Perfida Albione

Considerazioni in margine a una partita di calcio

L’Italia batte l’Inghilterra ed è dunque campione d’Europa, “proiettata sul tetto d’Europa” come ha detto un cronista probabilmente cocainizzato. Ne siamo moderatamente felici, soprattutto perché ne sono felici molti italiani appassionati di calcio, e in questi tempi di nera malinconia covidaria quella vittoria ha avuto un qualche  effetto antidepressivo per tanta gente. Anche se una vittoria ai rigori non è mai una vera vittoria.

Alcune cose hanno invece prodotto in alcuni di noi una certa impressione, e in certi momenti anche un po’ di nausea.

La prima è stata la reazione della tifoseria inglese che ha mostrato tutta la sottocultura sportiva di una nazione che da secoli pretende di insegnare al mondo una cosa detta fair play, ma che in questa occasione ha solo esibito un rabbioso infantilismo e una sconfinata volgarità. Dai fischi all’Inno di Mameli -che sarà pure una marcetta rispetto alla solenne bellezza di God save the Queen ma che, in quel momento,  rappresentava comunque il cuore di una nazione-  all’abbandono dello stadio prima della premiazione dei  vincitori, gli inglesi hanno dimostrato solo una spocchiosa incapacità di perdere.

Detto questo dei barbari britanni, però, anche l’Italia è affondata nel cattivo gusto di una tifoseria che ha pensato di aver conquistato il mondo, dimenticando che la nazione avversaria l’ha fatto realmente negli ultimi quattro secoli, ed è sprofondata in una auto-esaltazione che aveva del patetico. Passi l’euforia sportiva, assolutamente lecita e sicuramente trascinante, ma credere che una vittoria calcistica, per giunta, come detto, ai rigori, sia una resurrezione nazionale e una risalita dell’Italia sulle vette della storia appare piuttosto risibile.

Comprendiamo che l’Italia avesse bisogno di un po’ di allegria dopo le recenti tristezze, ma vedere in quella vittoria un riscatto collettivo, un nuovo corso della nostra storia, una nuova era per il nostro popolo è stato, al contrario, abbastanza deprimente.

L’Italia, da sempre, soffre di un radicato complesso di inferiorità nazionale. Abbiamo una cultura impareggiabile, il più grande patrimonio artistico del mondo, paesaggi di rara bellezza, manufatti di prim’ordine, una vita materiale ammirata da tutti, almeno fino a qualche tempo fa, ma non siamo mai riusciti a contrastare del tutto il sentimento che la nostra sia una nazione sostanzialmente incapace di affermare una sua personalità politica nella comunità internazionale.

Lo stesso Mario Draghi, in fondo, incarna perfettamente il “papa straniero” (straniero per formazione ed esperienza) invocato da molti e in grado di imporre quel “vincolo esterno” che dovrebbe salvare la nazione dalla sua incapacità di amministrarsi, affidandola alle rigide cure di un’Europa nordica e testardamente protestante. Un’idea anti-italiana e sovra-nazionale che già Dante, sette secoli fa, proponeva al suo mondo riottoso e  tumultuoso.

L’esaltazione della tifoseria italiana rappresenta bene questo sentimento latente, subliminale, che ci portiamo dietro da sempre e che una partita di calcio vinta può esorcizzare, nonostante significhi quasi nulla sul piano concreto: l’Italia resta e resterà una nazione fondamentalmente incapace di essere nazione. Uniti su un campo di calcio, divisi su tutto il resto.

E su tutto questo si innesta la congenita antipatia popolare verso un’Inghilterra che, padrona del mondo fino a qualche decennio fa, oggi torna ad essere la “perfida Albione” della propaganda mussoliniana, una grande nazione che ha sempre guardato a noi con un certo aristocratico disprezzo non del tutto ingiustificato, soprattutto -a quell’epoca- sotto il profilo militare: l’Italia va alla guerra come a una partita di calcio -disse Churchill- e va a una partita di calcio come alla guerra. Una considerazione probabilmente vera ma che in questi giorni è meglio non riproporre.

Vincere gli inglesi su un campo di calcio è comunque una piccola, narcisistica, soddisfazione visto che non siamo riusciti a vincerli sui campi di battaglia e su quelli della politica internazionale. Per tacere della Brexit.  Vuoi mettere la soddisfazione di sconfiggere, anche se in extremis, il paese che ha avuto l’epocale coraggio di abbandonare quell’Europa che invece comanda ancora, e sempre di più, in casa nostra? Per qualche esaltato, che abbiamo distintamente sentito, la sconfitta sul campo calcistico è una nemesi per quella sconsiderata scelta britannica, che nella realtà, invece, ha veramente rifatto la storia continentale.

Ma accanto a queste stramberie popolari, perdonabili e talvolta perfino simpatiche, si è però dispiegata la follia mediatica: una valanga di commenti senza capo né coda, imbarazzanti nella loro banalità e stupidità nazionaliste. Televisioni, radio, giornali, social hanno ripreso tutto il folclore appena descritto e l’hanno trasformato in una insopportabile sceneggiatura auto-esaltante,  piena di strafalcioni logici, storici, politici, sostanzialmente populista e sovranista (ma non erano atteggiamenti orribili?).

Ci chiediamo se ciò che, come detto, è perdonabile nell’esaltazione popolare lo sia anche nella narrazione mediatica, che dovrebbe invece essere, almeno apparentemente, sobria e lucida pur con qualche legittima pennellata di orgoglio nazionale. Cosa che invece non è stata, sia nei toni esaltati sia nei contenuti senza senso, evidentemente confezionati sul momento da giornalisti sudati e febbricitanti.

E anche qui qualcuno ha voluto vedere, forse non a torto, una manina politica che ha colto l’occasione per propagandare un rinascimento italiano che non c’è ma che -saltando ogni connessione logica e fattuale- si è voluto in qualche modo collegare con una semplice vittoria sportiva.

I politici hanno talvolta l’occasione di tacere ma non la colgono quasi mai, non sanno resistere alla loro congenita frenesia di collegare ogni evento con sé stessi per esaltarsi, amplificarsi, sovrapporre la loro immagine a ogni fatto. Perfino Mattarella non ha resistito a una passeggiata londinese con volo di stato, e questo non ha certo contribuito a offrirci una certa immagine pubblica di sobrietà.

E tacciamo sulle misure anticovidarie, per non appesantire la predica. Con quale coraggio da oggi Speranza, Figliuolo, i precauzionisti, i chiusuristi, i televirologi e tutto il caravanserraglio vaccinista verranno a parlarci di distanziamento, prudenza, regole dopo quello che abbiamo visto nelle nostre piazze?

 

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Articolo pubblicato il 14/07/2021