Gli omicidi dell'anonimo poeta

Crimini di un secolo fa

Quasi certamente nessuno avrebbe saputo che Stefano Ala era un poeta. La sua arte assurse alle cronache sfondando il velo dell’anonimato non per la qualità dei versi delle liriche trascritte su quaderni celati nei cassetti, ma fu nota a tutti solo quando l’oscuro autore si macchiò di un duplice omicidio.

Era il 1911, e malgrado a Torino la Grande Esposizione Internazionale calamitasse l’attenzione della gente, furono numerosissimi i cittadini che accorsero alle udienze del processo a carico del giovane Stefano, artefice della morte di due persone: vittime della sua follia mossa da motivi passionali. Quei motivi che, come è ben noto, sono da sempre tra le cause principali dell’omicidio.

Così il periodico “Il Momento”, del 10 maggio 1911, riferiva i fatti: “Stefano Ala, il piccolo fabbro di Villar Focchiardo, dall’anima romantica e sognatrice, che meglio dell’incudine e del martello conosceva Balzac, Chateaubriand, Carducci, Stecchetti, Foscolo, Leopardi e Jacopo Ortis, è comparso innanzi ai giudici popolari dove giustizia vuole renda conto dell’efferato delitto compiuto. La sera del 13 novembre ultimo, in un pubblico ballo, a colpi di rivoltella Stefano Ala, in un impeto folle di passione, spegneva due vite. Erano Catterina Viola e Luigi Baritello le sue vittime… Lei aveva diciotto anni, lui venti!

Catterina non voleva essere mia sposa – disse il giovane costituendosi ai carabinieri – non doveva essere d’altri, l’ho uccisa perché l’amavo troppo!”.

Un classico esempio di delitto passionale, un crimine senza tempo che, ancora oggi, è spesso causa dei tanti omicidi paradossalmente scaturiti intorno a quel misterioso sentimento che si chiama amore.

La storia era iniziata alcuni mesi prima, nel paese di Villar Focchiardo, dove Stefano, in un raro momento di riposo dal faticoso lavoro, aveva conosciuto Catterina Viola: la fanciulla che senza saperlo era destinata a sconvolgere l’esistenza di tre persone. Di certo l’amore percepito nelle strade del paese andò via via assumendo quei toni e quelle emozioni che, per il fabbro-letterato, avevano molte similitudini con quelle provate quando si immergeva nelle letture degli amati poeti.

Le sensazioni passavano così dalla pagina alla vita vissuta, unendosi fino a confondersi.

La lettura e la meditazione sui classici, erano la linfa che alimentava la creatività di Stefano poi concretizzatasi sul foglio bianco con versi da dedicare all’amata.

Ma le sue parole più che trasformarsi in presidio dell’amore, divennero voce nel deserto, in particolare quando entrò in scena Luigi Baritello, un contadino del posto, poco avvezzo alla poesia, ma seriamente interessato a sposare la giovane Viola.

Stefano, da parte sua, tentò di riconquistare l’amata con ogni mezzo, soprattutto con la letteratura. Ma i versi ebbero scarso successo e così il giovane comprese di essere tagliato fuori. La disperazione lasciò un po’ alla volta spazio al rancore e al desiderio di vendetta. Quel desiderio cominciò a diventare un progetto di morte che si delineò nitidamente quando Ala acquistò una pistola. Pochi giorni dopo entrò in possesso delle pallottole, che, per ironia della sorte, gli furono vendute proprio dal Baritello, naturalmente del tutto ignaro della sorte che lo attendeva.

In occasione della festa patronale del paese, Ala raggiunse la pista da ballo e appena vide Luigi e Catterina avvolti nella danza, esplose tre colpi e bruciapelo: uno solo in pieno petto al ragazzo e due nella schiena alla ragazza. Furono colpi fatali ed entrambi morirono all’istante.

Nella confusione l’assassino riuscì ad allontanarsi rapidamente: prima si liberò dell’arma e poi raggiunse la stazione dei Reali carabinieri per costituirsi.

Dopo aver confessato il proprio crimine, il giovane fabbro sembrò staccarsi dalla vita e si chiuse in un intimismo rassegnato.

Qualche tempo prima del processo, Ala inviò al giudice un lungo memoriale, nel quale poneva in rilievo la sua versione del fatti. Quel documento, per il suo contenuto e soprattutto per la forma, determinò alcuni dubbi sull’effettiva sanità mentale dell’imputato: infatti si stabilì di rinviare il processo, al fine di consentire ai periti una più approfondita valutazione delle psiche dell’omicida.

Nel corso del processo si venne a sapere che Ala, acquistando le cartucce da Baritello, gli avrebbe detto che sarebbero servite per ucciderlo, il quale evidentemente non gli credette. Un accenno di crudeltà che non era nell’indole dell’imputato, ma quasi certamente determinata dal suo squilibrio.

Poche comunque le parole che giunsero dal fabbro-poeta, mentre invece erano numerose le indicazioni che provenivano dai suoi scritti: moltissime pagine raccolte in un poderoso volume dall’accusa e sottoposto a giudici e giurati. Vi era un quaderno di canzoni, le tante lettere inviate alla fidanzata, poesie e poi fogli sparsi e taccuini sui quali erano annotati versi, spunti, frasi.

L’escussione dei testi non fu d’aiuto all’imputato: infatti furono numerosi coloro che ne elencarono i difetti; il padre della ragazza uccisa disse: “era un giovane che non aveva volontà di far nulla. Suonava la fisarmonica per divertire le ragazze, mentre suo padre sgobbava tutto il giorno”.

Un amico dell’imputato testimoniò che lo stesso giorno in cui fu commesso il crimine, l’Ala gli avrebbe detto: “Stasera ne faccio una!”.

Un altro amico raccontò un inquietante episodio: “Un giorno che Ala tornava a casa vide la Viola che stava lavandosi le mani in un ruscello presso la casa dell’Ala. Vedendo tornare costui dal lavoro io lo avvertì della presenza della Viola e gli dissi: vuoi ammazzarla?

L’Ala mi rispose: Attendi, vado a prendere il fucile.

Ritornò difatti subito colla carabina, ma la Viola non c’era più”.

Tutti i testimoni affermarono che Stefano avrebbe lasciato il lavoro tra luglio e agosto 1910: periodo in cui ebbe inizio il suo disastro interiore, ormai così forte e incontenibile da fargli sciogliere ogni legame con la razionalità e la ragione.

Ipotesi avvallata anche dal sindaco di Villar Focchiardo, Albino Pogliano: “era un ottimo e intelligente operaio, guadagnava lire 1,50 al giorno e lasciò il servizio perché un giorno lo rimproverai avendo per sbadataggine rotto una stufa, e lo invitai a pagarla al proprietario. Ala era sempre cupo e taciturno e di rado lo si sentiva parlare”.

Prammatica la descrizione fornita dal maestro che l’ebbe come alunno alla scuola elementare: “era debole di mente e di fisico e studiava assai poco. Anche il maestro che l’aveva avuto prima di me mi disse che non aveva capito mai nulla di quel ragazzo. Feci un’inchiesta e seppi che nella sua famiglia vi erano dei tubercolotici e dei folli”.

Il medico condotto, dottor Francesco Perodo, sostenne le affermazioni del maestro con il classico linguaggio scientifico dell’epoca: “ebbe due o tre zie tubercolotiche; suo padre è gracile, ha uno zio deficiente e sordomuto, un’altra sua parente è cretina ed infine uno zio è morto tubercolotico”.

Molte amiche e amici di Catterina Viola dissero che la ragazza era molto spaventata per le insistenze e le minacce che giungevano da Ala: in sostanza vi erano tutti i presupposti per prevedere il tragico epilogo della vicenda.

Oggi si chiamerebbe “delitto annunciato”, preceduto da stalking e, malgrado la conoscenza del problema e l’evoluzione sociale e giuridica, fatti del genere continuano ad accadere.

Tra i testimoni vi fu anche un amico di Ala, Francesco Tomassone, il quale imputò il crimine alla troppa lettura: “Molti libri fanno male! Io lo so perché ho studiato!”.

Dopo un’ora di camera di consiglio, la giuria raggiunse il proprio verdetto: colpevole dell’omicidio di Catterina Viola e Luigi Baritello, escludendo “la premeditazione e accordando anziché la semi-infermità la semi-ubriachezza volontaria e le attenuanti”.

La condanna fu di nove anni e nove mesi e sette giorni: una pena ridotta rispetto a quella suggerita dal pubblico ministero, che di anni ne chiese tredici. Stefano Ala ascoltò impietrito la lettura del verdetto, poi disse ai suoi avvocati che avrebbe espiato serenamente la pena, occupando il tempo per studiare e dedicarsi alla poesia.

Non sappiamo che cosa fu del futuro del giovane fabbro-poeta di Villar Focchiardo. Sappiamo che il noto poeta crepuscolare Guido Gozzano (1883-1916) si interessò ai versi di Ala: rileggendoli ne tracciò un quadro cercando di far convivere gli aspetti eminentemente letterari con quelli umani e sociali: “il delitto fu volgarissimo. Non volgare fu invece l’amore del piccolo omicida, ma soffuso d’un idealismo che fa ricordare l’amore dolce stil novo, gli spasmi purissimi dei poeti trecentisti per le donne fatte di sogno e di evanescenza”.

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Articolo pubblicato il 12/07/2021