La «Torino noir» vista e narrata da Milo Julini

L'uccisione della pensionata Lidia Donno e del suo cane volpino (Prima Parte)

Il 1977, l’anno dell’efferata uccisione di Lidia Donno, inizia con la gazzarra nei confronti del segretario della GGIL, Luciano Lama, il 17 febbraio presso l’Università La Sapienza di Roma e termina con la morte del giornalista e vicedirettore de La Stampa, Carlo Casalegno, avvenuta il 29 novembre dopo un agguato delle Brigate Rosse. Il 1977 viene definito come annus horribilis per la nostra nazione: la contestazione sbocca nel terrorismo che spara su chi considera “nemico” mentre la criminalità comune e quella organizzata, in particolare del clan dei catanesi, sono scatenate con un elevato numero di omicidi e di sequestri di persona.

Se questo è il clima politico, la location del crimine è l’attuale quartiere Aurora, in Lungodora Savona al civico 42, nel tratto successivo all’Ex Dispensario antitubercolare, che procede verso il corso Regio Parco.

L’aspetto è molto diverso da quello attuale, contrassegnato da giardini pubblici e moderni palazzi. Al 42 di Lungodora Savona s’allunga un vecchio edificio fatiscente composto da pianterreno e primo piano, un tempo abitato dagli operai del colorificio S.I.L.O. (Società Italiana Lavorazione Ocre), stabilimento lungo e basso collocato lungo la Dora al civico 40 (1).

Nel 1972 il colorificio si è trasferito in altra sede e si parla di demolire l’edificio: la gente del quartiere spera che venga sostituito da un giardino pubblico. Nel vecchio edificio vi sono soltanto due alloggi ancora abitati, uno da Lidia Donno, pensionata di 70 anni, che ci vive da sola.

Lidia è nata nel 1907 a San Donato di Lecce. Ha avuto una vita dura. Dal matrimonio con un compaesano ha avuto un bimbo, morto dopo pochi mesi. Il marito è partito da militare per la Campagna di Russia ed è morto in Siberia. Lidia ha cercato di ricostruirsi una vita con Giuseppe Barbero, operaio suo conterraneo. Nel 1950 sono saliti a Torino dove Giuseppe ha trovato lavoro nel colorificio S.I.L.O., che ha fornito loro il modesto appartamento nello stesso caseggiato. Arriva la pensione, ma Giuseppe Barbero, nel 1975, è stroncato dal cancro. Lidia è di nuovo sola. La ditta nel frattempo si è trasferita. Nella casa decrepita restano lei e un’altra anziana signora, che però abita cinquanta metri oltre. Lidia vive da sola in compagnia di Cirin, un volpino fulvo di quattro anni. A Torino vive una nipote di Lidia, Anna Bruno, di 43 anni, che abita in via Madonna delle Rose 33 e ogni settimana va a trovarla. Lidia non teme la vita in solitudine. Quando la nipote la invita a trasferirsi da lei in via Madonna delle Rose, le risponde: «No, preferisco vivere per conto mio, non dare fastidio a nessuno. Con Cirin sto benissimo».

Lidia si è sempre più isolata e alla festa di San Giuseppe ha rifiutato l’invito a pranzo della parente. È rimasta in contatto con la sorella Evelina, a San Donato di Lecce, alla quale telefona ogni settimana.

Lidia vive modestamente con due pensioni per circa 150 mila lire e possiede un alloggio in via Cardinal Massaia 22, che le rende pochi biglietti da mille. Spiega la sua situazione alla sorella quando le telefona e dice di essere certa che non le accadrà nulla di male: «Non sarò mai presa di mira dai banditi, inoltre con me tengo solo l’indispensabile per la spesa quotidiana».

Nell’imminenza della Pasqua, che ricorre il 10 aprile, Evelina, da San Donato di Lecce telefona per gli auguri a Lidia, venerdì 8 e sabato 9 aprile, ma l’apparecchio squilla a vuoto. Evelina avverte la nipote Anna Bruno e questa, al sabato sera, si reca in Lungodora Savona. Suona invano più volte il campanello poi, allarmata, telefona da un bar alla Polizia che accorre con una squadra di Vigili del Fuoco. Alle 22:30, i pompieri con una scala entrano nell’appartamento al primo piano dopo aver forzato l’imposta di una finestra che dà su un terrazzino. Si trovano di fronte a una visione orribile, descritta da La Stampa del 10 aprile 1977, giorno di Pasqua.

Lidia giace riversa sul pavimento del piccolo ingresso, a pochi passi dalla porta. Indossa un grembiule azzurro e una vestaglietta. Ha voltato le spalle all’assassino, per la confidenza o in un disperato tentativo di fuga. È stata colpita con violenza alla nuca, da un colpo vibrato con un oggetto molto pesante e acuminato, forse una spranga uncinata, un attizzatolo o un portacenere. È caduta in avanti, con la faccia sul pavimento. Vi è sangue dappertutto, persino sulle pareti e anche nelle altre due stanze.

In cucina, accanto al canterano, si trova nella sua cuccia il corpo esanime del volpino, con la testa e le zampe posteriori fracassate. L’assassino ha poi colpito di nuovo Lidia sul capo, con furia selvaggia, e le ha inferto altri fendenti sul collo e sul cranio. Uno scempio: il sangue è schizzato dappertutto, macchiando le pareti, persino l’intonaco scrostato del soffitto.

L’alloggio, di non più di novanta metri quadrati, mostra tutti i suoi anni. L’intonaco dei muri è fessurato in più punti, porte e finestre sono rovinati dall’umidità, alcune saracinesche bloccate dalla ruggine. Eppure, c’è una strana sensazione di pulito nelle stanze coi pavimenti tirati a lucido, i mobili migliori protetti con nailon dalla polvere e dalle zampate del cane. Il lavello è in ordine, la cucina a gas sembra uno specchio, strofinacci e asciugamani sono freschi di bucato.

L’assassino (forse più di uno, si pensa inizialmente) nella sua furia deve essersi imbrattato e ha calpestato il sangue della vittima, lasciando con le scarpe una macabra scia di impronte insanguinate che si notano anche per le scale fino in strada. A quanto pare ha cercato del denaro in cucina e in camera da letto, messe a soqquadro coi cassetti rovesciati. Sono stati frugati persino il frigorifero e il vano del contatore della luce. Poi se n’è andato, chiudendosi la porta alle spalle.

Inizialmente si pensa a più assassini, addirittura a un colpo di lupara che avrebbe sfigurato il volto della donna con la sua rosa di pallettoni.

In un secondo tempo si definiscono i particolari dell’omicidio. Emerge una sequenza di fatti poco coerente e di difficile decifrazione.

Una prima pista viene suggerita dalla sorella Evelina, che a Pasquetta è sollecitamente salita a Torino da San Donato di Lecce: «L’omicida le telefonò alla vigilia del delitto spacciandosi per tassista». Secondo il racconto di Evelina, mercoledì 6 aprile, Lidia è andata a ritirare la pensione nell’Ufficio Postale di via Artisti e, come sua abitudine, è tornata in taxi a casa. Alla sera ha ricevuto una misteriosa telefonata: «Sono sue le chiavi che ho trovato nell’auto, o di suo marito?».

Lidia ha descritto per telefono questo strano episodio alla sorella di San Donato di Lecce. «Pochi minuti dopo essere arrivata a casa in taxi mi ha telefonato un uomo. Ha detto di essere il tassista, e che avevo dimenticato le chiavi nella sua macchina. Ma io non gli avevo dato né il mio nome, né tantomeno il numero di telefono, a parte, poi, che le chiavi le avevo con me. Da oggi in poi starò più attenta ad aprire la porta a sconosciuti».

Ma la pista del tassista killer, che potrebbe aver visto il denaro della pensione nella borsetta di Lidia, trova un ostacolo proprio nelle cautele espresse per telefono alla sorella.  È un mistero come il presunto tassista sia riuscito a farsi aprire. Sprangate le imposte delle finestre con un lucchetto, chiusa dall’interno la porta del terrazzino che dà sulla via, poteva solo suonare il campanello. L’aggressione è avvenuta giovedì, verso le 20:00, come conferma l’autopsia. Con quale stratagemma si è fatto aprire la porta?

E poi, perché ha infierito anche sull’animale?

La spiegazione è una sola: un raptus maniacale, un bisogno di sangue che ha accecato l’assassino fino a spingerlo a colpire il cagnolino e la sua padrona quando già entrambi giacevano a terra.

Una vera rapina appare sempre meno sostenibile, si ipotizza una rapina simulata: le 300 mila lire della pensione, a differenza del solito, non sono state versate nella banca San Paolo di corso San Maurizio, e, a quanto pare, sono state prese dall’assassino.

Fine della prima parte - Continua

Note:

(1) Può essere interessante ricordare che l’azienda S.I.L.O. (Società Italiana Lavorazione Ocre) è nata a Mondovì nel 1936, per la lavorazione di terre naturali da cui ricavare i pigmenti di colore tenue da impiegare per le facciate delle abitazioni cittadine. Si è poi spostata a Torino, in Lungodora Savona all’angolo con corso Regio Parco. Nel corso della Seconda Guerra Mondiale è stata quasi distrutta da bombardamenti, ma è stata ricostruita per essere poi trasferita nel 1972 alla periferia nord di Torino.  Nel 1977, al tempo della nostra storia, dietro all’edificio fatiscente dove è avvenuto l’omicidio, rimaneva la vecchia fabbrica di colori, dove lavoravano ancora una decina di operai. Incorporata nel gruppo inglese Laporte, negli anni ‘90 ha esportato in Francia, Germania e Spagna pigmenti per l’edilizia, le pitture murali, la colorazione di carta e laminati plastici, nonché la pavimentazione del viale di Buckingham Palace. Ha poi assunto il nome di Rockwood, in via Reiss Romoli, 44/12 dove una parte dello stabilimento appare oggi abbandonato.

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Articolo pubblicato il 13/07/2021