Napoleone per l'Italia
"Napoleone liberatore", comandante dell’Armée d’Italie (Dipinto di Antoine-Jean Gros)

Il Partito Transnazionale Europeo (di Aldo A. Mola)

Riordinare l’Italia

Ma quanto deve l’unità d’Italia a Napoleone il Grande? Mezzo secolo fa lo documentarono storici, giuristi ed economisti (Alberto M. Ghisalberti, Emilio Faldella, Guido Astuti, Nino Cortese, Giovanni Demaria...) in un convegno all’Accademia dei Lincei. La questione però era e rimane aperta. Da quando nel 1796 vi irruppe al comando dell’Armata d’Italia sino alla prigionia a Sant’Elena Napoleone considerò la Penisola in parte da annettere direttamente alla Francia, in parte “materia di scambio” per consolidare i confini della Francia e in parte “mobile” del suo disegno di Impero continentale, fondato su un “partito” transnazionale con radici classico-illuministiche. Tra la campagna d’Italia e l’incoronazione (1796-1804) Napoleone proseguì la politica del Direttorio: avocazione dei domini pontifici e della Savoia nei confini geografici della Francia e annessione di Nizza e Piemonte, già sabaudi e geograficamente italiani. Inglobato nella Repubblica francese l’11 settembre 1802, il Piemonte divenne la XXVII divisione dell’Impero. Suo governatore il 22 aprile 1808 fu il principe romano Camillo Borghese, marito di Paolina Bonaparte, sorella prediletta di Napoleone. L’imperatore fece abbattere le cinte murate non funzionali alla difesa della Francia e rafforzò le fortificazioni alpine fronte a oriente e la Cittadella di Alessandria. In caso di nuova offensiva austro-russa nella pianura padana, questa doveva resistere a oltranza per consentire la contro-offensiva: un piano strategico che comprese l’annessione della Liguria per trasferirvi via mare le armate da Marsiglia-Tolone a coprire il fianco destro della Francia, come fece Napoleone III quando nel 1859 entrò in guerra contro l’Austria con Vittorio Emanuele II.

Il giorno dell’incoronazione di Napoleone a re d’Italia a Milano (26 maggio 1805) Genova chiese l’annessione della Liguria all’Impero, ratificata l’anno seguente. Sic stantibus rebus, se Napoleone avesse vinto a Waterloo (giugno 1815), la Francia avrebbe dominato a tempo indeterminato valichi alpini e Mar Ligure, con via libera sino all’Adriatico, sulla scia di Carlo Magno (da Napoleone rivendicato suo predecessore) e dei re francesi da Carlo VIII di Valois a Luigi XIV di Borbone. La geografia detta la storia: Milano-Torino-Genova sono tutt’uno.

La nomina del figlio adottivo Eugenio di Beauharnais a viceré del regno italico confermò il disegno dell’imperatore. Nel 1805 a Lucca sostituì Ludovico di Borbone con Felice Baciocchi, marito di sua sorella Elisa. Il fantasioso “regno di Etruria” fu annesso all’Impero il 27 ottobre 1807. Con la pace di Presburgo (26 dicembre 1805) Vienna cedette a Napoleone Veneto, Istria e Dalmazia, incorporati nel regno italico.

Il 14 febbraio 1806 il generale Massena occupò Napoli, evacuata da Ferdinando IV di Borbone che riparò in Sicilia sotto protezione del britannico lord Bentinck. Il 30 marzo Giuseppe Bonaparte (Corte, Corsica, 7 gennaio 1768-Firenze, 28 luglio 1844), fratello maggiore di Napoleone, divenne re di Napoli. Quando fu proclamato re di Spagna (maggio 1808), gli subentrò Gioacchino Murat, cognato di Napoleone (31 luglio 1808). Nei tre anni seguenti il riordino dell’Italia fu completato con l’assegnazione delle Marche al regno italico, l’annessione all’Impero dell’antico ducato di Parma e Piacenza (da secoli “a noleggio”), la debellatio del potere temporale di Pio VII su Roma, Lazio e Umbria, annesse all’Impero, la costituzione delle Province Illiriche (Trieste, Croazia dalmatica, Carinzia, Carniola e Istria) e la cessione del Trentino al regno italico.

Il conferimento del titolo di re di Roma al neonato Napoleone Francesco Carlo (20 marzo 1811), figlio di Napoleone e di Maria Luisa d’Asburgo, sposata il 2 aprile 1810, ratificò la tripartizione dell’Italia in Regno italico, con capitale Milano, regno di Napoli e terre direttamente inglobate nell’Impero dei Francesi. In queste dal 1806 il francese divenne lingua pubblica obbligatoria, con l’eccezione della Toscana, ove l’italiano, come ricorda il rimpianto Guglielmo Adilardi in Massoneria società e politica: 1717-2017 (ed. Pontecorboli), rimase ufficiale su pressante richiesta di Francesco Fontani (1748-1818) sacerdote, massone e accademico della Crusca.

Dunque l’età napoleonica non costituì affatto premessa dell’unificazione politica dell’Italia. Essa si risolse anzi nel dominio diretto e indiretto dell’impero sue due terzi della Penisola, mentre a Napoli una dinastia napoleonide offriva un’apparenza di indipendenza. Nondimeno tra il 1805 e il 1811 la carta politica dell’Italia mutò profondamente rispetto al Settecento, quando fu rimaneggiata nelle guerre di successione alle corone di Spagna, Polonia e Sacro Romano Impero, e alla pace di Cateau Cambrésis (1559). Dopo l’egemonia degli Asburgo di Spagna, quella degli Asburgo d’Austria e dei Borbone di Spagna, anche con Napoleone l’Italia fu sotto dominio straniero: ma era quello dei “Diritti dell’uomo e del cittadino” e dell’Ordine Nuovo sintetizzato nei codici civile, di commercio e penale e nell’impetuosa innovazione scientifica. In Italia si moltiplicarono i giornali, i circoli, le scuole (almeno uno per dipartimento), vivaio della classe dirigente politico-militare di respiro europeo.

L’Uomo Nuovo era Antico: tra le Colonne

Nel giugno 1803 Napoleone fu ritratto da Antonio Canova come antico romano. Era presidente della Repubblica italiana. Due anni dopo, all’incoronazione nel Duomo di Milano, a norma dello statuto costituzionale del 18 marzo 1805 giurò di “mantenere l’integrità territoriale del Regno, rispettare e far rispettare la Religione dello Stato, l’uguaglianza dei diritti, la libertà politica e civile, l’irrevocabilità della vendita dei beni nazionali (confiscati agli ecclesiastici e a nemici dello Stato), di non esigere alcuna imposta né alcuna tassa che in virtù della legge, di governare colla sola vista dell’interesse, della felicità e della gloria del popolo italiano”. Ma quali erano i confini istituzionali, culturali e sociali di quel popolo? Lo disse l’intestazione dei suoi proclami: “Napoleone I, per la grazia di Dio e per le costituzioni, imperatore de’ Francesi, Re d’Italia...”.

La tripartizione dell’Italia peninsulare (la Sardegna rimase sabauda) fu rispecchiata da quella delle logge massoniche che tra il 1805 e il 1814 assunsero veste e ruolo di primo partito transnazionale. Ebbero organizzazioni separate ma convergenti. La più diffusa fu la rete direttamente dipendente dal Grande Oriente di Francia che da Parigi emanava patenti e diplomi. Ne fecero parte le logge delle regioni inglobate nell’Impero, controllate tramite “fiduciari”. In Piemonte, Liguria, Toscana e Lazio, Roma inclusa, funsero da cenacolo della classe dirigente civile, militare, culturale, inclusi ecclesiastici. La massoneria era stata scomunicata dai papi Clemente XII nel 1738 e Benedetto XIV nel 1751. Ma quella “antica condanna” non era mai stata registrata da Stati cattolici la Francia, ove l’Ordine liberomuratòrio non era mai stato vietato. Quando, poco prima del passaggio all’Oriente Eterno, fu accolto nella loggia “Neuf Soeurs” di Parigi (7 aprile 1778), il sarcastico Voltaire cinse ai fianchi il grembiule appartenuto all’abate di Saint-Firmin. In età napoleonica agli occhi dei più la scomunica svaporò. Non sorprese quindi la costituzione a Milano del Grande Oriente d’Italia che ebbe per gran maestro il viceré Eugenio e per alti dignitari i vertici del regno italico. Assunta la corona di Napoli, Giuseppe Bonaparte instaurò il Grande Oriente e ne fu gran maestro. Quando lo sostituì sul trono, Gioacchino Murat ne ereditò e rafforzò la rete di logge, che nel Mezzogiorno replicarono il modello vigente a Milano e nelle regioni “imperiali”. Pur separate le tre Comunità ebbero in comune fondatori, codici di comunicazione, principi costitutivi e “idee forti”, a cominciare da rifiuto del dogmatismo, libertà della ricerca scientifica e tolleranza verso culti, credenze e idee politiche che non minacciassero lo Stato. Il loro tessuto connettivo fu il Rito scozzese antico e accettato e, più riservata, la Massoneria Templare. In un’opera poderosa su La Franc-Maçonnerie des Bonapartes (Parigi, Payot, 1982, con prefazione di Georges Dumézil: purtroppo mai tradotta in Italia) François Collaveri fornisce un quadro esaustivo delle logge peninsulari. Al vertice del Supremo consiglio del Rito scozzese sedevano i maggiorenti di quello francese. Il “Collegio dei grandi dignitari” del Grande Oriente d’Italia comprendeva Murat, vari ministri (Ferdinando Marescalchi, Daniele Felici...), il maresciallo Francesco Kellermann, Marco Alessandri, Pietro Parma, ispettore delle armate, il generale e poi ambasciatore Pietro Calepio. Le logge di Roma erano incardinate su Camillo Borgia, comandante della gendarmeria imperiale, Miollis, Norvins, direttore generale della polizia, e sul generale Radet, che su ordine di Napoleone deportò Pio VII in Francia.

Al culmine dell’età napoleonica (1809-1814) i massoni in Italia erano non meno di venticinquemila: un numero elevatissimo se rapportato a quello degli abitanti e, più ancora, dell’elettorato. Ne fecero parte israeliti di spicco ai quali Napoleone conferì anche titoli araldici.

 

L’eredità: unire l’Italia...

Nel travagliato 1814-1815, dalla prima abdicazione di Napoleone (6 aprile) al suo ritorno in Francia e all’azzardata discesa in campo di Murat con il “Proclama di Rimini” (30 marzo 1815) per la guerra contro lo straniero (in concreto, gli austriaci), il regno italico, quello di Napoli e l’imperatore si condussero secondo logiche distinte e persino stridenti. Dopo l’armistizio di Schiarino Rizzino con l’asburgico generale Bellegarde (16 aprile 1814), Eugenio Beauharnais rimase in attesa di conoscere la propria sorte. Fu abbandonato dai milanesi (aristocratici come Federico Confalonieri e grande borghesia) che, senza un serio programma politico, si sollevarono contro di lui (il “codardo oltraggio” deplorato da Manzoi) e si macchiarono le mani di sangue linciando il ministro delle finanze Prina (20 aprile). Mentre iniziava la restaurazione dei sovrani cacciati da Napoleone (Vittorio Emanuele I di Savoia a Torino, Ferdinando III di Asburgo-Lorena a Firenze, Francesco IV d’Asburgo-Este a Modena), Murat rimase in stallo a Napoli. Conscio che anche per lui il tempo stava per scadere dopo l’azzardo al nord e il ripiegamento, costretto all’esilio tentò la riscossa anti-borbonica ma finì arrestato e fucilato a Pizzo Calabro (13 ottobre 1815). Tra i giudici fu uno Scalfaro da lui creato “barone”.

La Restaurazione datò dalla conclusione del Congresso di Vienna, il cui Atto finale il 9 giugno 1815 fu sottoscritto dalle stesse potenze che il 30 maggio 1814 avevano siglato la pace di Parigi: Gran Bretagna, Austria, Russia, Spagna, Portogallo e Brasile, Prussia, Svezia, Norvegia e la Francia, rappresentata da Talleyrand, “vescovo apostata” (come scrive p. Giovanni Sala S.J. in “La Civiltà Cattolica”), già ministro degli Esteri di Napoleone. Proprio su suo impulso la Francia della Restaurazione si dissociò dalla dichiarazione dell’8 febbraio 1815 (osteggiata anche da Spagna e Portogallo) contro “la tratta dei negri”, “un flagello che ha così a lungo desolato l’Africa, degradato l’Europa e afflitto l’umanità”. Nessuno la metteva in discussione negli Stati Uniti d’America, allora e poi idolatrati quale modello di civiltà.

Al di là dell’unanimità di facciata, ogni Stato mirò a trarre vantaggi dal crollo di Napoleone e del suo “regime”. Mentre fu riconosciuta la neutralità della Svizzera e venne regolamentata la navigazione sui fiumi internazionali, i polacchi rimasero spartiti tra Russia, Prussia e Austria con Cracovia “città libera”. Fu inventato l’effimero regno dei Paesi Bassi (nel 1831 diviso in quelli dei Belgi e dell’Olanda).

Il 14-26 settembre 1815 a Parigi “in nome della Santissima e indivisibile Trinità” Francesco I d’Austria, Alessandro I, zar di tutte le Russie, e il re di Prussia Federico Guglielmo si unirono nella Santa Alleanza, “vera e indissolubile fratellanza” tra compatrioti decisi a “prestarsi assistenza, aiuto e soccorso, come padri di famiglia per proteggere la religione, la pace e la giustizia”. Suo ispiratore, il Cancelliere austriaco Clemens von Metternich, programmò congressi annuali di un’Alleanza aperta a tutte le potenze ma subito vacillante. Non ne fecero parte la Gran Bretagna né il restaurato Stato pontificio, riluttante a sedere a fianco dello zar, campione della “chiesa d’Oriente”‘, e del luterano re di Prussia.

I mutamenti intervenuti in ogni aspetto della vita pubblica e privata nel ventennio franco-napoleonico erano però troppo vasti e profondi per essere cancellati dalla repressione poliziesca per quanto capillare e spietata. In pochi anni la Storia riprese il suo corso. Ancor prima che Napoleone morisse a Sant’Elena, dalla Spagna al Regno delle Due Sicilie, dal Veneto (Fratta Polesine) alle Marche e al Piemonte si susseguirono cospirazioni, insurrezioni e rivoluzioni alimentate da società segrete dai nomi disparati ma dai programmi complessivamente omogenei: carte costituzionali, libertà di culto, elezione dei titolari di cariche locali e centrali.

Il “caso Italia” fu paradigmatico. Le migliaia di notabili che avevano popolato le logge non avevano smarrito la memoria. Utilizzando cifrari diversi veicolarono le stesse parole d’ordine. Il 23° giorno del XII° mese dell’Anno della Vera Luce 1820 (cioè il 23 febbraio 1821), poco prima della sconfitta dei liberali, schiacciati dalla Santa Alleanza, a Napoli vennero stampati gli Statuti generali della Società dei Liberi Muratori del Rito scozzese antico ed accettato (erroneamente detti “del 1820”). Fecero testo. In “Viva l’Imperatore! Viva l’Italia!” (ed. BastogiLibri) Alessandro Mella ha documentato il “sentimento italiano nel ventennio napoleonico” quale premessa del Risorgimento italiano. Valgano d’esempio i bresciani fratelli Lechi, militari, massoni eminenti e pilastri della Nuova Italia.

 

La riscossa

Ci vollero quasi vent’anni, ma finalmente nel 1839 un napoleonide, Carlo Luciano Bonaparte principe di Canino (1803-1857), nipote dell’Imperatore, ottenne dal granduca di Toscana la convocazione del primo Congresso degli Scienziati Italiani, riunito in Pisa, in memoria di Galileo Galilei. “Per la prima volta si affermava solennemente l’unità della patria” dichiarò Mariano d’Ayala, uno dei 421 iscritti. I reazionari più acuti, come il Cancelliere austriaco Metternich e il piemontese Clemente Solaro della Margarita, colsero subito il fumus rivoluzionario che serpeggiava. Ubi scientia, ibi Satanas... Negli anni seguenti i Congressi migrarono dall’uno all’altro Stato tranne che nella Roma di papa Gregorio XVI. Il problema vero era stato posto da Napoleone: la “questione italiana” era “di religione”, l’affermazione della libertà di culto e l’uguaglianza nelle leggi, scaturigine di tutte le altre.

Tra gli “adepti” dei Congressi degli Scienziati uno merita speciale memoria e da solo basta a far capire quanto l’Italia deve al “petit caporal”: il 7 dicembre 1852 sugli spalti di Belfiore a Mantova con altri nove condannati a morte per cospirazione anti-austriaca venne impiccato un sacerdote. Connivente il vescovo, prima del supplizio fu “sconsacrato” con l’ablazione della pelle “unta” nella celebrazione del sacerdozio. Era mazziniano. Si chiamava Enrico Napoleone Tazzoli. Uomo di fede, credeva nell’Italia una, indipendente, libera. Cinque giorni prima, mentre i relitti della Santa Alleanza rimanevano succubi della “sindrome di Sant’Elena”, Luigi Napoleone Bonaparte assunse a Parigi la corona imperiale: Napoleone III. A lui l’Italia deve l’unificazione vaticinata dallo zio nel Memoriale di Sant’Elena. Sperare è bene. Fare è tutto. Proprio i Bonaparte fecero la differenza: anche grazie a italiani che avevano imparato a pensare in europeo in una visione transcontinentale, come Giuseppe Garibaldi, nato cittadino francese a Nizza il 4 luglio 1807, eroe dei due mondi, iniziato in loggia a Montevideo, gran maestro ad vitam della rinascente massoneria italiana.

 

Aldo A. Mola

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Articolo pubblicato il 09/05/2021