Il Governo sta per varare un’arma spuntata contro la delocalizzazione.
Mons. Cesare Nosiglia

Cercano di punire le imprese che se ne vanno, senza curarsi di attirare quelle che potrebbero arrivare

Eleviamo lo sguardo oltre alle imposizioni anti Covid che tra 10 giorni limiteranno ancor più la nostra libertà e lasciamoci per strada le mille diatribe tra i partiti, sui profughi buoni e i migranti cattivi, che la crisi Afgana sta alimentando.

 

Occupiamoci di Politica industriale, considerando le impostazioni bislacche  che, almeno a livello locale le regioni hanno imboccato nel caso di chiusura o delocalizzazioni di aziende, in perfetta continuità tra l’assistenzialismo peloso del centrosinistra e quello fotocopia e miope adottato dal centrodestra.

 

Il riferimento al Piemonte, nell’approccio della paventata chiusura dell’Embraco e alla Campania a proposito della Whirpool,  non sono prive di riferimento.

 

Ora, al fine di cercare (inutilmente) di porre rimedio a tali fenomeni, corre voce che il Governo stia studiando nuovi strumenti normativi contro le delocalizzazioni. La norma, di cui si stanno occupando la sottosegretaria allo Sviluppo economico Alessandra Todde e il ministro del Lavoro Andrea Orlando, sarebbe finalizzata a imporre sanzioni alle imprese che trasferiscono all’estero gli stabilimenti produttivi (specie se nel passato hanno beneficiato di sussidi) e prevedere in ogni caso l’obbligo di attivarsi per garantire la continuità produttiva dei siti, anche cercando nuovi compratori.

 

Di fatto, si tratta di rafforzare quanto previsto dal Decreto Dignità, che sembra non aver garantito le conseguenze sperate (anche perché, inevitabilmente, si riferisce alle sole delocalizzazioni verso Stati non appartenenti all’Unione europea). L’errore di partenza è quello di illudersi di ingabbiare l’economia e le dinamiche aziendali, attraverso disposizioni di legge.

 

Nel merito, c’è inoltre un’ottima ragione per cui il provvedimento del 2018 non ha funzionato, ed è la stessa per cui anche l’eventuale nuovo intervento deluderà i suoi sostenitori. Nessuna azienda prende a cuor leggero la decisione di chiudere uno stabilimento. Lo fa quando non ci sono più le condizioni per generare un utile o, almeno, per evitare una perdita. Quando arrivano a quel punto, tipicamente le imprese hanno già esplorato ogni strada per valorizzare il sito, rendendolo più produttivo, cambiando processi o prodotti, e al limite cercando qualcuno che se ne faccia carico. Chiudere implica costi economici e reputazionali: chi lo fa, vi è costretto.

 

Altro aspetto saliente riguarda la soffocante legislazione su insediamenti produttivi, modifica di disposizioni urbanistiche, sordità e lentezza di Stato regioni e comuni, nei confronti di peculiari necessità aziendali.

 

È vero che, spesso, gli stabilimenti oggetto di chiusura hanno nel passato beneficiato di sussidi pubblici e talvolta già  oggetto di trasferimento di proprietà, come l’azienda del torinese. Ma questo non dovrebbe indurre a immaginare sanzioni retroattive e illogiche. Al limite, si può prevedere (come già avviene regolarmente, per la verità) che i bandi per gli aiuti prevedano ex ante degli obblighi produttivi o di mantenimento occupazionale, con verifiche periodiche e adeguate sanzioni per chi non li rispetta. Ma non è questo il punto. Il punto è un altro, e ha due dimensioni: entrambe interrogano la politica, non le imprese.

 

La prima dimensione riguarda le politiche di aiuto: se i sussidi non generano effetti duraturi, ma solo temporanei, e l’occupazione creata grazie a essi scompare non appena la cassa finisce, allora forse il problema non è la cattiveria delle imprese, ma il disegno dei sussidi stessi, clientelari e pasticciati, per soddisfare la demagogia delle organizzazioni sindacali e prendere in giro i lavoratori. Insomma, si tratta di misure che producono non solo sperpero di denaro pubblico, ma anche cattiva allocazione del capitale che, alla lunga, danneggia la competitività dell’intera economia (oltre a generare pericolose illusioni nei beneficiari diretti e indiretti).

 

La seconda dimensione è più ampia: un paese che discute di come contrastare le delocalizzazioni, ma non è capace di affrontare il tema a monte – cioè attirare imprese – è un paese privo di futuro. Se le imprese scappano, c’è un perché: ed è quel “perché” che andrebbe rimosso. Aggredire i sintomi non è mai una buona alternativa a curare le cause, specie quando alimenta l’idea che non serva altro. Ma per porsi questi obiettivi e renderli operativi i soggetti regionali e nazionali preposti dovrebbero conoscere i mercati ed essere in grado di apparire interlocutori credibili a livello internazionale.

 

Le delocalizzazioni sono frutto della fisiologica attività di entry/exit delle imprese in ogni paese. La politica italiana è tutta focalizzata sull’exit e ignora l’entry. Anzi, non si rende conto che ipotizzare sanzioni e ostacolare la libertà delle imprese finisce inevitabilmente per scoraggiare nuovi investimenti.

 

 Ministri ed assessori regionali, se ne rendono conto? In cosa consiste l’analisi oggettiva e circostanziata che dovrebbe precedere ogni intervento pubblico?

Nella quotidianità, si va dalla demagogica ricerca del consenso, alla bramosia di apparire efficaci al momento. Delle conseguenze delle improvvisazioni e della superficialità, nessuno ci pensa, in quando il bubbone scatterà, con il tempo,  nelle mani di un altro assessore regionale o ministro che sia.

 

 Del denaro pubblico sperperato e del destino di lavoratori che si troveranno sul lastrico, non importa a nessuno e in ogni caso scatteranno i soliti meccanismi assistenziali e difensivi e la vergogna senza apparenti svergognati, proseguirà, anche se i politicanti tapini abbaieranno alla luna.

 

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Articolo pubblicato il 20/08/2021