Città, Poteri Centrali, Parlamento
ERNESTO NATHAN (1845 - 1921)

Troppi nodi al pettine (di Aldo A. Mola)

I topi all’offensiva

Ma amministrare le città è ancora possibile? Sale la protesta dei sindaci che chiedono mani più libere per esercitare al meglio i poteri che gravano sulle loro spalle e, al tempo stesso, uno scudo contro la “responsabilità oggettiva” che incute timori e avvia alla stasi. Alla vigilia di un imponente turno elettorale, più volte slittato, si ventila l’abolizione del divieto di terzo mandato per i centri medio-piccoli, nella consapevolezza che bravi sindaci e assessori non si nasce: è un “mestiere” difficile, dai risvolti spesso amari (l’ingratitudine è l’altra faccia della medaglia di chi non ottiene quanto attendeva dal voto). Si impara facendo.

Fondamentale rimane la regola suggerita dall’alessandrino Urbano Rattazzi jr, già ministro della Real Casa con Umberto I, al sessantenne Giovanni Giolitti, in procinto di tornare al governo: non inventarsi nemici inesistenti e badare al paese che lavora e non vuole essere intralciato dai pubblici poteri.

Altrimenti accade quanto scrisse Guido Da Verona (1881-1939) nel suo più felice e memorabile romanzo, I Promessi Sposi (lettura consigliata nelle lunghe sere d’estate), che non è una parodia dell’opera di Alessandro Manzoni, ma allegro divertissement concepito e pubblicato (purtroppo per l’autore) a ridosso dei Patti Lateranensi sottoscritti dal Trucio paleo-ateista e dal Cardinale Pietro Gasparri, che Vittorio Emanuele III subito premiò con il Collare della Santissima Annunziata (lo aveva appena conferito ai re del Siam e dell’Afghanistan, ad Ailè Selassiè, imperatore d’Etiopia, e a Zog I di Albania).

“Non è prudente rompere le scatole ai topi” scrisse Da Verona per far capire gli errori di chi amministra inventando nemici e complotti dei “poteri forti”. “I topi, che fin quando nessuno si era curato di loro, vivevano piuttosto ritirati, senza causare il minimo disturbo alla cittadinanza, ora invece - occhio per occhio, dente per dente - conducevano contro la città di Milano e contro i suoi governanti un’offensiva in piena regola. Organizzati su piede di guerra, armati e comandati a puntino, correvano in frotte poderose per ogni angolo della città.” Avevano chiesto rinforzi a quelli della campagna e dei borghi circonvicini. Fecero il diavolo a quattro. “Un tale se ne stava tranquillamente consumando la sua parca cena e un topo gli entrava nella minestra. Stava costui dormendo, la notte, a fianco della sua legittima consorte, e udiva costei d’improvviso risvegliarsi con altissime grida, perché un topo di mole considerevole, violando la santità dell’alcova e il segreto del talamo coniugale, aveva persino tentato di recare offesa alla donna addormentata. Era un flagello di Dio, un finimondo, un disastro da perdervi la ragione. Topi dappertutto...”. Correva il 1630, l’anno della famosa “peste”.

Quattro secoli dopo, la benemerita Associazione Riaprire i Navigli chiede giustamente di rimuovere sabbia e detriti dai canali milanesi non irrimediabilmente coperti per restituirli ai cittadini, anzi alla Memoria: sono un monumento, la prova dell’intelligenza dei secoli andati, quando vedevano scorrere barche d’ogni genere e stazza e, grazie a secoli di fatiche e al genio di Leonardo da Vinci, concorsero alla proto-industrializzazione della città ambrosiana. Perché non creare un canale navigabile continuo dai laghi di Como e Maggiore passando per Milano sino a Mantova e via proseguendo sino a Venezia? Un tempo era normale. Libera dai topi dei secoli andati e dalle manie dei governatori spagnoli che (osserva Da Verona) facevano nella loro lingua le stesse fesserie poi fatte in italiano, Milano può farcela.

 

I ratti di Roma

Per Roma i ratti sono un’altra storia. Anzitutto perché la derattizzazione (“esternalizzata” come si dice dei servizi pubblici che per debolezza o incapacità gli enti locali non sanno gestire con propri tecnici) ha un costo spaventoso e non risolve alcunché. E poi perché le pantegane non sono più sole a sguazzare notte e giorno tra i rifiuti. Anzi, patiscono la concorrenza selvaggia di cinghiali, che bazzicano dai Sette Colli al Lido, e di voraci gabbiani dalle ali smisurate, che piombano a picco nell’insalata di chi si pasce i primi pranzi all’aperto dopo mesi di clausura e, all’occorrenza, inghiottono anche i topi.

Per quasi un anno la Città Eterna è stata spettrale, ridotta a una grigia incisione del Piranesi. Piaceva a chi non l’aveva mai vista e vissuta davvero. Come fosse all’indomani di bombe ai neutroni, era una cortina di facciate di palazzi deserti, chiese senza sacerdoti né fedeli, serrande abbassate, chioschi serrati, taxi che inseguivano i rari pedoni per portarli gratis ovunque volessero pur di confidarsi almeno con i passeggeri. L’avessero deciso, non avrebbero saputo neppure contro chi scioperare.

Tornata “città di vita” (altro che la Fiume cara a Giordano Bruno Guerri), come tutta l’Italia anche Roma sta ora per sprofondare nel temibile prolungamento dello “stato di emergenza”. E se per via di una quarta prevedibile ondata o almeno di un flutto o di chissà quale increspatura di una variante del covid-19 il governo decidesse che neanche nel prossimo autunno si potrà votare a Roma, Milano, Bologna, Napoli, Torino, dove tanti partiti non trovano la quadra di alleanze per tirare a campare altri inconcludenti cinque anni?

Già l’impossibilità che le Camere possano essere sciolte dal presidente della repubblica negli ultimi sei mesi del suo mandato si sta rivelando un’incomprensibile bizzarria voluta dai tanto celebrati costituenti del 1946-1947. L’eventuale mancato rinnovo delle amministrazioni locali davvero non avrebbe alcuna motivazione accettabile. Non certo quella della pandemia. Non c’è Paese più o meno civile nel quale non si sia votato. Delle due l’una: o Israele, Stati Uniti, Olanda, Germania, Cile, persino l’Iran, ecc. ecc… sono governati da pazzi furiosi oppure è sotto gli occhi di tutti che si può votare senza scassare né la democrazia né altro. Del resto lo fece il governo Conte bis (PD-Cinque Stelle) che il 20 settembre 2020 anziché ricordare il 150° di Porta Pia fece celebrare il referendum confermativo della riforma più stupida e devastante approvata dal parlamento dal 1848 a oggi: la riduzione dei deputati e dei senatori senza uno straccio di previsione delle sue conseguenze, se non quella (prima o poi si vedrà) della divaricazione ulteriore tra elettori e loro rappresentanti, tra “istituzioni” e cittadini ormai arcistufi di sermoni quotidiani riecheggianti l’articolo 6° della Costituzione di Cadice del 1812, secondo la quale essi debbono essere “giusti e benèfici”. Per legge.

 

Il Sole Invitto sulla Roma di Nathan...

Arrivano il Solstizio d’Estate e il San Giovanni Battista, protettore delle logge con o senza falò, fuochi artificiali e altri sprechi di pubblico danaro. È nelle cose. Come nelle cose è il degrado di molte città, parecchie delle quali sono sull’orlo del fallimento. Quando arriverà il redde rationem da parte dell’esecutivo? O il potere centrale non osa procedere per non vedersi rinfacciare il suo? Il debito pubblico dell’Italia continua a ingigantirsi. È il baratro nel quale il Paese s’inabissa. Per ora neppure il governo Draghi, avvolto nelle spire del polpo gigante del parassitismo clientelare di partiti e sindacati, ha posto rimedio efficace.

Eppure non sempre è andata così. Non mancano esempi che voltar pagina si può. Accadde proprio a Roma all’incirca 110 anni addietro, in un passato che sembra remoto e tuttavia ha molto da insegnare. Tra i suoi amministratori eccellenti all’indomani della sua tardiva e venturosa annessione all’Italia vi fu Luigi Pianciani (Roma, 1810-Spoleto, 1890), primo sindaco della Città Eterna dopo l’irruzione del generale Raffaele Cadorna. Antico Gonfaloniere di Spoleto, perseguitato, esule, autore dei tre volumi “La Roma dei Papi”, deputato, gran jerofante dell’Ordine di Menfi Riformato, Pianciani fu compagno di squadra e compasso di Antonio Labriola, unico socialista scientifico in Italia. Ai più il suo nome oggi dice poco o nulla, eppure fu un protagonista della crescita europea dell’Italia.

Dopo di lui venne la breve quanto esemplare stagione di Ernesto Nathan, sindaco della Capitale dal 1907 al 1913. In sette anni voltò pagina. Era nato a Londra il 5 ottobre 1845, quarto dei dieci figli di Moses Meyer Nathan e di Sara (Sarina) Levi Nathan. Educato nel culto di Giuseppe Mazzini, ottenne dal Parlamento la “grande cittadinanza” che gli consentì di esercitare i diritti politici, ma con mediocre successo. Consigliere provinciale a Pesaro fallì ripetutamente l’elezione alla Camera. Gli riuscì invece la fulminea ascesa al vertice del Grande Oriente d’Italia, grazie alla protezione iniziale del gran maestro Adriano Lemmi e al sostegno di Ettore Ferrari, lo scultore che forgiò le statue di Arnaldo da Brescia e di Giordano Bruno. Gran maestro a sua volta dal 1896 al 1903, nel 1906 Nathan pubblicò Vent’anni di vita italiana attraverso all’“Annuario” (ed. Roma-Torino, Roux e Viarengo), in cui vaticinò l’operosa convergenza di laici e cattolici e propose quale esempio il comunello di Pianosinatico (o Piano Asinatico), ove la domenica il parroco e i popolani lavoravano insieme a edificare la scuoletta ove sarebbe cresciuta la nuova generazione. Era il viatico perfetto per la Terza Italia, cooperazione di liberali progressisti, demo-radicali e socialisti riformisti con occhio di riguardo per i cattolici modernisti come Fogazzaro, che stavano scompaginando l’unanimismo della chiesa di Pio X, quella del “catechismo” e delle riforme al suo interno e verso l’esterno, studiate con competenza da Gianpaolo Romanato, biografo di Papa Sarto. Nathan vi scrisse con toni profetici: “Tutti vedevo, dal papa instabile e volubile che benediva (sic) l’Italia, dal re che vi consacrò la sua corona, dagli apostoli di penna e di spada che scrissero e pugnarono, al grande coro greco, ai popolani che sui palchi (cioè i patiboli, NdA), nelle carceri intonarono l’inno alla patria...”, tutti intenti “ad innalzare l’edificio nazionale”.

Consigliere comunale a Roma dal 1898 e assessore all’economato e ai beni culturali, dopo un primo successo il 30 giugno 1907, quando i suoi sodali conquistarono 24 dei 29 seggi in palio per un rinnovo parziale del consiglio, alle elezioni generali del 10 novembre seguente Nathan non fu affatto il più votato tra i consiglieri della sua lista e tuttavia venne eletto sindaco. La sua epopea è ripercorsa da Fabio Martini in Nathan e l’invenzione di Roma. Il sindaco che cambiò la Città eterna (ed. Marsilio), brillante excursus di centocinquant’anni di amministrazione capitolina (sino a Clelio Darida, Luigi Petroselli, Francesco Rutelli, Valter Veltroni e Ignazio Marino) con qualche piccolo neo (Achille Ballori compare due volte come Antonio Bellori). Circondato da una giunta di amministratori preparati e volitivi, come Giovanni Montemartini, Giovanni Antonio Vanni (alto dignitario massonico, affiliato alla “Universo”), Alceste Della Seta, Eleno Spada (iniziato alla “Pisacane”) e Alberto Tonelli (quasi nessuno era “romano de Roma”), Nathan avviò un programma di “cose da fare” e le fece: municipalizzazione dei servizi, moltiplicazione delle scuole, valorizzazione del patrimonio monumentale, completamento di opere pubbliche dormienti da decenni. Mostrò che “volere è potere”.

La sua ascesa al Campidoglio dimostrava al mondo che contava (Londra, Parigi, Berlino...) che anche un ebreo e massone poteva prendere sulle spalle l’amministrazione di Roma senza mancare di rispetto né al clero né al Papa, come del resto la Nuova Italia aveva mostrato con i conclavi dopo la morte di Pio IX e di Leone XIII. Inoltre egli parlava perfettamente l’inglese, sua lingua madre, mentre un’altra parte d’Europa ammirava il tedesco non per la filosofia di Kant e di Hegel, la filologia, la storiografia di Mommsen e Gregorovius, ma perché la Germania era all’avanguardia nella produzione di armi e l’Austria lasciava che l’antisemitismo dilagasse.

L’amministrazione Nathan ebbe un compito non dichiarato e tuttavia fondamentale: preparare la celebrazione del cinquantenario del Regno e il quarantennale dell’unione di Roma all’Italia. Il governo, con Giolitti e Luigi Luzzatti, ci mise del suo su mandato diretto di Vittorio Emanuele III, il re che a Nathan consegnava di persona aiuti finanziari per gl’irredenti di Trieste e dell’Istria, come ricorda il suo biografo Alessandro Levi in Ricordi della vita e dei tempi di Ernesto Nathan (Firenze, 1927, “edizione fuori commercio”).

In quattro anni la Giunta Nathan inanellò una serie di successi. Giunsero a compimento opere gigantesche, come il Palazzo di Giustizia tra Lungotevere e Piazza Cavour, fu varato un eccellente piano regolatore, vennero aperti al pubblico la Passeggiata Archeologica, le Terme di Diocleziano, Castel Sant’Angelo, Villa Giulia. Sotto la guida di Giovanni Montemartini sorsero l’Azienda autonoma tramvie municipali e l’Azienda elettrica municipale. Furono aperti 150 asili, scuole (anche in periferia, nell’Agro). In pochi anni, insomma, Roma mutò volto, sino al solenne scoprimento del monumento equestre di Vittorio Emanuele II all’Altare della Patria, celebranti il Re, Giolitti e Nathan stesso (4 giugno 1911).

Ma il Venti settembre 1910 il sindaco sparò a zero non contro i clericali e Pio X ma addirittura contro il Papato in sé e la Chiesa cattolica, liquidata come imbalsamato cadavere del vecchio Egitto, “frammento di un sole spento, lanciato nell’orbita del mondo contemporaneo”. Neppure Martini sa spiegare le ragioni di tale infelice sortita, deplorata dal “Times” come prova della sua scarsa conoscenza del mondo e “di molte regole di condotta”.

 

… sulla Torino di Rossi di Montelera...

Di tutt’altro tenore era in quei tempi l’amministrazione civica di Torino, basata sulla convergenza del sindaco Teofilo Rossi di Montelera e dell’antico massone Tommaso Villa, radiato dal Grande Oriente perché contrario all’estremismo di logge quali la “Popolo sovrano” che imponeva il giuramento antimilitarista, antimonarchico e antireligioso. Un po’ troppo per un Ordine che dichiara di non occuparsi di politica e di religione e che non per caso nel 1908 registrò la scissione dalla quale nacque la Gran Loggia d’Italia.

L’estremismo non paga. Il clima stava mutando. Il suffragio universale, voluto da Giolitti (1912-1913), colse impreparata la rete elettorale incardinata sui piccoli gruppi. A lungo incerto sulla via da imboccare, dinanzi al massimalismo e all’inconcludenza dei riformisti (sempre refrattari a impegnarsi nel governo), Giolitti propiziò l’accordo con l’Unione Elettorale presieduta dal conte Ottorino Gentiloni a sostegno di cattolici e liberali, purché moderati e anche se massoni: somma di conciliazione silenziosa e di laicizzazione altrettanto in sordina. Dopo la vittoria dei nazionalisti nelle elezioni dell’ottobre 1913, l’amministrazione Nathan si dimise l’11 novembre 1913: una data fatale. Il “figlio di Sarina” lasciò il Campidoglio il 7 dicembre seguente. L’apogeo e la drammatica fine dell’Ordine si consumarono i pochi anni, tra il 1921 e il 1925. Quella Terza Italia non fece in tempo ad “allevare” una classe dirigente diffusa; fece però emergere alcune menti elette, quali i massoni Alberto Beneduce e Arcangelo Ghisleri, che, fiero repubblicano intransigente, fu incaricato da Nitti di compiere il primo serio studio sulla “Libia” e approntò un volume eccellente.

 

...e sull’Italia odierna in affanno.

Ora si torna alla casella di partenza? Uno vale uno solo nelle fiabe.

L’esempio di Nathan va ricordato mentre per la prima volta l’Italia si trova nel collo di bottiglia di tre elezioni una a ridosso dell’altra: le amministrative nelle grandi città, quelle del nuovo Capo dello Stato e del Parlamento. Le uniche certezze sono che alcuni dei sindaci uscenti talvolta sono anche scadenti; che il settennato presidenziale è lungo e breve a un sol tempo e non offre i vantaggi della monarchia costituzionale, nella quale almeno l’Istituzione suprema dello Stato non è soggetta al tiro alla fune tra fazioni, né alle ricorrenti minacce di imputazione per tradimento della Costituzione; e che nessuno è in grado di prevedere il volto del Parlamento prossimo venturo. Un azzardo.

C’è chi crede nei miracoli. Ma per ottenerli bisogna pregare. La maggior parte degli italiani ne ha persa l’abitudine. Biascica maleparole. Lo sa la Chiesa che infatti ha messo in cantiere il Sinodo. Senza un miracolo occorre fare i conti con la realtà. Lo insegnò Ernesto Nathan che cancellò dal bilancio di Roma la spesa per “frattaglie per gatti”. Mangiassero topi. Mentre “non c’è più trippa per i gatti”, con un 25% di giovani che non lavorano né studiano l’Italia non può continuare a distribuire redditi senza entrate da produzione né accogliere “migranti” in numero e a tempo indeterminati. È già insidiata da una miriade di parassiti.

Aldo A. Mola

Stampa solo il testo dell'articolo Stampa l'articolo con le immagini

Articolo pubblicato il 20/06/2021