L'EDITORIALE DEL I° MAGGIO DI CIVICO20NEWS - Elio Ambrogio: quale Primo Maggio?

Riflessioni su una festa di ieri e sul suo significato di oggi

Da anni, ormai, il Primo Maggio appartiene alle feste non ufficiali ma sostanziali della Repubblica. Una festa che vorrebbe essere di tutti ma che, come il 25 aprile, è stata assorbita nella liturgia di una parte politica che ne ha fatto un evento autocelebrativo, una festa di se stessa, uno specchio narcisistico in cui rispecchiare la propria bontà e bellezza. Parliamo naturalmente della sinistra italiana che in passato, a buon diritto, si è sempre ritenuta la legittima proprietaria di quella festività in quanto rappresentante di una classe lavoratrice ancora in buona parte operaia o comunque subalterna.

Era una sinistra orgogliosamente schierata a fianco di quelle classi sociali di cui condivideva il disagio e, spesso, il dolore di una condizione difficile, ai confini del bisogno, della precarietà, della durezza esistenziale. Una sinistra che -attraverso mille errori intellettuali e politici, attraverso derive intolleranti e talvolta violente, attraverso alleanze ambigue con stati totalitari e movimenti eversivi- aveva però una serie di idee fondanti rispettabili e ben riconoscibili, anche se non condivisibili. Aveva soprattutto il senso di una missione storica da adempiere: il riscatto dalla miseria e dallo sfruttamento. Dal bracciante agricolo al docente universitario, era in grado di coniugare speranza proletaria e alta cultura, una profonda religione laica che aveva una sua etica rigorosa, una sua chiesa strutturata, un suo clero, una sua visione del mondo, un suo umanesimo e, infine, anche una sua escatologia.

La festa del Primo Maggio raccoglieva e mostrava tutto ciò, perché aveva delle cose reali da raccogliere e mostrare, anche se poi diventavano spettacolo, fiera di paese, folclore, tutte cose comunque intrise di verità e spontaneità. Era la grande sinistra che abbiamo sì avversato per i drammatici errori che portava in sé e minacciava di imporre a tutta la nazione, ma di cui ammiravamo, in un certo modo, la linearità ideale, la chiarezza dei propositi, l’abilità politica rivelata attraverso una classe dirigente di prim’ordine che si era formata nella fornace della guerra, nella durezza del dopoguerra, nella caparbietà delle lotte operaie e contadine. Il Primo Maggio di allora era di quegli uomini e di quelle donne, che poi la storia più recente ha ferocemente disilluso e derubato dei loro sogni.

Che cos’è oggi il Primo Maggio? E’ ormai più un’occasione che una festa, un intrattenimento della sinistra con se stessa, come dicevamo all’inizio, un left pride in cui l’orgoglio è sostituito dalla celebrazione - o meglio autocelebrazione - di una multicolore visione del mondo, una vasta seduta di autocoscienza in cui il popolo della sinistra sfoggia tante bandiere ma, in fondo, non ne ha una.

Oggi la sinistra liberal è molte cose: globalista, immigrazionista, genderista, ecologista, multiculturalista, pacifista, buonista, animalista, arcobalenista; tutti “ismi” cuciti però col filo tradizionale del moralismo supponente di chi si sente sempre e comunque la “parte migliore e più avanzata del paese” e con quello di una genetica vocazione all’autoritarismo (si pensi solo al fascino che su di essa esercitano i lockdown nelle loro varie forme) e al proibizionismo culturale (si veda l’imminente legge Zan-Scalfarotto). Tutte cose che affascinano la borghesia acculturata e semi-acculturata -vero bacino di consenso per quella forza politica- ma che non si sa quanto prendano la mente, il cuore e il corpo della gente qualunque alle prese tutti i giorni  con la durezza della vita.

E poi c’è un mondo contemporaneo in drammatico mutamento, in cui la sinistra tradizionale si è avventurata dimostrando però un notevole spaesamento, alla ricerca di nuove bandiere da issare nei cortei e nelle feste e dove ha raccolto quelle più glamour e modaiole in grado di eccitare il suo ormai borghesissimo elettorato in cui il politicamente corretto è diventato predominante, la nuova e vera ideologia conformista buona per ogni uso.

Ma soprattutto la sinistra non comprende -o comprende dolorosamente, ma non lo esterna- che il lavoro che va a festeggiare il primo maggio non esiste più, sia sotto l’aspetto quantitativo che qualitativo.

La tecnologia avanzante, soprattutto sotto forma di digitalizzazione, sta distruggendo enormi masse di lavoro tradizionale e sta imponendo forme di lavoro totalmente nuove, alcune neppure immaginabili al momento. E la sinistra appare infantilmente affascinata da questa trasformazione e guarda ad essa come a un Paese delle Meraviglie abitato da milioni di lavoratori giovani e vecchi pronti a riconvertirsi al nuovo presente e al futuro che incombe. Abbiamo sentito in questi giorni una esponente del PD dire ai ristoratori, ormai allo stremo delle forze, di “riconvertirsi” all’asporto e mandare in giro giovanotti in bicicletta a consegnare gli spaghetti con le vongole ai clienti.

Non a caso il Piano di ripresa e “resilienza” che la Commissione europea e Draghi ci hanno imposto prevede al primo posto digitalizzazione, innovazione e competitività, a cui va lo stanziamento più cospicuo, cosa che dovrebbe farci riflettere, ma far riflettere soprattutto i lavoratori italiani: che cosa devono aspettarsi da questa imposizione euro-tecnocratica?

Come si possono festeggiare lavoro e lavoratori di fronte all’ondata di disoccupazione e di precarizzazione in arrivo e al nuovo sfruttamento mascherato da efficienza, liberalizzazione, riconversione, flessibilità? Come è possibile non capire che l’euro, abolendo il tasso di cambio, ha indotto una svalutazione salariale di vaste proporzioni in Europa e nella sua propaggine più fragile, cioè l’Italia? Come non vedere la massiccia redistribuzione di ricchezza dal lavoro al capitale che la sedicente pandemia ha accelerato in quest’ultimo anno?

Francamente, amici e non amici di sinistra, quale festa del lavoro e dei lavoratori volete celebrare questo primo maggio?

C’è forse ormai un solo grande paese in cui i lavoratori possono festeggiare a buon diritto il lavoro in senso antico, il lavoro che produce ricchezza, occupazione, innovazione, crescita forte e costante, e questo paese è la Cina, grande sistema comu-capitalista dove il lavoro sicuramente non manca, pur con qualche spiacevole effetto collaterale. Ma siamo sicuri che valga la pena di imitarla?

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Articolo pubblicato il 01/05/2021