Quando fummo tutti Americani

Il Ventennale dell'11 settembre (di Alessandro Mella)

Sono passati vent’anni; eppure, il tempo sembra essersi fermato. Per i giovani nati allora, o poco dopo, la differenza non c’è o non è percettibile. Per noi che in qualche modo assistevamo attoniti ed impotenti, invece, il cambiamento fu traumatico. Il fatto stesso di trovarci di fronte ad un evento che avrebbe mutato per sempre la storia dell’umanità traspare nella domanda che ancora oggi ci si scambia. E cioè dove si era, cosa si stava facendo, quel giorno.

Vedendo le dirette dei telegiornali, le immagini, tutti in qualche modo capimmo che niente sarebbe stato più come prima. Ricordo ancora la voce concitata di Emilio Fede o Claudio Brachino nei telegiornali.

Gli Stati Uniti d’America, il guardiano del mondo, il gigante planetario, per la prima volta feriti in modo drammatico, vile e infame, in una modalità migliaia di volte più sconvolgente dell’ormai lontano ricordo di Pearl Harbor. A quel tempo l’attacco giapponese aveva sconvolto la nazione ma era stata un’azione militare condotta, comunque anche se a tradimento, a viso aperto per colpire un’installazione ed obbiettivi militari. I giapponesi non gettarono la loro inaudita violenza, forse solo perché non ne ebbero modo, sulle grandi metropoli americane. Sugli uffici, i posti di lavoro, le case, le chiese, la gente comune.

Lo shock che investì tutta l’America quell’11 settembre non trova paragoni nella storia e se non giustifica i molti errori compiuti negli anni successivi, permette quantomeno di comprenderne la genesi e l’origine.

A quell’attacco condotto con inaudite ferocia e vigliaccheria, seguirono le inevitabili reazioni. Un ventennio di guerre condotte in ogni angolo del mondo. Speculazioni, errori, squilibri geopolitici, una lenta ma devastante degradazione dei rapporti internazionali ed anche della politica interna agli Stati Uniti.

Dopo la parabola contestatissima di Bush Jr. l’America non fu più in grado di darsi presidenti di reale spessore. Molte illusioni ci facemmo in tanti sulla leadership di Obama che ebbe il merito di sollevate temi importanti ma la cui presidenza non segnò affatto le auspicate svolte.

Il duello tra Hillary Clinton e Donald Trump fu l’apice della decadenza politica americana con due candidati diversamente preoccupanti.

La presidenza del candidato repubblicano fu costellata di divisioni e tensioni senza precedenti. Oggi quella del suo successore democratico Biden, a sua volta foriero di grandi aspettative, si sta rivelando fragile, debole e claudicante dopo i fatti dell’Afghanistan ove la gestione del ritiro delle truppe USA si è rivelata quantomeno fallimentare al punto da lasciarsi dietro arsenali e magazzini da lasciar saccheggiare ai Taliban. Per non parlare, poi, delle innumerevoli vittime civili e delle scene strazianti dell’aeroporto di Kabul.

La lotta al terrorismo internazionale fu senz’altro necessaria, comunque, al netto degli errori infiniti che si sono commessi nel nome di quell’opera che avrebbe dovuto garantire la sicurezza dei popoli ma, condotta grossolanamente, ha portato il mondo ad una condizione di maggiore instabilità spianando la strada all’avvenire di potenze tutt’altro che democratiche e rendendo, vent’anni dopo, gli Stati Uniti ancora meno incisivi nelle scelte planetarie.

L’11 settembre, con il suo dramma, la morte in diretta, il fuoco e le esplosioni, i beceri complottismi, la polvere e le macerie, l’orrore e l’angoscia, il pianto ed il dolore, fu uno spartiacque drammatico nella Storia dell’umanità.

E come tutti gli “eventi di rottura”, sempre drammatici nelle loro modalità, anche questo scatenò mutamenti ventennali ancora parzialmente in corso ed evoluzione in un mondo lontano da una pacificazione duratura e forse, purtroppo, grandemente utopica ed irrealizzabile.

Al netto di tutte queste considerazioni, legittimamente condivisibili o meno, restano le emozioni che provammo a quel tempo. Il malessere che il ricordo procura ancora in molti di noi e quel senso di vicinanza che, al netto di ogni polemica, non può venire meno o spegnersi con il tempo.

Quel giorno fummo tutti americani nel cuore e nell’anima. Perché in quella mattina statunitense, in quel pomeriggio europeo, tutto l’Occidente fu colpito. Il suo modello, non privo di lati oscuri ovviamente come tutti, con le sue libertà, la sua vocazione alla tolleranza e tanti altri aspetti che compensano i suoi difetti. Un modello imperfetto ma per ora il migliore o forse semplicemente il “meno peggio”. Quel giorno la ferita procurataci ha aperto una cicatrice inguaribile in tutti noi.

E siamo cambiati con il mondo che ci circondava. Chi ha un ricordo vivo e pulsante di quegli eventi non può non riconoscere di non essere più stata, in qualche modo, la stessa persona. Anche oggi alla vigilia dell’11 settembre 2021. Vent’anni dopo, più maturi, più stanchi, ma con gli occhi lucidi, in questa data, come allora. We will never forget.

Alessandro Mella

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Articolo pubblicato il 11/09/2021