I Moti del 1820-1821

Due secoli di lotte per l'Italia libera (di Aldo A. Mola)

“L’esercito piemontese non può nelle presenti gravissime circostanze dell’Italia e del Piemonte abbandonare il suo re all’influenza austriaca. Noi miriamo a due cose: di porre il Re in istato di proseguire i movimenti del suo cuore veramente italiano e di mettere il popolo nell’onesta libertà di manifestare al Trono i suoi voti come figli al padre. Se noi ci allontaniamo per un momento dalla legge della subordinazione militare, l’inevitabile necessità della patria vi ci costringe”.

Fu la “dichiarazione” firmata da Santorre di Santa Rosa e da Guglielmo Moffa di Lisio, stampata a Carmagnola, ove erano giunti da Pinerolo alla testa di trecento Cavalleggeri mentre ad Alessandria Guglielmo Ansaldi aveva innalzato il tricolore italiano inneggiando a sua volta a Carlo Alberto di Savoia, principe di Carignano, reggente dopo l’abdicazione di Vittorio Emanuele I e in attesa del rientro nel regno di Carlo Felice: “Cittadini, non lasciatevi traviare da pochi sediziosi nemici della pubblica felicità; allontanate dal vostro cuore ogni sentimento di vendetta e gridate: Viva il Re, viva la Costituzione di Spagna! Viva l’Italia!”.

Era il marzo 1821 cantato da Alessandro Manzoni nell’Ode lasciata nel cassetto sino al 1848. Pareva che indipendenza, unità e libertà fossero a portata di mano. Cinque anni dopo la Restaurazione e la Santa Alleanza (1814-1815), che avevano preteso di portare la storia indietro di vent’anni, la lotta per i diritti di libertà costituzionalmente garantiti aveva cominciato a divampare dalla Spagna, mentre si sgretolava il secolare impero coloniale di Madrid, dal Messico all’Argentina.

Da lì era passata nel regno delle Due Sicilie e infine in Piemonte. Organizzati in gruppi, società segrete (massoni, carbonari, adelfi, federati...), nuclei di varia denominazione con collegamenti esteri più immaginari che effettivi, i liberali subalpini però si mossero in ritardo, quando ormai gli austriaci stavano imponendo la seconda restaurazione nel Mezzogiorno dominato dai Borbone.

Tuttavia la loro “Rivoluzione” divampò, immediata e vasta, a conferma del profondo malcontento nei confronti dell’autoritarismo rozzo e arrogante, che un mese prima aveva represso “manu militari” gli studenti universitari in Torino, subito confortati da Carlo Alberto, antico conte dell’Impero napoleonico. Il moto ebbe il sostegno di aristocratici e borghesi, ecclesiastici (come Bernardo Marentini) e militari, e un’anima sola: monarchica e liberale. I “compromessi” subirono una pesante repressione, completa di condanne a morte (eseguite solo in due casi) e di esili volontari.

La reazione doveva essere implacabile perché Napoleone era ancora vivo a Sant’Elena e, come ricorda Vittorio Criscuolo in “Ei fu” (ed. il Mulino, candidato al Premio Acqui Storia 2021), molti scommettevano sul suo salvifico ritorno in Europa.

Tra i protagonisti il moto piemontese ebbe Santorre di Santarosa (1783-1825), che, condannato a morte e impiccato in effige, riparò in Svizzera, Francia, Inghilterra e morì a Sfacteria l’8 maggio 1825 mentre combatteva da soldato semplice contro il dominio turco sulla Grecia: esempio fulgido di amore per la libertà, che è universale o non è.

Aldo A. Mola

 

Le Speranze degli Italiani

Nel 1920 lo storico Adolfo Colombo pubblicò “Delle Speranze degli italiani” di Santorre di Santarosa, caotico manoscritto da lui fortunosamente trovato e identificato, come narra nella dotta introduzione, densa di documenti inediti.

Ne emerge la personalità del grande patriota, sin dall’adolescenza dedito agli studi, alla riflessione, alla ricerca della sua Stella. Colombo, che nel 1938 diede alle stampe “La vita di Santorre di Santarosa, 1783-1807”, volume primo di una biografia mai condotta a termine, ne pubblicò stralci di note autobiografiche dal sapore leopardiano: “J’écris au clair de la lune; un air frais que je respire par ma fenetre ouverte me charme. Je te saluai ò Lune, bienfaisante; je vous saluai étoiles brillantes...”.

Pronunciava voti: migliorarsi per realizzare un ideale sublime anche se ancora baluginante mentre (ne ha scritto Filippo Ambrosini nella sua biografia) era giovanissimo “Maire” della sua nativa Savigliano, poi sottoprefetto a La Spezia, passando per Alessandria e Genova, dai cui Forti scoprì il Ligure, il Tirreno e comprese che l’Italia è un’unica “entità”, dal Varo al Quarnaro e alla Dalmazia.

Santarosa aprì le “Speranze” con parole squillanti: “L’Italia vuol fatti e non parole. Io non sono un uomo letterato. Sono un soldato che a niuna setta appartenendo solo conosce i suoi altari, la sua patria e la sua spada. Ardito banditore delle popolari verità italiane, alzerò il grido della nostra guerra d’indipendenza, e più fortemente il grido della concordia, che fa le guerre giuste, tremende e felici”.

Aveva “moglie, figli e campi”, ma a tutto antepose l’Italia e la “causa liberale in Europa”.

Dedicò molte pagine alla “guerra dell’indipendenza italiana”, parecchie al clero e alla religione in Italia.

Vi scrisse: “La Religione dell’Italia è la cattolica”, ma “i preti saranno cittadini quando la patria gli riguardi figli, e figli utili e cari. Gli abusi del clero nascono appunto da Governi arbitrari e assoluti”.

Scrisse anche di “letterati” e delle Università. “I letterati salvarono l’Italia. Alfieri. Diodata. Monti. Perticari. Ugo Foscolo. Pellico. Botta. In questo tempo la loro opera sarebbe come una tagliente spada”.

Si appellò agli studenti universitari e concluse con il plauso “Alle donne italiane”. “Siete migliori di noi, scrisse. Se siete mal note all’Europa è colpa nostra che coi nostri poveri fatti facciamo comparire voi incitatrici insufficienti alle grandi imprese. Non siamo degni di voi. Voi la libertà d’Italia desiderate, ma noi non la sappiamo intraprendere...”. Due secoli fa.

 

L’opera di Santarosa venne letta con entusiasmo nell’ambito della copiosa letteratura fiorita nel primo centenario dei moti liberal-costituzionali del 1820-1821. Poi appassì nella ristretta cerchia degli studi eruditi.

Nel 2005 fu ristampata in edizione anastatica per iniziativa della loggia “Santorre di Santarosa” n. 1 di Alessandria. Nella prefazione Piero Bonati, gran maestro onorario del Grande Oriente d’Italia, rievocò la rinascita della massoneria dopo i vent’anni del regime fascista: “Nel pomeriggio del 23 aprile 1945, in una cascina nei pressi di Spinetta Marengo, si procedette, con regolare verbale firmato da undici massoni prefascisti, alla fondazione della loggia aderente alla Federazione Massonica Italiana che nel giro di pochi mesi, a guerra terminata, assumeva la storica denominazione di Grande Oriente d’Italia. In Alessandria, quattro giorni prima dell’arrivo degli alleati, in piena zona di guerra, si sanciva così la riunificazione dei due gruppi massonici prefascisti, quello regolare di Palazzo Giustiniani e quello per così dire scismatico che aveva assunto la denominazione di Piazza del Gesù...”.

Proprio in una loggia di Alessandria era stato iniziato alla Vera Luce Domenico Maiocco, fondatore della Massoneria Italiana Unificata, riconosciuta dal Supremo Consiglio di Rito scozzese antico e accettato (Giurisdizione Sud) degli Stati Uniti d’America.

Al 1945 seguirono anni nuovamente difficili. Malgrado le apparenze, l’Italia aveva qualche “alleato” ma nessun vero amico. Le libertà riconquistate a carissimo prezzo erano minacciate da opposti settarismi: clericali fanatici da un canto, stalinisti dall’altro. Proprio l’Alessandrino di Luigi Longo e di Walter Audisio ne sapeva qualche cosa...

Bonati, come Piero Sinchetto della “Ausonia” di Torino, seminarono per le generazioni venture.

I frutti si videro poi e ancora si vedranno.

Il Centro di documentazione Ipotenusa, animato dall’illustre accademico Dario Seglie, ha in cantiere una nuova edizione dell’altra opera fondamentale di Santarosa: la “Storia della Rivoluzione piemontese del 1821”.

La sua pubblicazione consentirà di riprendere il discorso avviato con il convegno di Pinerolo del 18 settembre 2021: la scoperta della “catena di unione” che collega l’Europa odierna, sempre in ritardo con i tempi, con quella di due secoli addietro, seconda aurora delle Nazioni indipendenti, libere e affratellate contro ogni tirannide.

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Articolo pubblicato il 12/09/2021