Camille Cavour

L'eurotorinese che fece l’Italia (di Aldo A. Mola)

Tutti Napoleonidi?

Cartavetro, pialla e biacca abradono, appiattiscono e coprono la storia sotto un cumulo di luoghi comuni. Nel 160° della morte, è la volta di Camillo Cavour? Con spirito giovanile l’inarrivabile Francesco Margiotta Broglio documenti alla mano ha recentemente osservato che il Conte nacque il 10 agosto 1810, otto mesi dopo il fugace quanto forse fecondo “incontro” tra sua madre (semper certa), Adèle de Sellon, consorte di Michele Cavour, e Napoleone I, a metà dicembre del 1809. L’imperatore l’aveva “notata” di passaggio a Torino e raccomandata alle attenzioni di sua sorella Paolina, moglie di Camillo Borghese, governatore della XXVII divisione dell’impero dei francesi: Piemonte e Liguria, due terre per la prima volta unite in una visione superiore dell’Europa. A scortare Adèle Cavour a Parigi fu l’alessandrina Cristina Ghilini, moglie del conte Francesco Ilario Scipione de Mathis di Conegliano e di Cacciorna, barone dell’Impero, come si legge nel vol. I della Storia di Bra (ed. 2002). Se così fosse, Camille Cavour risulterebbe involontariamente cugino primo di Napoleone III. Non solo. Se si vuole dar credito ad altre ipotesi insinuanti, poiché il padre naturale di Francesco Giuseppe d’Asburgo, imperatore d’Austria dal 1848 al 1916, e suo fratello Massimiliano (pretendente all’Impero del Messico e fucilato a Queretaro da Benito Juarez, strumento degli USA) sarebbero figli (sempre “naturali”) di Napoleone II, l’Aiglon, Cavour sarebbe anche stato zio di Cecco Beppe e tutte le guerre per l’indipendenza dell’Italia dal 1848 al 1918 si risolverebbero in una rissa tra Napoleonidi. Parenti serpenti e talvolta endogamici, come fa trasparire Margiotta Broglio. D’altronde nelle logge massoniche Napoleone I venne venerato come Osiride: il Sole, che illumina, riscalda e feconda.

Per un personaggio di statura europea, qual è Cavour, finire nel garbuglio di alberi genealogici fantasiosi è sicuramente affascinante. Precipitare nel tritacarne di luoghi comuni in commemorazioni più meno ufficiali è invece assai malinconico. Come senza entrare nei dettagli ha osservato Mino Giachino, in una recente rievocazione proprio a due passi dalla sua tomba, l’intervento del regno di Sardegna nella cosiddetta “guerra di Crimea” è stato collocato nel 1856, che invece è l’anno del Congresso di pace convocato da Napoleone III a Parigi, quando ormai tutto era finito. I bersaglieri ideati da Alessandro La Marmora sono stati spacciati (salvo rettifica...) per carabinieri con tanto di fez e soprattutto per l’ennesima volta quale artefice dell’accordo tra impero di Francia e regno di Sardegna è stata evocata Virginia Oldoini Vérasis, contessa di Castiglione. Per quanto “Nicchia”, come amabilmente era detta, la “contessa” non determinò affatto la “grande politica” di Napoleone III, “fosco figlio di Ortensia” (Beauharnais), figlia di primo letto di Joséphine de la Pagérie, prima moglie di Napoleone. Il tramite vero fra Torino e l’imperatore fu il giovane e brillante Costantino Nigra, incaricato d’affari, eletto gran maestro del Grande Oriente Italiano dopo la morte di Cavour, assistito dall’altrettanto abile Isacco Artom. 

 

Quando l’Ordine coatto genera il progresso

Gettati nella cesta della biancheria usata i pettegolezzi che riducono la storia a stormir di panni, Camillo Cavour (che abolì l’uso del “di”, a suo avviso riduttivo: preferiva firmarsi semplicemente “Cavour”, come hanno ricordato i suoi eccellenti biografi Rosario Romeo e Adriano Viarengo) va ricordato quale protagonista della storia del Piemonte, dell’Italia e dell’Europa. In un mondo ancora in massima parte ripiegato nel culto feticistico delle “tradizioni”, Camille aveva cinque anni quando Napoleone I, definitivamente sconfitto, fu deportato a Sant’Elena. Ne aveva 11 al tempo dell’insurrezione costituzionale del 1821. Figlio e nipote di massoni, “sveglio” come all’epoca erano i ragazzini (basti rileggere I miei Ricordi di Massimo d’Azeglio), ebbe chiaro che le lancette del tempo non si possono riportare all’indietro: soprattutto dopo il quarto di secolo trascorso dalla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino (1789) all’Atto addizionale che nel 1815 promise la svolta liberale dell’Impero napoleonico. Non era solo questione politico-diplomatico-militare. Nel frattempo scienza, tecnologia, produzione e commerci avevano compiuto mutamenti irreversibili. Lì era il progresso. La Santa Alleanza russo-austro-franco-prussiana combatté strenuamente liberali e società segrete: massoni, carbonari, adelfi, federati... Impose pace tra gli Stati e ordine ferreo al loro interno. La conseguenza di quel “blocco” fu l’impennata demografica, che aumentò richiesta di beni di consumo e dette impulso alla circolazione delle merci e delle idee: volàno della destabilizzazione di un “Ordine” coatto. La Restaurazione non fu vittima delle cospirazioni ma di se stessa. O, se si preferisce, della Storia, che è moto perpetuo e procede a zig-zag. La Santa Alleanza incarcerò, impiccò, represse. Ma le sue vittime furono solo qualche gocciolina di un mare che continuò a mandare verso riva flutti, onde, burrasche.

Quando nel 1830 Cavour ebbe vent’anni, i francesi cacciarono Carlo X (che aveva appena iniziato la conquista dell’Algeria) e si dettero per sovrano Luigi Filippo d’Orléans, il “re borghese”. In Inghilterra, Paesi Bassi e Belgio linee ferrate e navigli a vapore stavano accelerando le ripercussioni della seconda rivoluzione industriale. Persino nell’Impero d’Austria e in Germania gli asili adottarono modelli educativi di avanguardia. L’Ottocento di Johann Heinrich Pestalozzi fu il secolo della pedagogia. 

Lettore vorace di riviste d’avanguardia, di statistiche e di saggi sui mondi nuovi, anche Cavour compì il “grand tour”. Ma non si volse all’indietro, a contemplare leopardianamente “le rovine e gli archi”: Verona/Venezia, Firenze/Siena, Roma, Napoli. Andò a Parigi, Bruxelles, Londra. Non visitò musei ma i fulcri della modernizzazione (scuole, ospedali, carceri...), per capire dal vivo come voltar pagina al costo minore e con i benefici maggiori.

Da metà degli Anni Quaranta, di concerto con Ilarione Petitti di Roreto, puntò sulle strade ferrate, oggi in drammatico affanno. Dalla Sagra di San Michele o dal cacumine di San Salvatore Monferrato si vede la pianura a perdita d’occhio. I “confini” politici e amministrativi sono solo convenzionali. Le Alpi incombenti e gli Appennini, brevi ma scoscesi proprio a ridosso della costa, costituivano l’altra sfida. Era l’ora delle gallerie ferroviarie: verso Genova, per abbassare il costo del trasporto di grano e di guano in Piemonte e contenere i salari in un’età di espansione edilizia, ma anche verso la Francia, in direzione di Chambéry e di Nizza Marittima, all’epoca parte integrante del regno di Sardegna.

 

Carlo Alberto il Lungiveggente

A spianare la strada al primato politico di Cavour fu Carlo Alberto di Savoia, che non l’ebbe mai in particolare simpatia. Re dal 1831, nell’autunno del 1847 decise che era saggio battere sul tempo la “rivoluzione”: meglio concedere riforme che cedere alla piazza, pessima consigliera. Rese elettivi i consigli comunali, provinciali e divisionali. L’8 febbraio 1848 enunciò i capisaldi dello Statuto, scritto in pochi giorni e promulgato il 4 marzo: governo “del re”, responsabile; una camera elettiva, un’altra, il Senato, di nomina regia e vitalizia; libertà di culto e di stampa; uguaglianza dei cittadini dinanzi alle leggi. Per Cavour le riforme vollero dire dibattito nei giornali e in Parlamento. Chi ha più filo fa più tela. Torino tornò al centro dell’attenzione europea, soprattutto dopo la rivoluzione che a Parigi sfociò nella Seconda repubblica, con “giornate” drammatiche e sanguinose (cadde anche l’arcivescovo mentre cercava di sedare scontri) e dilagò ovunque, da Praga a Vienna, da Berlino a Budapest. In Italia insorsero Venezia e Milano, Parma e Piacenza. Carlo Alberto dichiarò guerra all’Austria per soccorrere i moderati lombardo-veneti e nei ducati padani. Anche Ferdinando IV di Borbone nelle Due Sicilie e Pio IX nello Stato pontificio concessero costituzioni, salvo sconfessarle. Il 9 febbraio 1849 a Roma furono proclamate la decadenza del potere temporale del papa e la Repubblica. La città Eterna divenne un laboratorio politico-istituzionale denso di temibili incognite.

Dopo la sconfitta di Novara (23 marzo 1849), l’abdicazione di Carlo Alberto e l’ascesa al trono del ventinovenne Vittorio Emanuele II, Cavour, conservatore illuminato, individuò il nemico nei clerico-reazionari e nei gesuiti, la cui espulsione dal regno venne chiesta sin dal febbraio1848. Non esitò ad attizzare proteste contro l’arcivescovo di Torino, Luigi Fransoni, colpevole di aver negato il viatico della buona morte a Pietro de Rossi di Santarosa, ministro dell’Agricoltura, perché non sconfessava il voto a favore delle leggi che abolirono privilegi arcaici del clero.

Il presidente del Consiglio in carica, Massimo d’Azeglio, si spinse oltre, propugnando l’introduzione del divorzio. Succeduto a Santarosa e poco dopo presidente del governo, Cavour rischiò più volte di finire minoranza. Non bastavano il connubio di centro-sinistro con il “democratico” alessandrino Urbano Rattazzi, il sostegno della Società Nazionale (presieduta da Daniele Manin e poi da Giorgio Pallavicino Trivulzio, a lungo detenuto allo Spielberg, con Giuseppe Garibaldi per vice), il conforto degli esuli politici accorsi a Torino da tutt’Italia, la benevolenza di osservatori esteri, di “congreghe” tanto occulte quanto potenti e neppure il successo dell’intervento a fianco dell’alleanza anglo-franco-turca contro la Russia nella “guerra di Crimea” (ottobre 1853- 1° febbraio 1856).

 

Cavour, don Margotti e fra’ Giacomo da Poirino

Cavour chiuse la partita con le elezioni del 1857, vinte con ampio meticoloso ricorso a brogli (già ne aveva usati ai danni della Sinistra) e con il colpo di mano finale: chiese e il 5 giugno 1858 ottenne l’annullamento dell’elezione di quattro ecclesiastici, canonici senza cura di anime e quindi del tutto eleggibili. Lo scopo di quella offensiva non era assicurarsi qualche voto in più alla Camera, ma mandare un segnale preciso all’interno e all’estero. Tra quanti si videro annullare l’elezione spiccava il trentaquattrenne don Giacomo Margotti (Sanremo, 1823-Torino, 1887). Direttore del periodico torinese “L’Armonia”, aveva guidato l’opposizione contro le leggi Siccardi e l’incameramento statale dei beni degli ordini religiosi “contemplativi”. Aveva anche deplorato la condotta privata di Vittorio Emanuele II, che (a quanto si narra) conservò il bastone rotto sulla sua schiena per fargli capire che era meglio si occupasse di altro. In risposta alla prevaricazione don Margotti invitò i cattolici ad applicare la formula “né eletti, né elettori”, che segnò la divaricazione dei clericali intransigenti dal “Risorgimento scomunicato”. Poi divenne il “non expedit” che resse sino al Patto Gentiloni del 1913 tra cattolici moderati e costituzionali, pronubo Giovanni Giolitti.

Per mezzo secolo l’Italia “politica” fu spaccata in due fronti contrapposti. Non quella “amministrativa”, che ebbe tutt’altra dinamica, come convengono storici di opposte sponde, quali per i cattolici, Marco Invernizzi, Oscar Sanguinetti e Paolo Martinucci, autore di una scrupolosa biografia del conte Clemente Solaro della Margarita, capofila dei cattolici conservatori (Ed. D’Ettoris). Ognuno aveva la sua “verità”. Nel 1859 “moti” organizzati consentirono ai “piemontesi” di sottrarre Emilia e Romagna ai Cardinali legati pontifici e far chiedere l’annessione, confermata dal plebiscito dell’11-12 marzo 1860 (140.776 “si” contro 2.810 “no”), contemporaneo a quello celebrato in Toscana. Nel settembre 1860, previo via libera da parte di Napoleone III (“Fate, ma fate in fretta”), per impedire che Napoli divenisse un atanor rivoluzionario europeo per il miscuglio esplosivo di protosocialisti, mazziniani, federalisti, liberi pensatori e venturieri vari, col pretesto di tutelare i liberali aggrediti dai clericali due corpi d’armata “sardi” irruppero in Umbria e nelle Marche e sconfissero i pontifici a Castelfidardo. Senza dichiarazione di guerra, Vittorio Emanuele proseguì dall’Abruzzo verso la Campania ove il 26 ottobre Garibaldi lo salutò “Re d’Italia” e gli “consegnò” l’ex regno delle Due Sicilie. Cavour aveva sperato di “fermare Garibaldi” (e persino ordinato all’ammiraglio Carlo Pellion di Persano di “arrestarlo”, come Nico Perrone legge il mandato di “fermarlo”).

Alla spoliazione del suo Stato, non potendolo fare con la spada di Giulio II e il grido di “Fuori i barbari”, Pio IX rispose con l’arma estrema a sua disposizione: la scomunica del re, del suo governo e di tutti i suoi “agenti”. Cavour non arretrò di un millimetro. Ratificata l’annessione dell’Italia meridionale (21 ottobre) e di Marche e Umbria (4 e 5 novembre), passò all’incasso con lo scioglimento della VII legislatura della Camera “piemontese” e le elezioni del gennaio 1861. Appena inaugurata a Torino, in una sede parlamentare allestita alla meglio nel cortile di Palazzo Carignano (il Senato, che registrava la presenza di poche decine di suoi componenti, si radunava a Palazzo Madama, dirimpetto a Palazzo Reale) la nuova legislatura, la prima effettivamente nazionale, voltò pagina: il 14 marzo Vittorio Emanuele II assunse per legge il titolo di Re d’Italia. Era stato lui a unirla e a garantire all’Europa che il nuovo Stato avrebbe concorso alla pace.

Cavour però guardò subito oltre: Mantova e il Triveneto rimanevano dominio asburgico e nulla lasciava presagire un loro possibile riscatto dallo straniero. Era questione del “concerto delle grandi potenze”. Gli importava invece risolvere la “questione di Roma”, che non era “questione romana” ma “italiana”: la pacificazione tra cattolici e liberali, tra unità politica nazionale e armonia delle coscienze. Pronunciò in Parlamento i discorsi ripubblicati da Corrado Sforza Fogliani nel 150° di Porta Pia (collana “Libro Aperto”, diretta da Antonio Patuelli). Dichiarò che in Roma non bisognava entrare con i cannoni, con la violenza; ed esortò il pontefice a consentire la pacifica unione della Città Eterna all’Italia. Il 27 marzo il Parlamento acclamò Roma capitale d’Italia. Mezzo secolo dopo la festa dell’unità nazionale venne celebrata quel giorno. L’appello di Cavour però cadde nel vuoto, benché migliaia di teologi, presbiteri, ecclesiastici di vari ordini e congregazioni, compreso l’abate di Montecassino, si stessero pronunciando per la conciliazione immediata tra Sacro Soglio e regno d’Italia.

Cavour non vide l’evoluzione e la conclusione del différent Stato/Chiesa. Nel 1860 aveva affrontato alla Camera la durissima polemica di Garibaldi contro la cessione dell’italica Nizza alla Francia (passò senza difficoltà quella della francofona Savoia). Nel 1861 ancora una volta soffrì lo scontro con l’Eroe sulla sorte dell’“Esercito Meridionale”, rivendicato dal Generale quale vero artefice dell’unione del Mezzogiorno alla corona. Colto da violentissima febbre malarica, stremato da mortiferi salassi (“medice, cura te ipsum!...”), in pochi giorni Cavour venne accolto dalla Grande Visitatrice. Morì il 6 giugno 1861. Fra’ Giacomo da Poirino, come da lui desiderato, in articulo mortis gli amministrò il viatico. Liberale (e, si dice, anche un po’ libertino) morì cattolico. Convocato ad nutum da Pio IX e convinto di aver assolto alla propria missione sacerdotale, il francescano fu severamente punito: sorte analoga a quella poi toccata a don Valerio Anzino che a sua volta, nei modi narrati da Aldo G. Ricci, impartì il viatico allo scomunicato Vittorio Emanuele II, morto il 9 gennaio 1878.

Cavour è dunque un gigante della storia italiana ed europea. Non solo dei confini doganali, politici, monetari...: dei “metalli”. È un gigante dello Spirito. Perciò merita di essere rievocato col rispetto che si deve all’Assoluto. Ed è doveroso associarne il nome a quello dei grandi continuatori italo-europei del liberalismo: sino a Giolitti e a Luigi Einaudi, antesignani dell’Italia odierna, come aveva intuito e propugnato Valerio Zanone. Parlare di “visione” cavouriana presuppone di aver veduto almeno da lontano le copertine dei volumi del suo Epistolario, dei suoi Scritti economici e politici e dei suoi Discorsi. Non mancheranno occasioni di rievocarlo nel corso di questo ancora fortunatamente lungo 2021.

Aldo A. Mola

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Articolo pubblicato il 13/06/2021