Natura magistra vitae

Riflessioni del Gran Maestro Emerito della Gran Loggia d'Italia, Prof. Antonio Binni

di Antonio Binni

 

Per secoli, gli umani hanno appreso dal mondo naturale lezioni e ammaestramenti fondamentali, specie di tipo sociale e morale: verità nascoste divenute così evidenti perché “è più valida la testimonianza della natura che gli argomenti dei dotti” (così il Vescovo di Milano Ambrogio nell’opera dedicata al commento dei sei giorni della creazione dal titolo Esamerone, Sesto giorno IX, 2, Roma, Città Nuova 2002, pag. 259).

Che la natura costituisca il tramite abituale della conoscenza è, del resto, un fatto generalmente riconosciuto e ammesso. Se è vero, come è vero, che anche Bernardo da Chiaravalle – lui pure Santo come Ambrogio – ha lasciato scritto che “Troverai più nelle selve che nei libri. Gli alberi e le rocce ti insegneranno le cose che nessun maestro ti dirà”. Trattasi, innanzi tutto, della acquisita conoscenza del Creatore attraverso appunto la mediazione della realtà finita che tutto circonda. Il finito viene, infatti, impiegato per rappresentare l’infinito. Ciò che è materiale diviene rinvio all’immateriale perché si riconosce che il creato è scritto dal dito di Dio, l’Informale che forma ogni forma.

L’Assoluto ha infatti bisogno del relativo per manifestarsi, come il relativo ha bisogno dell’Assoluto di cui è immagine per potere esistere. È questo un pensare sacro perché l’essere umano nella realtà fattuale coglie la piena – e prima – manifestazione del Divino che, nel mondo, si fa figura, terrore e dolcezza insieme, sostanza vivente che mai nega alla creatura l’incontro e la parola. Una parola che è essenzialmente – e soprattutto – ammaestramento di vita.

Dal cammino del Sole, l’umano ha appreso che il trionfo della luce è preparato dal trionfo della oscurità. Sempre scrutando l’astro, che non conosce sosta nel suo apparente percorso, ha ravvisato in quel viaggio un modello, un paradigma di vita, che non permette l’arresto, pena la palude dell’esistenza e del pensiero. Seguendo parimenti il procedere del Sole, l’Uomo, da attento indagatore, ha compreso il senso del suo cammino: dal buio alla luce; dalla ignoranza alla conoscenza. Scrutinando gli elementi, ha scoperto altresì che la morte dell’aria è la vita del fuoco. Ha così definitivamente appreso che la morte è nella vita. La morte del seme gli è apparsa come un autentico miracolo nella stupefacente moltiplicazione della spiga nata nel campo. Gli è stato così allora evidente che la morte può essere fonte di rinascita. Pure per l’essere umano. Se non certezza, quanto meno, speranza.

Nella venerazione della luna, l’uomo ha poi avuto un ulteriore motivo per avere fiducia in una sua vita post mortem. La luna è, infatti, il primo morto che, dopo tre giorni, risuscita.

Nel porsi in armonia con i ritmi astrali, la creatura, sollevando il velo che occulta il disegno sovraumano, ha finito così per conoscere – e cogliere – la stessa essenza della vita. L’uomo, quando conosce la natura, finisce per conoscere pure se stesso. L’albero, questo simbolo verticale, è stato dagli antichi progenitori caricato di un numero indeterminato di significati: sacralità; punto di incontro tra mondi diversi; universo; percorso iniziatico; labirinto; pazienza. Soprattutto, però, vita, perché nulla come l’albero rappresenta la vita. L’albero è, infatti, vita perché è una struttura che si sviluppa a principiare dalle radici e, quindi, da un seme. Esattamente come l’essere umano. Da qui una comunanza di destino – nascita; evoluzione; morte – perché l’albero, come l’uomo, partecipa della vita universale. Per questo, conoscere l’albero, significa conoscere l’uomo. Per questo, nell’albero, c’è un insegnamento così prezioso che nessun altro maestro è in grado di impartire.

Nella quarantunesima lettera a Lucilio, Seneca scrive che, se allo sguardo del visitatore, “si presenterà un bosco folto d’alberi secolari altissimi, che con l’intrico dei rami protesi” impedirà “di alzare la vista al cielo, la maestosità di quella foresta, la solitudine del luogo, lo spettacolo meraviglioso di quell’ombra” l’imponente spettacolo farà “credere alla presenza di un Dio”.

A dar seguito a questa anticipata descrizione è stata dunque la natura ad avere insegnato all’uomo quel bosco pietrificato che è la cattedrale gotica! I tronchi di legno degli “alberi secolari altissimi” sono infatti divenuti svettanti, temerarie colonne di marmo che, con la loro verticalità, inducono a rivolgere gli occhi al cielo; le fronde intricate, capitelli e ardite volte; “l’ombra fitta”, la penombra che, al fedele in preghiera, ricorda la molteplicità dell’esistenza e l’unicità del Principio. Una penombra dorata assicurata dal rosone – copia di un fiore – che, con i suoi, di norma, dodici raggi, mentre permette l’ingresso della luce nel silenzio del Tempio, assicura contestualmente il passaggio dalla Eternità al tempo. L’uomo ha poi colto una ulteriore fonte di saggezza negli animali e nei loro comportamenti. Ora lodevoli. Ora riprovevoli. Da qui l’invito del Vescovo di Milano a seguire la virtù di alcune creature. Come, ad esempio, la piccola formica che non opera come schiava, quanto invece come essere dotato dalla “previdenza spontanea” di costituirsi “in anticipo riserve di alimenti per il futuro” (Op. cit. pag. 256). O il cane elogiato per il suo spirito di lealtà (Op. cit. ivi).

E, nello stesso tempo, l’esortazione a non imitarne invece altre per il loro comportamento spregevole o dannoso, quale, sempre per esemplificare, quello dell’asino, stupido ed indolente (ivi). Rimane, in ogni caso, il fatto incontestabile che, dalla natura del mondo non umano, l’uomo ha saputo apprendere la ricchezza dell’istinto degli esseri irragionevoli, una dimensione e una forza potente che indirizza e guida molto più delle discussioni degli esseri dotati di ragione.

Del resto, se gli animali sono così presenti nei proverbi e nel folclore di tutti i popoli, questa diffusa presenza può spiegarsi solo col fatto che la loro sapienza aiuta a chiarire le ambiguità della condizione umana. Si ritiene, infatti, che gli animali conoscano i segreti della natura molto meglio degli esseri umani. Molti animali non fanno più parte della biodiversità odierna. Questa perdita è sicuramente un impoverimento in tutto ciò che ci rende umani. Il che spiana la strada a considerazioni conclusive alla luce di una duplice premessa di ordine generale.

Va osservato, in primis, che la natura è retta da regole proprie, insuscettibili di valutazione dal profilo morale di natura tipicamente umana.

Trattasi di norme cieche, inconsce, immotivate perché senza scopo che non sia quello della osservanza del principio di sopravvivenza. Così, quando il leone sbrana la gazzella, non compie un atto moralmente riprovevole. Né di semplice sopraffazione. All’opposto, si limita unicamente a seguire un primordiale istinto di sopravvivenza. Da qui la sua sovrana indifferenza rispetto alla preda conquistata.

Secondariamente, va messo in luce il fatto che le leggi degli uomini talora contraddicono quelle di natura. Con il permesso del benevolo lettore, a fini esplicativi, si adduce un esempio. Se un uccellino ancora inesperto del volo cade da quella cattedrale che gli uomini chiamano nido, le leggi di natura impongono che diventi pasto per gli animali del bosco. Le leggi degli uomini invece impongono di raccoglierlo con mano delicata, attenta e premurosa per destinarlo poi alla cura fino a quando, definitivamente risanato, sarà poi restituito al cielo, con battito di ali sicuro.

 

Entrambe queste brevissime considerazioni sono preordinate a dimostrare quanto difficile e complicato è il rapporto dell’uomo con la natura! E quanto diversamente questo rapporto possa essere vissuto dall’uomo! Ma, nel presente, tutto ciò come si configura? Da quando Nietzsche ha preannunciato la “morte di Dio”, nel salotto buono di casa, per parafrasare Heidegger, si è stabilmente installato un fantasma di nome “nichilismo”. Se “Dio è morto”, nulla, infatti, ha più senso, visto che nulla ha più un perché per essere venuto a mancare qualsiasi punto di riferimento, qualunque ancoraggio.

 

Come è stato felicemente scritto, la Macina del Nulla ha ucciso gli antichi dei del sangue. L’uomo che vive nella società della comunicazione universale e che opera nell’immenso mercato mondiale mostra di non guardare più al creato come maestro di vita perché, con la sua technè, si è fatto, a sua volta, creatore di cose provenienti dal nulla, destinate al nulla dopo il loro impiego, dando col che nuovo spessore e sostanza a ciò che ha lasciato scritto Anassimandro “la natura delle cose si inizia dall’indeterminato e la distruzione è un ritorno all’indeterminato”.

L’uomo moderno esercita così un cieco, violento, dominio sulla natura, creando uno sfrenato, dissennato divorzio fra sé e il pardes che gli è stato assegnato in sorte, insensibile ai rischi e agli auspici di una nuova forma di rapporto col mondo atto a recuperare anche tutti gli ammaestramenti copiosamente elargiti dalla natura. Nel disordinato cumulo di istanti che pure si denomina vita, il massone invece non guarda al creato come una prigione cosmica, ma come un luogo previlegiato dove il Creatore ha chiamato la propria creatura ad una unione con la Sua opera. Solennizzando Solstizi e Equinozi, il massone non celebra, dunque, una ricorrenza, ma un insegnamento che gli proviene dalla natura, quanto dire, la sua unione organica col cosmo, che è pensiero sacro e grato pure per tutti gli ammaestramenti che il creato dona a chi sa riflettere e vuole sapere.

Luce e tenebre, che si eguagliano in cielo, perfettamente equilibrati dagli opposti, fonte di perenne controversia, così come il doloroso cammino dal buio più buio alla luce più luce, sono altrettanti, irrinunciabili insegnamenti di vita a chi si sforza di allargare la fessura, lo strappo, la crepa sull’”occulto” disegno che, a chi sa comprendere, diventa fonte di ammaestramento che nessun altro maestro è in grado di impartire.

Il ritorno alla natura non è allora soltanto un consapevole ribellarsi a quel lento, progressivo, inesorabile distacco dell’essere umano dalla natura, ma una necessità irrinunziabile al fine di salvaguardare verità nascoste, altrimenti destinate a rimanere per sempre occulte. Il che riveste una importanza essenzialmente antropologica che arricchisce l’altrimenti depauperata ecologia, visto che l’amore dell’uomo verso il creato non può circoscriversi al solo divieto di violentarlo, ma deve pure ricomprendere tutti gli insegnamenti che la natura è pronta a rivelare a chi li vogli apprendere.

Sia pure con molta dedizione, oltre che con l’amara consapevolezza che molto è destinato a sfuggire al pur più attento e tenace ricercatore. Gli studiosi di ecologia incentrano tutta la loro pure lodevolissima attenzione sulle misure più idonee alla salvaguardia del creato, trascurando, invece, di considerare l’impoverimento umano conseguente alla perdita dell’insegnamento che proviene da una natura violentata.

Quest’ultimo profilo, fino ad oggi in verità troppo negletto e trascurato, a chi scrive, è parso invece meritevole di essere ricordato e, soprattutto, sottolineato. Da qui, queste note che, a motivo della linea argomentativa svolta, crediamo non inutili.

 

 

 

Immagini di Giancarlo Guerreri

 

 

 

 

 

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Articolo pubblicato il 26/06/2021