L’Afghanistan a terra, l’Occidente in fuga.

Il perché di una sconfitta annunciata.

A vent'anni dall'intervento militare che ha deposto il governo talebano in Afghanistan, il presidente Joe Biden ha ordinato il ritiro delle ultime truppe statunitensi rimaste nel Paese, seguite da quelle dei suoi alleati Nato. Ma senza quel sostegno, l'esercito afghano è crollato in poche settimane e ora la comunità internazionale deve ricalibrare il suo rapporto con i talebani, tornati al potere.

 

Si ripetono le dolorose lezioni del Vietnam su quanto sia difficile sconfiggere un nemico che gioca in casa propria.

 

Le immagini sono così simili che fanno paura. Gli afghani che oggi corrono lungo la pista dell'aeroporto di Kabul sono i vietnamiti che nel '75 hanno scavalcato la recinzione dell'ambasciata Usa a Saigon, capitale del Vietnam del Sud, per cercare di salire su un elicottero. Vedi lo stesso terrore, la stessa disperazione e anche il segno del tradimento. I soldati americani che oggi sparano in aria per disperderli assomigliano molto a quelli che 46 anni fa spararono fumogeni e bloccarono le scale.

 

Le foto della caduta di Saigon hanno perseguitato gli Stati Uniti per quasi mezzo secolo, perché hanno ricordato agli USA tutte le promesse non mantenute che aveva fatto e gli immensi quanto inutili sacrifici. L'Afghanistan ha rinnovato questo repertorio fotografico e anche la cattiva coscienza. Dei leader di quell'alleato abbandonato, il Vietnam del Sud, molte delle cose che oggi vengono giustamente raccontate sui partner afghani sono state già dette nel 1975: corrotti, inetti, sfruttati... Ma ciò non cambia la situazione di altri milioni di uomini che confidavano negli americani, o per lo meno nella loro narrazione liberal-umanitaria.

 

La sconfitta viene addolcita dalla Casa Bianca inscrivendola nello sforzo complessivo di ridurre la sovraesposizione in teatri secondari, per meglio concentrarsi nel contenimento di Cina e Russia. Ma anzitutto per dedicarsi alla riabilitazione di casa propria, investita da una crisi di fiducia e d’identità che si traduce in deficit di credibilità all’estero.

 

Resta il fatto che l’umiliante sconfitta degli Stati Uniti d’America in Afghanistan è anche nostra, e degli altri paesi europei integrati nella costellazione a stelle e strisce.

 

Disastro inscritto nella sua stessa origine: la cosiddetta “guerra al terrore”, ideologia priva di basi strategiche su cui Washington ha impiantato la sua risposta all’11 settembre 2001.

 

Si aggiunga poi l’insipiente servilismo di alcuni alleati Nato, italiani compresi, che per dimostrarsi utili al “Padrone”, il quale ne aveva seccamente rifiutato l’offerta di soccorso, decisero di intervenire ugualmente nel “pantano afghano”.

 

Risultato: venti anni di occupazione senza sbocco, nella logorante perpetuazione di una postura insensata, mentre migliaia di mercenari e quasi altrettanti soldati regolari occidentali, tra cui 53 italiani, morivano per nulla.

 

La priorità per la sicurezza italiana dovrebbe essere lo Stretto di Sicilia, non quello di Taiwan. E il deserto del Sahara ha molta più rilevanza che non quello del Rigestan afghano. La presenza turca e cinese nei balcani dovrebbe allarmarci molto più che l’Isis K nell’aeroporto di Kabul.

 

Tuttavia, decenni di sottomissione americana hanno obnubilato le menti degli strateghi italiani, ammesso che ve ne sia rimasto qualcuno.

 

Il crollo dell’esercito afghano

 

 

Washington ha organizzato come peggio non si poteva la propria fuoriuscita, illusa dalla sua stessa propaganda che l’esercito locale da essa addestrato per oltre 15 anni le avrebbe dato tempo di evacuare Kabul con più tempo. Ha subito una delle peggiori umiliazioni di questo secolo, accettando il danno alla sua credibilità presso gli alleati e al suo messaggio universalista, messo davanti ai propri limiti.

Il precipitoso ritiro degli Stati Uniti ha generato un tale panico che l'esercito afghano si è disintegrato in pochi giorni. Di fronte ai talebani, che si stima siano circa 75.000 combattenti, l'esercito afghano conta ufficialmente 300.000 soldati che hanno ricevuto equipaggiamento militare e anni di addestramento dalla coalizione occidentale. Dal 2014 infatti il ruolo della Nato è stato solo quello di addestrare e supportare le forze afghane, che da allora sono diventate in prima linea nel processo decisionale.

 

Nonostante tutti questi importanti vantaggi, il Pentagono e la Cia avevano avvisato Biden che il ritiro degli Stati Uniti avrebbe portato una vittoria sicura per i talebani. La loro svolta è stata resa possibile da una combinazione di sottovalutazione del rischio e dalla presunzione di avere la situazione sotto controllo.

Risultato: l’esercito afghano si è sfaldato in pochi giorni. Molti sono ritornati talebani, altri si sono dileguati.

 

Sebbene queste forze ricevessero sostegno internazionale da due decenni, erano gravate dalla corruzione e facevano molto affidamento sulla copertura aerea della NATO. Al contrario, i talebani sono risultati molto più motivati e preparati oggi rispetto a vent'anni fa. Questa combinazione di fattori avversi ha fatto decisamente la differenza sul campo.

 

 

Le opportunità per la Cina

 

 

 

Gli Stati Uniti lasciano al potere gli stessi talebani che dovevano rovesciare. Per la Cina, impegnata in una lotta strategica con gli Stati Uniti, il ritiro del suo avversario rappresenta un'opportunità.

 

La Cina ha bisogno di un Afghanistan stabile ed è fiduciosa che il nuovo regime talebano possa garantirlo. In caso affermativo, il governo cinese potrebbe investire nella ricostruzione del Paese e aiutare i talebani a legittimarsi all'estero. Ma per assicurarsi che gli afghani facciano la loro parte, avranno bisogno del sostegno di potenze regionali limitrofe, come il Pakistan, i quali saranno in grado di influenzarli direttamente.

 

Eppure Pechino si avvicina a questa nuova realtà con più cautela che entusiasmo. Il governo cinese vuole eliminare in maniera confuciana quelli che considera i "tre mali" della regione: terrorismo, estremismo e separatismo. Beijing è inoltre terrorizzata dalla prospettiva che l’eventuale caos in Afghanistan tracimi nel vicino Turkestan orientale (Xinjiang). Vanificando gli ingenti sforzi con i quali negli ultimi cinque anni ha provato con relativo a successo a riaffermare il proprio controllo sulla ribelle Provincia occidentale.

 

 

La risposta americana all’islamismo

 

 

Lo Stato Islamico nella provincia del Khorasan (Isis-K) è l’affiliato afghano dello Stato Islamico. In seguito alle perdite territoriali subite dall’organizzazione salafita in Siria e in Iraq, dal 2018 è divenuto il ramo principale del “califfato”, che ha progressivamente trasferito in Afghanistan la sua base operativa.

 

Nel frattempo, la risposta americana non si è fatta attendere. Gli Stati Uniti hanno condotto un attacco aereo contro la filiale dello Stato Islamico in Afghanistan. Un drone ha colpito nella provincia di Nangarhar, dov’era acquartierato uno dei presunti pianificatori dell’attentato all’aeroporto di Kabul del 26 agosto, dove hanno perso la vita almeno 170 persone, fra cui 13 soldati statunitensi.

 

Per ora l’America sembra mantenere un certo contegno nella vendetta. La sua reazione all’attentato è un indicatore estremamente importante della lucidità o dell’annebbiamento della superpotenza. Soprattutto perché tutto ciò avviene in un momento molto confuso, dopo una cocente umiliazione, di fronte all’ammissione della sconfitta. Gli attori geopolitici non si muovono mai in modo perfettamente razionale. Esattamente come negli individui, emotività e impulsività possono far deviare dal cammino che si è dolorosamente intrapreso. Bisognerà attendere la risposta definitiva di Washington alla debacle dello scenario Medio-orientale. Dalle rispettive prove muscolari dipenderà il futuro scenario geopolitico del pianeta.

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Articolo pubblicato il 02/09/2021