Centenario - 15 Maggio 1921: L'Italia votò
Hieronymus Bosch (1453-1516): il Prestigiatore (o Imbonitore).

«Maledetta Proporzionale» e crollo di Giolitti (di Aldo A. Mola)

È l’ora di Hyeronimus Bosch

Perché occuparsi delle elezioni del 15 maggio 1921? Che cos’hanno a che fare con l’Italia odierna? La storia è magistra vitae, per chi la conosce. Per gli altri bastano “atti di fedez”. Giusto cent’anni fa gli italiani furono chiamati a rinnovare la Camera dei Deputati. Presidente del Consiglio era Giovanni Giolitti che dal 1892, sei volte ministro dell’Interno, aveva mostrato di avere in mano il pallottoliere delle elezioni. Alcuni amici, come Alfredo Frassati e Antonio Cefaly, lo sconsigliarono. Fece di testa sua. Sbagliò. Dalle elezioni uscì un unico vincitore: l’ingovernabilità. L’opposto di quanto era necessario. Con lui naufragò l’Italia liberale che annaspava sin dalle disastrose elezioni del 16 novembre 1919. Finì un’epoca: per effetto della legge elettorale, che poi Giolitti liquidò come “maledetta proporzionale”. Lo si legge in 1919-2019. Riforme elettorali e rivolgimenti politici in Italia, a cura di Maria L. Mutterle e Gianpaolo Romanato (casamuseogiacomomatteotti.it/pubblicazioni/).

Merita rievocare le elezioni di cent’anni orsono non per gusto feticistico di rimestare nel passato, ma per capire quel che ci attende nel prossimo futuro: l’elezione del capo dello Stato a inizio febbraio 2022 e (prima o poi) delle Camere. Anche i più ottimisti temono una litania di guai. Vista la riduzione delle Camere a 400 deputati e a 200 senatori e dato che non si riesce né si riuscirà a modificare la cornice del quadro (legge elettorale e regolamenti delle Camere), chi dipingerà la tela? È l’ora di Hyeronimus Bosch.

Come l’Italia arrivò sull’orlo dell’abisso

La Grande Guerra terminò con la resa dell’impero d’Austria-Ungheria sul fronte italiano (4 novembre) e dell’impero tedesco sul fronte francese (11 novembre). Mentre i Paesi vinti precipitavano nel caos (crollo istituzionale, fame, rivoluzioni endemiche) anche in quelli vincitori i nodi politici e socio-economici vennero al pettine. Accadde in Italia. Due mesi dopo l’armistizio, il 18 gennaio 1919 con l’appello “ai liberi e forti” don Luigi Sturzo fondò il Partito popolare. Anziché humus e religio (cioè legame) universale dei popoli il cattolicesimo divenne una fazione: lo scudo crociato, sottintende una spada. Il 23 marzo l’ex socialmassimalista Benito Mussolini fondò a Milano i fasci di combattimento. Giolitti esortò il presidente del Consiglio Vittorio Emanuele Orlando a sciogliere subito la Camera e a indire le elezioni sull’onda della Vittoria. Non fu ascoltato. La delegazione italiana al Congresso della pace di Parigi chiese Fiume in aggiunta ai compensi promessi per l’adesione dell’Italia alla Triplice Intesa. Fallì. Fu sfiduciata alla Camera. A Orlando seguì Nitti, che annaspò. Per accontentare socialisti e cattolici egli varò la legge che il 15 agosto 1919 assegnò i seggi della Camera dei deputati in proporzione ai voti ottenuti dai partiti nei singoli collegi elettorali. Giolitti sottovalutò le ripercussioni di quella riforma. Annoiato dalle baruffe parlamentari, lasciò Roma per il Vecchio Piemonte. Nel celebrato discorso elettorale del 12 ottobre 1919 non ne fece cenno. Il Trattato di Saint-Germain (10 settembre 1919) negò all’Italia l’annessione di Fiume. Due giorni dopo Gabriele d’Annunzio capitanò l’“impresa” che della città quarnerina fece un laboratorio politico europeo, bazzicato da rivoluzionari dilettanti, e un fattore di destabilizzazione permanente per l’Italia.

Le elezioni del 16 novembre 1919 assegnarono metà dei seggi della Camera a socialisti e popolari, entrambi anti-sistema. In Italia iniziò il “biennio rosso”: scioperi a catena nei servizi pubblici (ferrovie, postelegrafonici… erano un reato) oltre che nelle campagne (ove il bracciantato veniva sostituito dalle mietitrebbia) e nelle manifatture. Tornato presidente del Consiglio (16 giugno 1920) in settembre Giolitti fronteggiò l’occupazione delle fabbriche, “scintilla” della rivoluzione secondo l’ala estrema del Partito socialista (l’“Ordine Nuovo” di Gramsci, Togliatti e compagni). Respinta la sollecitazione di sgomberare le fabbriche manu militari propostagli dagli industriali (capitanati da Giovanni Agnelli, che salì dove egli “estivava”: lo ricorda Antonella Filippi in Giolitti a Bardonecchia, ed. Alzani, 2021), lo statista propose la compartecipazione degli operai agli utili (non al governo) d’impresa, elaborata dal massone Gino Bandini e fatta propria dal “fratello” Arturo Labriola, da sindacalista rivoluzionario divenuto ministro del Lavoro. Non se ne fece niente, ma placò gli animi.

 

I “blocchi”: un freno a mano per fermare la deriva

Tra settembre e novembre furono rinnovati i consigli comunali e provinciali in carica dal 1914. Il 21% dei comuni era retto da Commissari regi o prefettizi, quasi tutti in regioni “difficili” (Toscana, Veneto, Puglie...; in Piemonte erano appena il 3%). Alle urne andò metà dei quasi 12 milioni di elettori. A legge immutata (nei consigli comunali chi aveva più voti otteneva ampia maggioranza dei seggi; in quelli provinciali in ogni mandamento vinceva chi aveva più preferenze) i costituzionali vinsero in 33 province, i socialisti ufficiali in 26, i popolari in 10. I repubblicani zero. Allarmati dalle sinistre che dichiaravano di voler “fare come in Russia” (rivoluzione, completa di annientamento della famiglia reale), su impulso di Giolitti i “moderati” organizzarono “blocchi” di conservatori, liberaldemocratici, radicali, combattenti e fascisti, opposti a popolari e socialisti. Era una riedizione del Patto Gentiloni del 1913: fronte comune contro gli anticostituzionali. Funzionò.

Però il successo venne funestato da aspri scontri tra opposte fazioni. L’insediamento del consiglio comunale a Bologna, ove avevano vinto i “rossi”, avvenne nel sangue: 9 morti e un centinaio di feriti. A inizio febbraio 1921 la mozione di sfiducia propugnata alla Camera da Giacomo Matteotti fu respinta con soli 252 voti contro 59 su 508 deputati. Il socialista Emanuele Modigliani minacciò “Abbasso la Corona”. Malgrado tutto, il governo reggeva. Il 23 marzo (anniversario della fondazione dei fasci) al Teatro Diana in Milano un attentato anarchico causò 21 morti e cento feriti. Per imbrigliare la guerra civile, Giolitti ottenne lo scioglimento della Camera (7 aprile) anche per far votare i cittadini delle terre annesse (senza plebiscito confermativo). Le elezioni furono indette per il 15 maggio. Giolitti cercò di virare la proporzionale in maggioritaria. Promosse “blocchi di difesa nazionale”. Come nel 1913 aveva immesso nei binari costituzionali i cattolici moderati e isolato le pulsioni anti-sistema dei vetero-clericale, così intruppando “fascisti” (dal programma ancora caleidoscopico), nazionalisti, combattenti, interessi industriali, agrari e finanziari ora avrebbe costretto gli opposti estremisti a fare i conti con lo Stato. Non era irrazionale. Come Giolitti ricordò nelle Memorie i costituzionali ottennero 500.000 voti in più: ma, sparsi dall’Alpi a Capo Passero, per via della legge elettorale furono irrilevanti.

 

Come attrarre consensi?

La legge elettorale imponeva di ottenere il consenso delle masse, in presenza del diffuso analfabetismo, documentato dal censimento del 1921. Nelle due regioni appena annesse (Trentino e Friuli) gli analfabeti erano appena il 2% della popolazione maggiore di 6 anni. In Piemonte salivano al 6,8%; in Lombardia all’8,6%; in Veneto al 15% e in Emilia Romagna al 21%. L’Italia centrale andava dal 26% del Lazio, al 28% della Toscana e al 37% dell’Umbria. Il Mezzogiorno registrava atavica arretratezza: peggio di Campania (40%) e Abruzzi (38%) erano Puglia (49%), Basilicata e Calabria (48%). Nell’antica Borbonia felix l’analfabetismo sfiorava il 40%; scendeva al 21% al Centro e al 10% nell’Italia settentrionale.

L’elettore andava quindi “agganciato” con il simbolo della lista. L’unico partito con “richiamo” unitario in tutte le circoscrizioni fu il Comunista d’Italia: martello, falce e raggi circondati da corona di spighe. Il Partito popolare italiano presentò quasi ovunque lo scudo crociato; il socialista ufficiale falce e martello sovrastanti un libro aperto. Il partito liberale democratico in alcuni collegi usò una funerea stella nera a cinque punte chiusa in cerchio; a Foggia esibì uno scudo con San Michele Arcangelo; a Campobasso i liberali proposero uno scaramantico ferro di cavallo; all’Aquila il tricolore; a Cuneo una spiga di grano. I combattenti usarono un elmetto (come quello calcato da Gaetano Salvemini, eletto nel 1919). I radicali riformisti innalzarono una fiaccola. I “blocchi di difesa nazionale” mescolarono di tutto, secondo i collegi: aratro, tricolore, spighe di grano, grappoli d’uva, rami d’olivo… e ovunque aggiunsero il “fascio dei littori” (sic), unico simbolo accomunante.

Nel collegio di Milano-Pavia il Blocco si riconobbe nel fascio iscritto nella stella (bianca) a cinque punte. Ottenne 7 seggi (Benito Mussolini, Attilio Fontana, Giuseppe De Capitani d’Arzago, Innocenzo Cappa, Luigi Gasparotto, Luigi Lanfranconi e Antonio Benni: in lista ebbe anche Massimo Rocca e Dino Alfieri) contro i 14 del Partito socialista ufficiale (Turati, Treves, Caldara...), i 6 del Partito popolare (Filippo Meda, Achille Grandi, Stefano Cavazzoni...), un “combattente” (Arnaldo Agnelli) e un comunista (Luigi Repossi: racimolò 21.000 voti di lista contro i 251.000 del PSU).

In sintesi su 535 seggi in palio i socialisti ne ebbero 124, i riformisti 25, i comunisti 15. Non mancò un socialista indipendente. I popolari furono 108; la Democrazia sociale del duca Giovanni Antonio Colonna di Cesarò 85 (in massima parte nel Mezzogiorno, specie in Campania e Sicilia), gli agrari 27, i repubblicani 6. Socialcomunisti e clericali erano più repubblicani dei mazziniani. Gli altri seggi andarono a liste “costituzionali”, che assicurano 11 seggi ai nazionalisti e 36 ai fascisti, pari al 6,7% del totale. Nessuno immaginava che in soli 17 mesi quella esigua minoranza avrebbe ottenuto la presidenza del consiglio, tre ministeri “pesanti” e la Pubblica istruzione per il filosofo Giovanni Gentile. La storia ha più fantasia degli artisti e degli storiografi, che dicono la loro “a cose fatte”.

I “liberali” fecero del loro meglio per confondere le idee sul proprio conto. Dall’Unità nazionale (1861) non avevano mai avuto un loro partito con sede, direzione, tessere, quote e amministrazione unitaria. Erano una costellazione nella quale spiccavano astri di prima grandezza (Giolitti, Salandra, Orlando, De Nicola, Cocco Ortu...), alcuni meno luminosi e in gran parte sempre più fiochi. Le quindici liste del partito liberale (suddiviso in concentrazione liberale, unione nazionale, unione costituzionale, costituzionale indipendente, liberale costituzionale, blocco nazionale di avanguardia e blocchisti dissidenti) con 143 candidati ottenne 43 seggi. Il partito liberale-democratico mise in campo partito democratico, unione democratica, fascio democratico, unione costituzionale democratica e partito costituzionale democratico che con 223 candidati si aggiudicò 20 seggi. Il partito democratico sociale schierò tre liste diverse liste. Quello democratico generò demoriformisti e radico-riformisti. Coriandoli.

Alla Camera i gruppi parlamentari salirono dagli 11 del 1919 a 14. Era il frutto della “maledetta proporzionale”. Assicurava il massimo di rappresentanza (il cosiddetto “diritto di tribuna” (6 deputati del partito sardo d’azione, i germanofoni e gli slavofoni che conquistarono tutti i seggi in lizza a Bolzano e nell’Istria) ma sbarrava la via alla governabilità. Questa infatti poteva essere assicurata solo dalla coalizione dei partiti maggioritari. Ma socialisti e cattolici erano incompatibili per storia e programmi; come liberali e clericali e, infine, liberali e socialisti: un’alleanza che Giolitti perseguiva invano dal remoto 1903.

 

Le vie verso l’inferno, lastricate di buone intenzioni

All’inaugurazione della Legislatura Giolitti propose un programma di riforme vere. Al primo voto ottenne una maggioranza esigua. Lasciò il campo. Così finì l’Italia liberale. Nel suo V e ultimo governo (16 giugno 1920-4 luglio 1921) lo statista varò buone leggi. Il repertorio dei suoi interventi e delle leggi approvate dai due rami del Parlamento è nel IV volume dei Discorsi parlamentari nel 1956 curati da Silvio Furlani, storico di grande talento. Le relazioni di accompagnamento dei disegni di legge più importanti sono in Giolitti al Governo, in Parlamento, nel Carteggio, a cura di Aldo A. Mola e Aldo G. Ricci (vol. II, tomo 2, Bastogi, 2009). Tra le più rilevanti ricordiamo l’obbligo della cerealicoltura nei terreni incolti o mal coltivati. Fu la sua “battaglia del grano”, condotta di concerto con Vittorio Emanuele III, lungimirante promotore di colture sperimentali; l’inchiesta parlamentare sulle spese di guerra (per stanare i “pescecani”); la lotta contro l’aumento indebito dei prezzi dei beni di consumo, che impoveriva il potere d’acquisto di stipendi e salari; il controllo delle industrie da parte dei lavoratori addetti e l’obbligo dell’istruzione.

Altrettanto significative furono le proposte di legge approvate da una sola Camera negli ultimi mesi della breve XXV Legislatura (novembre 1919-maggio 1921), ripresentate invano all’inizio della successiva ma non condivise dal suo successore, Ivanoe Bonomi (4 luglio 1921-28 febbraio 1922), né da Luigi Facta nei due disastrosi governi seguenti, chiusi con l’insediamento di Mussolini il 31 ottobre 1922.

Tra queste vanno ricordate l’istituzione del Consiglio Nazionale del Lavoro e la “sepoltura della salma di un soldato ignoto”, che precorse la tumulazione del Milite Ignoto nel sacello dell’Altare della Patria il 4 novembre 1921.

Lo statista propose anche la riforma del voto nelle elezioni amministrative. In vista del rinnovo dei consigli comunali e provinciali (settembre-novembre 1920) aveva escluso l’adozione della proporzionale. Però il 1° dicembre 1920 la Camera approvò le “Modificazioni concernenti le elezioni amministrative”, il cui articolo 2 riconobbe il diritto elettorale attivo e passivo femminile. A favore si pronunciò anche Salvemini. Secondo lui le donne sentivano più acutamente degli uomini “la tutela dell’infanzia, la lotta contro l’alcoolismo, contro il diffondersi delle malattie sessuali, la lotta contro la tratta delle bianche, ecc.”, ma propose di fissare l’“età elettorale” femminile a 25 anni, anziché 21, perché “le femmine arrivavano più tardi dei maschi a contatto con le condizioni reali della vita”. Approvata a Montecitorio, la legge non fu calendarizzata in Senato e decadde con la fine della legislatura. Stessa sorte toccò al disegno di legge su trasformazione del latifondo e colonizzazione interna, che doveva concretare la promessa della “terra ai contadini”, ventilata sin dal 1917.

Per Giolitti la sconfitta più cocente fu però il fallimento della riforma delle riforme: la “approvazione da parte del Parlamento dei Trattati internazionali”, da lui presentata “di concerto con tutti i ministri” il 20 giugno 1920. Sin dal 13 agosto 1917, con sei mesi di anticipo sui 18 punti enunciati dal presidente degli USA Wilson quali pilastri della pace futura, Giolitti dichiarò chiusa l’epoca dei “trattati segreti”. A dargli ragione fu la scoperta nel Palazzo d’Inverno da parte dei bolscevichi di Lenin dell’arrangement di Londra del 26 aprile 1915 sulla cui base l’Italia era entrata in guerra. Tra le sue clausole vi era il sostegno dell’Intesa all’Italia per escludere il papa dal Congresso della pace, nel timore che vi sollevasse la “questione romana”. L’indignazione dei cattolici salì alle stelle. Nel discorso elettorale del 12 ottobre 1919 Giolitti fu ancora più esplicito: bisognava conferire al Parlamento, rappresentante del popolo italiano, il potere di “dichiarare” (altra cosa dal “proclamare”) la guerra. Vittorio Emanuele III, geloso custode delle prerogative della Corona, non la prese bene. Nella XXV legislatura la proposta non fu discussa. Appena aperta quella successiva, Giolitti ripresentò il disegno di legge, che però decadde come altre sue proposte avveniristiche ed uscì dall’orizzonte. Benito Mussolini si guardò bene dal rilanciarla. Preferì puntare alla “diarchia”: governare da duce con l’ombrello della Corona. Ma la “diarchia” era solo immaginaria, come si vide il 25 luglio 1943, quando il sovrano lo destituì e nominò Pietro Badoglio. Se la proposta di Giolitti fosse stata approvata la storia d’Italia sarebbe stata profondamente diversa; ma, come noto, la storia non si fa con i “se”.

Una constatazione finale s’impone: la Camera eletta il 15 maggio 1921 fu quella che a metà novembre 1922 approvò a larghissima maggioranza il governo di unione costituzionale presieduto da Mussolini e che nel 1923 approvò la legge elettorale fortemente maggioritaria Giolitti-Acerbo sulla cui base gli italiani andarono alle urne il 6 aprile 1924, eleggendo la Camera che poi varò le leggi fascistissime e generò il regime di partito unico. Essa era il frutto tossico della proporzionale, a conferma che una cattiva legge elettorale genera un pessimo quadro politico-partitico-istituzionale. E gli elettori, come disse Qualcuno, non sempre sanno quello che si fanno. Questo insegna la storia. Che accadrà in Italia nei prossimi mesi? Molti scuotono il capo: “Mala tempora currunt...”.

Aldo A. Mola

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Articolo pubblicato il 16/05/2021