La chiesa dei Santi Pietro e Colombano, a Pagno (Cuneo)

Di Ezio Marinoni

Il monastero di Pagno, fondato secondo il “Chronicon Novalicense” per volontà del Re longobardo Astolfo (749-756) da monaci provenienti dal monastero di San Colombano in Bobbio, nel Piacentino, è stato a lungo la più florida abbazia del territorio saluzzese. Sulla morte di Astolfo persistono due versioni o leggende: sarebbe morto durante una battuta di caccia, cadendo da cavallo, oppure colpito da un fulmine; è sepolto nella chiesa di San Marino a Pavia.

Ai monaci colombaniani si fa risalire il culto del Santo, il titolo della chiesa e avervi portato le reliquie del Santo (a tal proposito, la chiesa possiede un antico reliquiario di legno dorato in stile settecentesco, a forma di braccio, con la mano chiusa e l'indice teso; dentro il reliquiario si conserva una teca con la reliquia “ex cranio S. Columbani”). 

Agli stessi monaci è attribuito il merito di aver dato impulso alla agricoltura locale e avere introdotto la coltivazione della vite. L’Ordine creato da San Colombano era dedito allo studio e alla contemplazione, non lavorava la terra come facevano invece i benedettini; da qui l’esigenza di ricevere offerte dai contadini e dalla popolazione, che essi ricambiavano con la loro presenza e assistenza nella dura vita della popolazione.

In sagrestia è presente una vecchia pala d'altare, che rappresenta la Madonna con ai piedi i santi Colombano e Antonio, in cui il Santo Patrono veste l'abito benedettino ed è senza barba.

La storia del culto di San Colombano a Pagno è di grande interesse perché ci riporta indietro nel tempo e riguarda proprio la sua fondazione.

Ancora nel “Chronicon Novalicense” è riportata l’elargizione fatta dall'imperatore Lotario all'abbazia di Novalesa e al monastero di Pagno, “ricchissima e reale fondazione del re longobardo Astolfo”.

L’insediamento monastico voluto dai Longobardi non nasce su un terreno “deserto”: secondo la tesi di diversi storici si innesta su una precedente comunità cristiana che già disponeva di una propria chiesa e di un cimitero.

Nell'825 l’Imperatore Lotario decide la sua “unione per incorporazione” con il monastero della Novalesa, quindi di San Pietro di Breme in Lomellina, dal quale dipendeva anche San Pietro di Savigliano. Al momento dell’unione come semplice “cella” Pagno contava centinaia di monaci e le rendite derivanti dalle sue estese proprietà rappresentavano un valido aiuto per il mantenimento dell’Ospizio del Moncenisio.

Saccheggiata e devastata dai Saraceni nelle incursioni del 906, ha avuto in seguito fasi importanti e complesse di riedificazione.

La prima ricostruzione avviene tra il 1026, anno in cui è menzionata soltanto una «cellam» ad opera di Adelaide Contessa di Susa (figlia di Re Arduino), e il 1151, anno in cui è chiamata «ecclesiam Sancti Petri in Pagno»: le pitture dell’arco trionfale possono essere datate entro i primi decenni del XII secolo.

La chiesa romanica poteva essere orgogliosa della ricchezza dell’arredo interno; nella zona presbiterale era affrescata e pavimentata a mosaico; purtroppo, tutte le altre pitture sono andate perdute nel XVIII secolo, quando vengono abbattute le absidi per costruire la nuova facciata (frammenti pittorici sono riemersi, nel 1975/6, dagli scavi sul sagrato) e del mosaico, visto ancora a metà del Seicento da Monsignor Agostino Della Chiesa, Vescovo di Saluzzo, non vi è più traccia.

La sua decadenza era iniziata nel 1492, quando Pagno firma il vassallaggio ai vicini e potenti Marchesi di Saluzzo.

L’ultimo Priore (Gabriele, Marchese di Saluzzo) presente risale al periodo fra il 1540 e il 1545.

Nel 1560 la chiesa risulta scoperchiata dal tetto e gli arredi vengono in gran parte rubati e dispersi (il Vescovo ordina al Priore, non più stanziale, di preporvi due sacerdoti e commina una multa di 500 lire). La chiesa viene di nuovo ricoperta da un tetto, si abbassa il pavimento e si creano le cappelle laterali.

Dal 1764 diventa sede della parrocchia di Pagno.

Il risultato di queste vicissitudini è una chiesa molto “vissuta”, che ci offre uno spaccato di storia dai primi secoli dell’era cristiana ai giorni nostri.

Della antica fondazione monastica benedettina rimangono testimonianze di un certo rilievo, ma gravemente compromesse e di difficile lettura.

Iniziamo la visita della chiesa abbaziale, che subisce una pesante trasformazione con l’inversione di posizione della facciata. Quella attuale a salienti, nel complesso disadorna e appena ingentilita al centro da un portale rinascimentale-barocco sormontato da una grande finestra spartita da due colonnine, viene eretta nel XVIII secolo con l’abbattimento della parte absidale.

L'ultimo restauro ha messo in luce sull'attuale sagrato i resti del basamento dell'antico presbiterio e la traccia muraria delle tre absidi che segnalavano altrettante navate.

I resti della facciata romanica sono, quindi, sul retro attuale, dentro il cimitero.

Suddivisa da alte lesene in tre porzioni corrispondenti alle tre navate originarie in cui si articolava l’interno, era ingentilita nella parte superiore da tre finestre ad arco, che sembrano poggiare su una fila di archetti pensili.

Chiuso il grande portale centrale che era inserito in una cuspide gotica a ghimberga, vengono aperte due anonime finestre rettangolari ed un oculo ovale per dare luce all’interno e viene murato il rosone.

Su quella che era l’antica facciata si intravedono i resti di un grande dipinto dedicato a San Cristoforo, secondo i canoni diffusi in area cuneese e riscontrabili anche sulle facciate della chiesa parrocchiale di Rossana e di San Giovanni in Saluzzo.

Tracce della primitiva costruzione si riscontrano anche lungo i muri laterali della chiesa: archetti pensili e tratti di muratura a spina di pesce. A sinistra del portale d'ingresso una lastra murata con decorazioni a intreccio di vimini, per analogia con pezzi simili, conferma l’origine longobarda dell’edificio.

Un massiccio campanile sovrasta la chiesa, attaccato alla parte destra della facciata. L’ultimo piano del campanile è caratterizzato da bifore abbinate, senza colonna centrale; potrebbe risalire, almeno nelle linee principali, al secolo XI, poi rimaneggiato nel XIII.

All’esterno della chiesa colpisce un piccolo affresco sulla navata destra, raffigurante una Crocifissione, non datato e ancora di gusto medievale.

Come già detto, in antico l’interno della chiesa era suddiviso in tre navate.

La scansione architettonica originale è andata completamente perduta: le due navate laterali sono state chiuse per ricavare cappelle nelle quali si leggono residue tracce di affreschi di età romanica e gotica. Tra questi ultimi emerge il bellissimo Arcangelo Michele, opera di Hans Clemer, il pittore di corte del Marchesato di Saluzzo a fine Quattrocento, che del Maestro di Elva, come a lungo fu chiamato, “sviluppa gli aspetti di decorativa gentilezza: il tracciato fitto e morbido che registra i dettagli con un’attenzione specialmente rivolta al viso soave ma determinato. La figura è esaltata dalla stesura trasparente e luminosa del colore” (Massimiliano Caldera, Percorsi figurativi nel marchesato tra Quattro e Cinquecento).

L’iconografia dell’angelo, rivestito di armatura dorata, “guerriero” di Dio in perenne lotta contro il demonio autore del male, garante del passaggio delle anime nell’aldilà, è rappresentato nell’atto di pesare le anime che devono accedere alla vita eterna.

Il dipinto si colloca come un esplicito richiamo alla devozione per l’Arcangelo Michele dei Longobardi fondatori dell’abbazia.

All’inizio del XII secolo vanno riferiti l’angelo e la greca dell’arco trionfale (oggi nel sottotetto), caratterizzati da un tratto rapido ed impetuoso e da una vivace coloritura.

Nella prima cappella destra San Biagio è dipinto con bastone e cappello vescovile.

Nella seconda cappella destra si conserva una lastra tombale con la figura giacente di un Priore del monastero, Antonio Pettenati da Verzuolo, morto nel 1469. Alla parete un ingenuo e anonimo affresco, all’interno di una Crocifissione di Cristo riporta una bella scena di vita: il particolare di un contadino che porta i suoi sacchi ad un mulino a vento, che qui non esistevano. È una suggestione dovuta ancora ad Hans Clemer e ai suoi racconti sulle zone della Francia dove aveva vissuto e operato?

In un'altra cappella si trovano frammenti di una lapide marmorea longobarda. La fondazione longobarda può trovare conferma anche in questa lapide, posta nella chiesa a ricordo di una regina longobarda e di sua figlia, che donarono i loro beni al monastero. Alcuni storici ritengono sia la Regina Giselburga, moglie del fondatore Astolfo, rimasta vedova alla sua morte nel 756; per altri si tratterebbe della Regina Ansa, vedova di Desiderio; e di sua figlia Beatrice, sposa (o promessa tale) ad un nobile di nome Albino o Alboino.

Particolarmente suggestiva è la piccola cripta ad oratorio, di spoglia e campestre semplicità, compatta e leggiadra nella sua struttura architettonica caratterizzata da colonne in pietra appena squadrata, molto simili a quelle della cripta di Borgo San Dalmazzo, l'antico monastero benedettino di Pedona. Durante i lavori per l'inversione della facciata è stata coperta e oggi ne è visibile solo una piccola porzione.

Pagno, a soli sei chilometri da Saluzzo, è il centro geografico della piccola e verdeggiante Valle Bronda, inserita nella Comunità Montana Valle Po.

Nell’epoca delle lotte feudali per le investiture arrivano in Valle i nobili Della Braida, provenienti da Alba, costruiscono il castello di Brondello, di cui oggi rimane una torre che svetta dall’alto, insieme ad alcuni tratti di mura perimetrali.

La Valle Bronda conta altri due castelli: Morra e Castellar; quest’ultimo è un vero scrigno di reperti e testimone di un’epoca. Domina dalla collina il paese, è una solida costruzione sovrastata da una torre slanciata e coronata da una merlatura ghibellina: finestre bifore e ponte levatoio completano la nobile dimora feudale. Durante le aperture sono visitabili i sotterranei ed il giardino, da cui si può ammirare un vasto panorama sulle colline della Valle Bronda.

La cappella di San Ponzo è un altro luogo da visitare, costruita su una donazione dei feudatari Della Braida e rimasta intatta nel tempo.

Le mele sono il prodotto principale del territorio, contraddistinte dall’acronimo “PAT” (Prodotto Agroalimentare Tradizionale), oltre al ramassin della Valle Bronda, di lontane origini siriache (che è un presidio Slow Food).

In conclusione, la Val Bronda e i suoi tesori valgono la pena di essere visitati!

@Ezio Marinoni

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Articolo pubblicato il 27/08/2021