o La Pucelle d’Orléans, poi tradotto da Vincenzo Monti, ma quelle di storia, su Luigi XIV, le più pregnanti). A risvegliare i già insonnoliti post-rivoluzionari provvidero gli austro-germanici vittoriosi sulle armate francesi sul Reno e in Svizzera e soprattutto l’irruzione dei russi di Suvorov per la prima e sino ad ora unica volta nella Pianura Padana. I popoli della penisola e delle grandi isole erano abituati da secoli a invasioni e scorrerie, perché (come aveva osservato Francesco I di Francia che vi si affacciò nel 1515) non c’era terra migliore per condurre una guerra: campi ubertosi, ricche città, abitanti volgenti alla codardia e facilmente succubi. Da spartire nelle lunghe guerre per l’egemonia. Lo ripeté pari pari il generale Buonaparte nel proclama all’Armata d’Italia (aprile 1796). Ma i cosacchi di Suvorov non erano le feroci “compagnie di Santa Fede” del cardinale Ruffo o le “masse cristiane” di Branda de’ Lucioni: erano satanassi. Compirono ruberie e menarono stragi che nessuno immaginava. Di lì l’urgenza della riscossa, a nome della Francia, dell’Europa centro-occidentale e quindi di una nuova idea della Missione del potere politico-militare. Da quell’humus in pochi mesi nacquero i cosiddetti “colpo di Stato” del 18 brumaio (9 novembre) 1799, il Consolato e infine la proclamazione dell’Impero dei francesi per voto popolare (romanamente plebiscito) e il sacre del 2 dicembre 1804 in Notre Dame a Parigi, presente e silente papa Pio VII, come poi il cardinal Caprara nel Duomo di Milano per l’incoronazione di Napoleone a Re d’Italia (Lombardo-Veneto, ex ducati padani per secoli “a noleggio” e Legazioni pontificie): completa della Corona Ferrea, simbolo della monarchia in Italia.

Tre anni dopo, nel 1808, Napoleone capovolse la clessidra. Dopo aver ripristinato il calendario giuliano, cancellando quello repubblicano, ormai fastidioso, fece deportare il pontefice e ne inglobò lo Stato, ma in forma labile. La svolta epocale venne il 20 marzo 1811 quando conferì il titolo di Re di Roma a Napoleone Francesco Carlo Giuseppe, il figlio avuto dalla seconda moglie, Maria Luisa d’Asburgo.

Quel giorno la Città Eterna (e con essa l’“idea di Italia”) rischiò davvero di rimanere inchiodata per sempre nella condizione di provincia dell’Impero napoleonico: da caput mundi a periferia della storia.

 

La sindrome di Sant’Elena

Sconfitto in Russia (1811-1812), battuto a Lipsia (1813) e poi sul Reno, costretto all’abdicazione (Fontainebleau, aprile 1814), il 26 marzo 1815 Napoleone salpò dall’Elba per la Francia. Guidò la spedizione dei mille e cento imbarcati sull’“Inconstante” e sei piccole navi d’appoggio alla volta della Costa Azzurra dove tutto era iniziato tra il 1793 e il 1796. In dieci giorni raggiunse Lione. Il 14, con voltafaccia prevedibile, schierò con lui il maresciallo Ney che aveva promesso di portarlo in gabbia di ferro a Luigi XVIII, subito fuggito da Parigi. Il 20 rientrò a Fontainebleau. Quaranta giorni dopo, il 1° giugno 1815 annunciò solennemente al Campo Marzio in Parigi l’Atto Addizionale, redatto con il consiglio di Benjamin Constant, che lo aveva strenuamente avversato dall’esilio svizzero e ora concorreva alla svolta “liberale”. Ancora una volta Napoleone era l’Età Novella. In armi. Precorse l’invasione nemica irrompendo in Belgio. Il 12 batté l’inglese duca di Wellington, mentre Ney sconfiggeva i prussiani. Il 18 la battaglia decisiva a Waterloo. A lungo la vittoria sembrò a potata di mano, ma nell’ora decisiva anziché de Grouchy (inetto o infido?) sul campo arrivò Bluecher. Fu la fine. Chi non cadde sul campo, come Cambronne (“La Guardia muore ma non si arrende”: un motto tante volte riecheggiato nelle due guerre mondiali), finì prigioniero e suppliziato (come Ney). L’Imperatore tornò a Parigi e per la seconda volta abdicò a favore del figlio, l’Aiglon. Persa la speranza d’imbarcarsi per gli Stati Uniti, si consegnò agli inglesi sul “Bellorophont”: meglio che la fucilazione da parte di Bluecher.

L’8 agosto iniziò la sua deportazione verso l’“isoletta sperduta nell’Atlantico”. A Sant’Elena giunse il 15 ottobre. Vi visse prigioniero col seguito dei suoi fedelissimi, sorvegliato dall’arcigno Hudson Lowe. Iniziò la sua nuova vita. Non quella del Memoriale dettato a Las Casas. Ormai era l’Inquietudine dei due mondi. Il Congresso di Vienna non riportò l’Europa all’Ancien Régime. Molti e profondi mutamenti erano irreversibili. In Svezia il maresciallo napoleonico Bernadotte dette inizio alla dinastia tuttora regnante.Con il Blocco doganale continentale Napoleone anticipò l’Europa odierna. La Gran Bretagna si tenne fuori dalla Santa Alleanza ideata dal cancelliere austriaco Metternich, tra impero asburgico, Russia, Prussia, Francia e stati di minor peso, inclusi il regno delle Due Sicilie e quello di Sardegna.

Il 1815 non fu mera Restaurazione neppure in Francia. Luigi XVIII di Borbone regnò col vincolo di una costituzione. I re che ne avevano concessa una, salvo abrogarla, dalla Spagna a Napoli, vissero con l’incubo delle rivendicazioni liberali, che non tardarono a manifestarsi con cospirazioni, insorgenze, moti.

 

… e la Rinascita dell’Italia

Il 1°aprile 1817 venne pubblicato a Londra il Manuscrit venu de Saint-Hélène d’une manière inconnue (ed. John Murray, Alemarle Street). Nel 1982 l’ambasciatore e storico Sergio Romano ne scrisse la storia (ed. Bompiani). Già a giugno Napoleone ne ebbe estratti e li confrontò con quanto aveva vissuto e stava narrando di sé.

Dallo scoglio sperduto tornò il cuore dell’Europa. Innumerevoli furono i progetti di colpi di mano per liberarlo; altrettante le fiabe sulla sua fuga; molti non credettero affatto che fosse davvero morto il 5 maggio 1821. Il cinquantaduenne sepolto all’ombra di due salici a Sant’Elena non era, non poteva essere, “Lui”. E infatti visse di nuova vita. Era Osiride, quale venne e tornò a essere celebrato nei templi massonici nei due secoli seguenti. A quella vera luce si ispirarono il Risorgimento e l’Italia unita, foriera di indipendenza, libertà, progresso civile, uguaglianza nella legge, con la guida di Vittorio Emanuele II. Il suo beneaugurante “Governatore”, Cesare Saluzzo di Monesiglio, gli aveva donato la “spada di Napoleone”; per “simbolo” della regalità in Italia il sovrano sabaudo scelse, a sua volta, la Corona Ferrea.

 

Aldo A. Mola

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Articolo pubblicato il 18/04/2021