Napoleone
Napoleone con corona apollinea e sciarpa massonica

Imperator Mundi e novello Osiride (di Aldo A. Mola)

Col manto verde di Re d’Italia

A Milano la mattina del 26 maggio 1805 un fastoso corteggio lasciò Palazzo Reale alla volta del Duomo. Avanzò sotto una galleria di seta e di velluto appositamente allestita per velare i celebranti dagli astanti, i “consacrati” dai “laici”, vulgus profanum, spiritualmente povero, ammesso a “vedere” ma escluso dal rito. Avvolti in quelle nuvole, come gli Dei dell’Olimpo nell’Iliade poco dopo tradotta da Vincenzo Monti, bonapartista e massone, la processione avanzò a passo solenne. Alle insegne dell’Imperatore seguirono gli “Onori di Carlo Magno”, la corona, lo scettro e la mano di giustizia. Subito dietro venne recata la Corona Ferrea, emblema della regalità in Italia, con scettro, mano di giustizia, anello, spada e manto (verde, colore distintivo del regno d’Italia). Poi sfilarono le insegne dell’Impero: scettro, mano di giustizia, collare, spada, manto (blu: colore dell’Infinito) e il Globo, simbolo della sovranità universale. Tre volte replicata nel corteo, issata su lunga asta, la mano di giustizia era una destra spalancata con pollice, indice e medio distesi, segnacolo dell’intangibile equità della Norma: benedice, punisce, dispensa grazia.

Nell’incoronazione di Re d’Italia Napoleone non si propose quale corrusco Condottiero d’eserciti. L’Europa era in pace. L’“Italia” anche, grazie a “Lui”. Dopo l’ora di Caio Giulio Cesare, generale invitto, parens patriae e pontifex maximus, era scoccata quella di Ottaviano Augusto e della sua reincarnazione: Napoleone. Come Cesare, anche Bonaparte era di origine divina: l’uno da Venere, l’altro da Marte.

All’ingresso in Duomo l’imperatore fu accolto dall’arcivescovo Giovanni Battista Caprara Montecuccoli, delegato di papa Pio VII, che lo accompagnò sino ai piedi dell’Altare, sul quale erano disposte le insegne e gli onori. Dopo averli benedetti, il successore di Sant’Ambrogio (340-397 d.Cr.) porse uno a uno a quello di Teodosio (347-395 d.Cr.) i simboli della regalità: l’anello, la spada, il manto, la mano di giustizia e lo scettro. Infine, la Corona Ferrea. Napoleone l’afferrò e l’accostò al capo pronunciando con voce tonante: “Dio me l’ha data, guai a chi la toccherà” (non, come solitamente, si ripete, “a chi me la tocca”). Forgiata (secondo la Tradizione) con il chiodo della Crocifissione di Cristo, non era “sua”, ma del Regno “in” e “di” Italia, di chi l’aveva e di chi l’avrebbe calcata nel corso dei secoli. I sovrani passano; la Regalità rimane, al di sopra di contese tra pretendenti, tumulti, rivoluzioni e attentati mortali al suo titolare pro tempore. Essa è.

Consacra il Capo dello Stato e capo delle forze armate di terra e di mare...

Napoleone impartì una lezione di storia. Per l’Italia iniziava un’Età Novella, rappresentata dalla Corona Ferrea, emblema non del potere personale del Re-Imperatore (o, se si preferisce, dell’Imperatore e Re) ma della sua identità millenaria, pegno dell’integrazione del nuovo regno nell’ambito dell’Impero.

Nella raffigurazione due anni dopo immortalata in Palazzo Reale, il pittore aulico Andrea Appiani, affiliato nella loggia massonica milanese “Gioseffina Reale” (imitatore di Jean-Auguste Ingres e dell’ancor più celebre Jacques-Louis David) si prese alcune significative libertà. Ritrasse Napoleone mentre si pone sul capo una mai esistita né mai usata corona “chiusa” anziché la Ferrea o il diadema apollineo caro all’Imperatore. Alle sue spalle, sulla destra e sino al fianco, si accalcano gli ecclesiastici; sulla sinistra le sorelle di Napoleone e i dignitari del Regno; più lontano una folla di franco-italici esulta. Alcuni levano il braccio destro tendendo romanamente la palma distesa. Nel dipinto di Appiani l’imperatrice Giuseppina (invero assente a Milano) veglia sull’incoronazione, che si sostanziò nel conferimento del titolo di viceré a suo figlio Eugenio di Beauharnais, adottato da Napoleone ancora fiducioso di avere un maschio dalla ormai attempata consorte.

 

Il retroterra esoterico dell’Impero

Appena ventiquattrenne e ancor privo di formazione politica e di comando, Eugenio era stato inviato a Milano due mesi prima, forte del sostegno di un’organizzazione segreta e potente: il massonico Supremo Consiglio del Rito scozzese antico e accettato, costituito il 16 marzo 1805 a Parigi da alcuni fiduciari dell’imperatore (Auguste de Grasse-Tilly, Jean-Baptiste Pyron...) e da esponenti dell’Ordine Nuovo “en Italie”. Tra il 1792 e il 1804 nella Penisola si erano diffusi spiriti giacobini risolutamente repubblicani. Melchiorre Gioia aveva vinto un famoso concorso letterario sulla forma di Stato che più si acconciasse al Paese con una dotta dissertazione a sostegno della Repubblica. Di identico avviso era Giandomenico Romagnosi, massimo costituzionalista italiano dell’Ottocento, a sua volta “oratore” nella “Gioseffina Reale”. La storia dettava la via. Al di qua delle Alpi, re, granduchi e duchi si erano mostrati inferiori al compito che le cariche ricoperte imponevano. Le repubbliche di Genova e di Venezia avevano fatto pessima figura. Nessuno le rimpiangeva. I cardinali-legati di Pio VI e di Pio VII erano malfamati per il loro pessimo governo. Venivano ricordati per le sofferenze strazianti inflitte al povero Giuseppe Balsamo, noto come Alessandro conte di Cagliostro, imprigionato e martirizzato nel pozzetto del forte di San Leo, e per l’orrenda morte di Luigi Zamboni e Giambattista De Rolandis, studenti nell’Università di Bologna, ideatori del tricolore italiano, arrestati e ferocemente torturati a Bologna quali cospiratori per la libertà e filo-francesi. Zamboni fu trovato impiccato in una cella nella quale non poteva stare neppure in piedi. Condannato al capestro De Rolandis fu previamente “privato delle forze” (ovvero evirato) e condotto alla Montagnola. Il boia, inetto e feroce, gli salì sulle spalle perché aveva impostato male il cappio e la vittima stentava a morire.

Era poi nato il ventaglio di Repubbliche (Cispadana, Cisalpina...) le cui assemblee erano dominate da tonsurati voltagabbana come il prete défroqué che a Reggio Emilia propose un bizzarro tricolore pezzato (simile a quello della Presidenza delle Repubblica italiana, quasi sia paleo-giacobina). Infine i rappresentanti della Cisalpina, convocati da Napoleone a Lione e capitanati da Francesco Melzi d’Eril, si acconciarono a proclamare la “repubblica italiana”, volano del “Royaume d’Italie” poi imposto da Napoleone ai sudditi del Lombardo-Veneto. Mai stati padroni della propria sorte, subirono. Quel Supremo Consiglio concorse alla loro conversione da repubblicani a bonapartisti devoti. Il massone Francesco Saverio Salfi (Cosenza, 1759-Parigi, 1852), ecclesiastico pentito, giacobino, repubblicano tetragono e inizialmente riluttante venne aiutato a capire con qualche giorno in detenzione.

 

Il “sacre” del 2 dicembre 1804

La sontuosa incoronazione di Milano era stata preceduta dalla consacrazione di Napoleone a Imperatore dei Francesi, avvenuta a Parigi il 2 dicembre 1804. Erano trascorsi dieci anni dalla sanguigna liquidazione di Robespierre, Saint-Just, Collot d’Herbois e degli altri capifila del giacobinismo e cinque dal colpo di Stato del 18 brumaio 1799 (9 novembre), risoltosi nell’istituzione del Consolato, con il “petit caporal” primo console: carica da annuale divenuta triennale poi decennale e infine “a vita”. Spossata da anni di guerre ma arricchita dal pingue bottino di ricchezze e di opere d’arte sottratte ai sovrani vinti e umiliati, la Francia agognava alla pace e al raccoglimento. Tutto mutò nel volgere di pochi anni. Le dame smisero la veste “alla ghigliottina” (lunga tunica trasparente con malaugurante nastro pendulo sino al suolo, come fiotto di sangue); abbassarono la cinta dai seni alla vita e ripresero a indossare panni eleganti. Napoleone interpretò quel bisogno profondo. Stipulò la pace di Lunéville con l’Impero d’Austria e quella di Amiens con l’odiata Inghilterra.

Nel 1801 mise a segno il Concordato con papa Pio VII, a tutto vantaggio della stabilità del Consolato. I beni confiscati alla chiesa non vennero restituiti. Neppure Avignone e Benevento-Pontecorvo. Ma la Francia rimise in auge il clero, nell’ambito delle leggi: libertà di culto per israeliti, riformati, evangelici e… altri, inclusi gli islamici come il generale e barone Jacques-François Menou, che in Egitto si era convertito al Corano senza ripensamenti, come ricorda il formidabile Dictionnaire Napoléon diretto da Jean Tulard.  Molti ecclesiastici rientrarono dall’esilio e deposero le armi. Fu il caso di Augustin Barruel i cui Mémoires pour servir à l’histoire du jacobinisme costituiscono la più imponente denuncia della massoneria quale complotto millenario dei dualisti ai danni della Rivelazione e della Fede Verace. Alle spalle delle logge ordinarie, popolate di aristocratici, ricchi borghesi, scienziati e militari buontemponi che si sbizzarrivano a celebrare riti complicati, secondo Barruel le occulte “arrières loges” coniugavano la nascita della massoneria moderna (1717) alla “protesta” di Lutero (1517), al martirio di Jacques de Molay, il gran maestro dei Cavalieri Templari arso vivo nel 1314 su ordine di Filippo IV di Francia, “il Bello”, in combutta col papa francese (entrambi maledetti dal morente e in breve raggiunti da mala morte, come ricordò Dante nella Divina Commedia). Più addietro nel tempo vi erano la crociata contro gli Albigesi o “catari”, i bogomili e via risalendo sino Mane, a Zoroastro, al duello perpetuo tra la Luce e le Tenebre professato da gnostici, neognostici e pelagiani.

Con il Concordato del 1801 Napoleone impose silenzio ai massonofagi dell’Europa di Terraferma. D’altra parte il papa non aveva motivo di preferire a Napoleone l’Inghilterra, i cui sovrani erano anche capi della chiesa anglicana e grandi maestri della Gran Loggia Unita d’Inghilterra, tuttora depositaria di una rete mondiale.

 

Alla ricerca dell’Impero d’Europa

Napoleone dedicò gli anni d’inizio Ottocento all’elaborazione del nuovo codice civile. Giustiniano si era limitato a far redigere il Corpus delle leggi emanate nei secoli. Napoleone coniò un Codice Nuovo, tagliato sulla misura della Francia post-rivoluzionaria e riportata a cardini che ne garantissero la stabilità: la famiglia, con il primato del marito e padre, e la proprietà elevata a diritto naturale, con buona pace di Jean-Jacques Rousseau e dei suoi variegati discepoli.

Il disegno però non era ancora completo. Al Nuovo Ordine mancava la certezza della stabilità vera: la sacralità propria della monarchia, cioè di un potere monocratico ed ereditario. Napoleone coniugò la fusione di Potestas e Auctoritas di tradizione consolare (fondata sulla volontà del Senato, di origine aristocratica, e dei comizi della plebe) con l’unzione davidica che aveva garantito la successione dei re franchi da Clodoveo sino all’ultimo dei Capetingi, Luigi XVI, ghigliottinato su sentenza della Convenzione. Proprio mentre Napoleone stava riordinando la Francia, Luigi XVIII gli scrisse ripetutamente, invitandolo a restaurare la monarchia legittima. In cambio, dimentico della sua condizione di plebeo, il re gli avrebbe assicurato una posizione di prestigio. La risposta fu eloquente. L’eliminazione fisica dei generali complottisti, l’esilio forzato per i compromessi, come il prestigioso Moreau (che finì nelle file dello zar Alessandro I in guerra contro Napoleone, ovvero la Francia stessa), la cattura, la condanna a morte e la fucilazione del borbonico duca d’Enghien. Quel sangue era necessario per consacrare il pomerium dell’Impero. Segnò il solco tra il prima e il dopo, tra la Francia della monarchia tradizionale e l’Impero dei Francesi avallato dal voto popolare.

Il tempo era maturo. Napoleone, che da mesi si firmava col solo nome, ebbe un successo straripante: tre milioni e mezzo di voti favorevoli contro una manciata di “no”. Varcato quel Rubicone, dedicò mesi a riordinare l’immagine del Potere. In breve furono disegnate e imposte le uniformi di tutti i titolari di cariche pubbliche. Fu una sorta di nobilitazione di massa delle funzioni e dei conseguenti poteri civili e militari: prefetti, sindaci e pubblici impiegati ebbero insegne distintive. Altrettanto avvenne per i militari, titolari di gradi di nuova invenzione, accompagnati da pingui emolumenti.

Mancava il tocco finale: la cerimonia. Venne fissata per il 2 dicembre 1804. Suo grande regista fu Gioacchino Murat, cognato di Napoleone, di concerto con il fratello maggiore, Giuseppe, e il più giovane Luciano, mente politica finissima anche se riluttate ad assumere cariche, a differenza di Giuseppe, re di Napoli (1806-1808) e poi di Spagna (1808-1813), Luigi, re di Olanda e marito di Ortensia, figlia dell’imperatrice Giuseppina, e Gerolamo, re di Westfalia. La consacrazione dell’imperatore era garanzia dell’inviolabilità della Corona. Se il suo titolare fosse rimasto assassinato in uno dei tanti complotti orditi dai suoi nemici (era la sorta toccata a Caio Giulio Cesare, sempre presente a Napoleone), sarebbe stato sostituito automaticamente dal figlio adottivo e poi così, di maschio in maschio, secondo la legge salica. Tornò il motto “Il Re è morto, viva il Re”.

Il suggello della cerimonia studiata nei dettagli fu a presenza di Pio VII. Il papa venne informato del suo svolgimento. Nessuna “sorpresa”, dunque, quando Napoleone si auto-incoronò e incoronò l’imperatrice. D’altronde il pontefice si era affrettato la sera del 29 a legittimare con rito religioso l’unione sino a quel momento solo civile tra lui e Giuseppina.

Però neppure la solenne celebrazione del 2 dicembre 1804 chiuse il cerchio del disegno napoleonico, la cui prosecuzione ebbe luogo a Milano il 26 maggio 1805. Occorreva il passo definitivo. Fu Vienna a offrirgli l’occasione. Riprese l’ostilità contro la Francia. Con una marcia di imprevedibile rapidità l’Empereur riprese le vesti di Imperator e guidò l’Armata francese in Moravia. Il 2 dicembre, anniversario del sacre di Notre-Dame, sbaragliò gli austriaci e i russi che lo zar Alessandro I aveva recato in soccorso all’Asburgo. Con la pace di Presburgo (26 dicembre 1805) Napoleone voltò definitivamente pagina nella storia dell’Europa centro-occidentale. Impose a Francesco II la rinuncia perpetua al titolo di Sacro romano imperatore. Era lui, il generale còrso, il vero successore di Carlo Magno. In Europa vi poteva essere un unico imperatore: Napoleone I.

 

Il ritorno di Osiride

Da quel momento prese forma il culto della divinità dell’Imperatore. Il suo volto irradiò all’intorno la Vera Luce. La “N” venne istoriata ovunque, dalle facciate degli edifici più sontuosi agli oggetti di vita quotidiana. Era il marchio dell’Età Novella.

Nelle cerimonie più solenni del Grande Oriente di Francia l’imperatore fu invocato come “Napoleone di tutti i Riti” (scozzese, simbolico e poi di Memphis-Misraim...). Il suo busto venne posto al centro delle logge e in suo onore furono compiute processioni rituali, vennero bruciati incensi e sanciti i riconoscimenti di matrimoni, la ricezione femminile in riti di adozione e l’emancipazione dei “lupacchiotti”, cioè dei figli di massoni. Una nuova religione sostituì l’antica.

Dopo il divorzio di Napoleone da Giuseppina (ormai quarantenne), le sue nozze con la diciottenne Maria Luisa d’Asburgo, figlia di Francesco I d’Austria, e la nascita del tanto atteso maschio, Napoleone Carlo Francesco, le logge del Grande Oriente d’Italia (che tra gli affiliati contarono tutta la dirigenza politico-militare-accademica dell’epoca) celebrarono Napoleone come Osiride, l’imperatrice come Iside e l’erede quale Oro: riti “egizi” che si svolsero in sale affrescate con figure mitologiche, quali le Orgie di Bacco, e culminarono nel sacrificio di un Ariete evocante il culto mitraico (il battesimo con il sangue del toro scannato).

Sbilanciato nella sua corsa verso il futuro, quell’Impero non poteva durare. Tuttavia la Storia ripartì dalle sue ceneri. La prima costituzione affacciata in Italia all’indomani del crollo di Napoleone e della sua deportazione a Sant’Elena fu quella del “Rinascente Impero” che previde l’assegnazione della Corona a Eugenio Beauharnais e ai suoi successori, di maschio in maschio. Altri speravano invece in Napoleone II, al quale una leggenda forse non del tutto priva di elementi probanti attribuì la paternità del longevo Francesco Giuseppe d’Asburgo e di suo fratello Massimiliano, sfortunato imperatore del Messico: un’impresa tentata su impulso di Napoleone III e con blando sostegno anche di italiani convinti che al di là dell’Atlantico occorresse ripristinare l’impero “latino”. Avrebbe cambiato la storia del mondo.

Dal 2 dicembre 1804 il volto “raggiante” di Napoleone I era ormai tutt’uno con l’occhio iscritto nel Triangolo Equilatero, il “Delta fiammeggiante”: una sequenza di riti e di miti che a distanza di due secoli dalla morte dell’imperatore continua a suggestionare coniugando razionalità e magia.

Aldo A. Mola

Napoleone con corona apollinea e sciarpa massonica.

L’iniziazione di Napoleone in loggia non è mai stata documentata.

La prima consorte, Giuseppina de la Pagérie, era stata iniziata in una “loggia di adozione” a Strasburgo quando il suo primo marito, Carlo di Beauharnais, massone, ne comandava la piazzaforte.

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Articolo pubblicato il 25/04/2021