La Brianza e mio marito
Canonica di San Salvatore

Chi ama scrivere a volte mette ordine nei suoi pensieri raccontando una storia. Ma quasi sempre la vicenda procede da sola, “dimenticando” luoghi e persone che magari hanno suscitato le emozioni da cui è nata.

I meccanismi psicologici in base ai quali veniamo colpiti da certe esperienze piuttosto che da altre, vissute sulla nostra pelle o colte tra le chiacchiere di un bar, perché ne mettiamo in connessione alcune tra di loro e altre invece con le nostre letture o con un tramonto, si sa, sono stati ampiamente indagati, con risultati più o meno convincenti. In particolare, quando mettiamo i nostri pensieri sulla carta, che meritiamo o no di fregiarci del titolo di scrittori, le scelte che più o meno consapevolmente operiamo per raccontare vicende o descrivere luoghi partono quasi sempre da fatti o emozioni che chiunque altro può avere vissuto, visto o immaginato, ma ognuno, a mio parere, ne farà una sintesi personale ed originale.

Per esempio: da cosa dipende la predilezione per la ricerca della realtà anche attraverso il suo squallore, la sua brutalità e la sua crudezza, oppure la volontà di rifugiarsi in un mondo fantastico? O ancora, dal punto di vista formale, quando e perché scegliamo il dialogo invece della descrizione, la prima o la terza persona e via dicendo? Anche in questo caso le conclusioni si sprecano e sono più o meno convincenti, ma è ad ogni modo un argomento su cui a mio avviso vale la pena di riflettere. Il più delle volte, comunque, a dispetto dei tentativi di inserire in una determinata costante le scelte dell’autore, alla luce della sua vita e delle sue esperienze, avviene che argomenti, personaggi e conclusioni dipendano dall’animo e dalla fantasia di chi scrive e siano magari diversissimi tra loro.

Ancora più originale è l’effetto che le parole scritte da altri fanno sul lettore, soprattutto se chi legge conosce l’autore; per non parlare di quando l’autore stesso, a distanza di tempo, si accorge delle costanti nelle sue opere, se ne stupisce e se ne domanda le ragioni, come se si trattasse di un altro e non di sé stesso.

Questa lunga premessa infatti è il frutto di una serie di risposte che ho cercato di dare, soprattutto a me stessa, in occasione di una osservazione che è stata fatta ad una presentazione del mio romanzo, “Lezioni sottintese”, dove manca completamente la Brianza, dove abito da più di quarant’anni.

Non ci avevo mai fatto caso prima, ma in quella circostanza la mia intervistatrice, che conosco da trent’anni, ha parlato della “milanesità” di Patrizia, assolutamente intonsa dopo quarant’anni di Brianza. Lei, monzese, l’ha detto sorridendo e scuotendo allegramente la testa, come davanti a qualcosa di inevitabile. Ed ha aggiunto: “Così come non c’è una parola su tuo marito, neanche di striscio.” Si è voltata verso di me e ha sorriso un’altra volta. Confesso di essere rimasta basita. Non ci avevo mai fatto caso.  

 

“Perché?”, mi sono chiesta. Ci ho pensato su parecchio: in Brianza ci sono venuta spontaneamente, per libera scelta, insieme a mio marito, milanese anche lui, nel 1979, allontanandomi dagli anni di piombo di  una Milano martoriata che amavo come continuo ad amare oggi, ma da cui volevo fuggire ogni fine settimana. Non riuscivo ad immaginare un weekend che non fosse al mare, in montagna o in campagna. Una bella campagna collinare come la Brianza, per esempio, dove ho passato gran parte della mia vita, dove dalla scuola in cui ho insegnato quarant’anni ho visto il Resegone incappucciarsi di neve e poi contornarsi di nuovo di cime verdeggianti, dove il fascino di “quel ramo del lago di Como che volge a mezzogiorno” mi ha incantato tante volte al tramonto e dove da Montevecchia mi sono riempita gli occhi di un paesaggio incantevole. Tuttavia, nel mio libro, nei miei saggi, nei miei articoli la Brianza non c’è, è vero, così come quando parlo delle stelle e della luna le ho sempre descritte al mare o a Milano. La luna che illumina la bella basilica di San Salvatore che ho la fortuna di vedere tra gli alberi sotto casa mia, è vero, nei miei scritti fa la sua comparsa solo ora. Perché?  Mi sono data qualche risposta.

Innanzitutto, se è vero che milanesi non si nasce, come dicono molti, ma si diventa, è altrettanto vero che milanesi si resta, sempre.

Infatti, negli anni, ho imparato una cosa: se sei nata a Milano, hai vissuto la tua infanzia, la tua adolescenza e la tua giovinezza a Milano, se hai frequentato un liceo del centro, come il mio indimenticabile Manzoni in via Orazio 3, se hai fatto la Cattolica, se la tua vita correva tra corso Vercelli e corso Magenta, tra Sant’Ambrogio e via Santa Marta, beh, allora la tua vita è segnata. Potrai trovarti bene con tanta gente, ma l’intesa con chi sa quanto sia buono il gelato in via Marghera è immediata e ti mette subito a tuo agio. E’ un’intesa che ti allarga il cuore e ti fa sentire davvero che Milan g’ha el coeur in man.

Ecco perché immagino le stelle sopra il Duomo. Oppure a Torre del Mare, il mio luogo dello spirito per eccellenza, il promontorio che si affaccia sull’isola di Bergeggi (che noi torremarini veri degli anni Sessanta chiamavamo Isola d’Oro) di fronte al “coccodrillo” di Noli; lì ho passato le mie lunghe estati da bambina, ragazzina, moglie, madre, zia e nonna. Come fai a non pensare alle notti d’estate, quando nella tua mente compaiono la luna e le stelle?

E la Brianza, allora, dov’ è finita? Ecco, forse è proprio questo il punto; non è finita per niente, è qui, bella e vitale. Neanche Milano e tanto meno Torre del Mare sono finite, è vero, anzi il tempo che passo in Liguria si allunga sempre di più, ma nel mio romanzo e nei miei racconti il presente non trova posto; il presente si vive, non si racconta. Carpe diem: il presente è fatto di fiori che stanno per sbocciare, che vanno guardati con amore e curati con attenzione. Nei libri si parla di fiori già colti, bellissimi, ma appassiti, a cui non bisogna guardare con nostalgia, ma sentirne il profumo e vederne i colori così come erano quando erano ancora nei prati: così sapranno far nascere nuove emozioni e sensazioni, che ci faranno vivere meglio il presente. Riesci ad immaginare qualcosa di più incantevole della Canonica di San Salvatore che si specchia nel mare sotto la luna mentre il suo campanile si assottiglia in una guglia da cui la Madonnina benedice e sorride? La Brianza c’è, nella mia vita, ma è il mio presente, quello che vivo, non quello che racconto; così come la Torre del Mare che vivo non è quella che racconto. Più bella? Non lo so, ma tutto, come sempre, dipende da te. Sei tu che lo rendi bello o brutto.

Come te, amore e marito mio: nei miei racconti non ci sei mai, se ci sono mariti-personaggi non ti somigliano per niente. Perché? Ma per il solito motivo. Tu ci sei, ci sei sempre, anche nei mesi in cui siamo stati separati per la pandemia. Noi abbiamo una vita passata in comune, ma la nostra storia continua, come il sentimento che ci unisce. Non si raccontano bene le cose che si vivono, ma quelle che si sono vissute e mescolate tra loro nella nostra fantasia. Allora diventano belle storie, forse. Ma tu non sei una storia, sei il mio presente, la mia vita.

Ecco perché non ti racconto.

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Articolo pubblicato il 09/06/2021