Golpe in Tunisia: quali conseguenze per l'Italia?

Il Presidente tunisino fa fuori il Premier e il Parlamento. Quali cambiamenti politici fra Tunisi e Roma?

Tunisia: Celebrata come culla delle ‘primavere arabe’, il paese è oggi abbandonato a se stesso.

Disastro economico, caos politico, disperazione giovanile e ombre jihadiste formano un groviglio inquietante. La nazione punica è a un passo dal default economico, politico e sociale. Il destino del “paese dei gelsomini” sarà più chiaro nei prossimi trenta giorni.

Resta infatti un mese di tempo per evitare la guerra civile e l’insolvenza del debito pubblico.

 

Nella tarda serata di una Festa della Repubblica (25 luglio) segnata dagli scontri di piazza, il Presidente Saied, dopo aver convocato i vertici delle Forze armate e dei servizi di sicurezza al palazzo presidenziale di Cartagine, ha attivato le prerogative per l’articolo 80 della Costituzione tunisina. Con l’applicazione dello stesso, Saied assume di fatto tutti e tre i poteri dello Stato.

 

Siamo molto lontani dal tempo in cui la lungimirante politica estera di Craxi ci permetteva di decidere quale presidente tunisino far eleggere per garantire la pace e la stabilità dell’area. La perenne impotenza degli ultimi esecutivi ha via via ridimensionato il ruolo dell’Italia verso il suo “estero vicino”, in particolar modo sulla sua quarta e quinta sponda del Mediterraneo.

 

L’attuale golpe, fatto in queste ultime ore, ci riguarda da vicino. Ciò che è accaduto nella notte di domenica parla chiaro: Il presidente tunisino Saied licenzia il governo, assume pieni poteri e impone il coprifuoco.

 

Il Parlamento chiuso per un mese, il primo ministro Hichem Mechichi esautorato, i deputati spogliati dell’immunità, il capo dello stato che diventa anche procuratore generale della Repubblica e acquisisce il potere di arrestare i parlamentari. I ministri della difesa e della giustizia sono stati rimossi.

 

Il potere ora è accentrato nelle mani del presidente Kais Saied, 63 anni, un laico conservatore esperto di diritto costituzionale che in passato ha teorizzato la reintroduzione della pena di morte e l’esclusione degli omosessuali dalla vita sociale del Paese.

 

Mezzi militari e poliziotti hanno circondato il Parlamento, la sede della tv statale e i principali edifici del governo.

 

Gli estremisti islamici, supportati dalla Fratellanza Musulmana, parlano di Colpo di Stato.

 

Ma il Presidente Saied controbatte: “Ho deciso di assumere il potere esecutivo con l’aiuto di un capo di governo che nominerò io stesso – afferma alla tv di Stato – Secondo la Costituzione, ho adottato le decisioni richieste dalla situazione per salvare Tunisi, lo Stato e il popolo tunisino. Chi parla di colpo di Stato dovrebbe leggere la Costituzione o tornare al primo anno di scuola elementare, io sono stato paziente e ho sofferto con il popolo tunisino”.

 

Saied avrebbe fatto chiudere anche la sede locale di al-Jazeera, storicamente vicina alla Fratellanza Musulmana, che a sua volta è legata anche al partito islamista “Ennahda”, il quale, in queste ore si sta opponendo alle mosse del capo dello Stato. Una decisione che può essere interpretata come un tentativo da parte di Saied di contrastare gli estremisti islamici che rendono ingovernabile il Paese dai tempi dalle cosiddette “primavere arabe”; fortemente volute dai Lib Dem americani e francesi in chiave anti-italiana.

 

La miccia che ha fatto esplodere la «bomba» sociale è la disastrosa gestione della pandemia. La sanità in frantumi ha permesso al virus di provocare il più alto numero di vittime al mondo in rapporto alla popolazione.

Il caos in Tunisia, alle porte di casa nostra, dimostra una volta in più il fallimento della primavera araba di dieci anni fa. E la totale incapacità dei movimenti che l'hanno cavalcata di gestire la democrazia e il proprio paese.

 

La conseguenza più immediata per l'Italia potrebbe essere l'aumento del flusso migratorio. Scrive infatti il reporter Bisoslavo: “Se la Tunisia esplodesse del tutto in una «seconda rivoluzione» invocata dalla piazza e ancora peggio in una guerra civile o una nuova dittatura, l'impatto lo sentiremo subito a Lampedusa con un'impennata di arrivi via mare.

 

I tunisini sono già la prima nazionalità degli sbarchi a quota 5.805 (quasi la totalità negli ultimi giorni). Secondo le stime dell'intelligence potrebbero arrivarne 15mila entro la fine dell'anno. Numeri elaborati prima della crisi scoppiata in occasione della festa della Repubblica, la più grave della giovane e incerta democrazia tunisina.”

 

La Tunisia è sempre stata cerniera fisica e geopolitica tra le due sponde del Mediterraneo. Oggi non riesce più a fungere da snodo tra Algeria, Marocco, Egitto e Libia. Quest’ultima è cresciuta sopratutto grazie alla forza lavoro tunisina. Purtroppo però questa “catena virtuosa” è stata spezzata dall’instabilità oltreconfine, la fine di Gheddafi ha influenzato negativamente anche i vicini di Tunisi.

La Tunisia si reggeva anche sull’indotto turistico, ma l’epidemia ha cancellato oltre due milioni di posti di lavoro.

 

In dieci anni dalla «rivoluzione dei gelsomini», che ribaltò il regime del socialista filo-italiano Ben Alì, il paese ha avuto dieci governi incapaci di fermare il crollo dell'economia, la svalutazione del dinaro e la crisi sociale.

 

L’attuale caos è frutto anche della frammentazione politica: i governi succedutisi senza sosta dal 2011 hanno sempre contato sul sostegno di Ennahda, il partito islamista ed estremista guidato dall’anziano Rasid Gannusi.

 

Per cosa abbiamo cacciato Ben Ali? È la domanda che oggi si pone gran parte dei tunisini, a dieci anni dalla caduta del dittatore. Nel giro di mezza generazione la piazza tunisina è passata dal «paradise now!» al «no future».

 

Le rivoluzioni solitamente si fanno per migliorare la condizione di una società, di una nazione. Ma un decennio dopo la protesta dei gelsomini, le richieste della piazza restano inevase. I giovani sono alla deriva. Per colpa della politica, la legittima aspirazione alla libertà è rimasta lettera morta.

 

Mentre il presidente Saied conta sulla Francia, gli islamisti di Ennahda puntano sulla Turchia. L’Italia in tutto questo non può restare ferma a guardare. È tempo che Roma torni ad intervenire “su Cartagine”.

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Articolo pubblicato il 28/07/2021