Un sindaco all'ombra della Lanterna

Memoria del senatore Andrea Podestà (di Alessandro Mella)

Non c’è città, in Italia, che non sia piena di storia e grandi storie di uomini e donne di valore, talento, coraggio ed abnegazione. Persone che con sacrificio ed impegno concorsero a costruire il nostro paese e le sue istituzioni.

Andrea Podestà nacque il 26 maggio 1832, cittadino sardopiemontese, a San Francesco d’Albaro, nei pressi di Genova, da Luca, ufficiale del Genio già dell’esercito napoleonico, e da Luigia Casanova. Giovanissimo, nel 1854, si laureò in giurisprudenza presso la R. Università di Genova salvo lasciare la professione forense molto presto per darsi alla politica nel piccolo comune natio.

Questo suo impegno amministrativo e politico si tradusse in una lunga serie di prestigiosi ed importanti incarichi susseguitisi negli anni: Sindaco di S. Francesco d’Albaro (4 marzo 1860-21 dicembre 1865), Presidente del Consiglio provinciale di Genova (1870-1895), Sindaco di Genova (18 gennaio 1866-31 dicembre 1873) (31 dicembre 1883-27 ottobre 1887) (23 gennaio 1892-4 marzo 1895), Consigliere comunale di Genova (1863), Consigliere provinciale di Genova (1864), Assessore comunale di Genova ai lavori pubblici, Membro della Deputazione provinciale di Genova, Consigliere comunale di S. Francesco d’Albaro, Priore del magistrato di Misericordia di Genova, Presidente della Società delle miniere di Lanusei, Tacconis, Sarrabus, Correboi e Monteloro, Membro del Consiglio d’amministrazione e vicepresidente della Società delle Ferrovie mediterranee, Amministratore della Raffineria ligure lombarda, Amministratore dell’Opera pia “Brignole Sale De Ferrari”, Presidente del Consiglio direttivo della Scuola superiore d’applicazione degli studi commerciali e Membro del Consiglio d’amministrazione della Scuola superiore navale. (1)

Pur assorbito da tanti ruoli e doveri, egli si era sposato con la signora Luisa Giuseppina Cattaldi dalla quale aveva avuto i figli Luisa Maria, Luca, Giulio, Maria Francesca ed Anna Maria.

Nel 1867 il nostro Andrea Podestà fu eletto alla Camera dei Deputati tra i banchi della destra ove rimase fino al 1876 quando, dopo aver cambiato orientamento, subì una temporanea sconfitta elettorale che non gli impedì di tornare presto in parlamento e di restare a Montecitorio fino al 1882.  Lasciando, tra l’altro, il ricordo di un servitore indefesso e morigerato.

Quale deputato che aveva onorato il suo ruolo per tre legislature fu, nel 1883, nominato Senatore del Regno accedendo così alla Camera Alta di Palazzo Madama.

A questo importante titolo d’onore s’aggiunse, nel 1884, il riconoscimento formale di quello di barone che suo padre aveva ricevuto dal Re Carlo Alberto nel 1847. Riconoscimento reso possibile anche grazie alla stima di cui godeva presso la Monarchia sabauda e che traeva radici già nella sua personale amicizia con il defunto Vittorio Emanuele II. (2)

A maggior riconoscimento dei suoi meriti politici ed amministrativi si aggiunsero nel tempo le insegne di Gran cordone dell’Ordine della Corona d’Italia e dell’Ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro, Commendatore dell’Ordine della Legion d’onore (Repubblica Francese), Gran cordone dell’Ordine della Corona di Prussia (Impero di Germania), Gran Cordone dell’Ordine di Isabella La Cattolica (Regno di Spagna) e Gran cordone dell’Ordine di Cristo (Regno del Portogallo). Quest’ultimo è ancor oggi patrimonio dinastico della Real Casa del Portogallo con gran maestro il Capo della Real Casa del Portogallo, Dom Pedro Duca di Braganza e di Loulè e come cancelliere Dom Nuno Cabral da Camara Pereira Marchese di Castel Rodrigo e Connestabile del Portogallo. È questo un ordine che molte volte ha ornato (ed orna) il petto di numerosi italiani.

Per tutta la sua vita politica egli fu un attento e stimato amministratore. Intento a garantire il rinnovamento del territorio e la sua comunicazione con il governo e le istituzioni centrali facendo da vero e proprio raccordo tra realtà molto diverse e non sempre in armonia. La sua opera fu così apprezzata dai suoi concittadini che ancora oggi un corso, nel quartiere Portoria, di Genova ne porta il nome.

La stima e la considerazione di cui godeva emergono in questo profilo tracciato dai giornali del tempo:

 

Il barone Podestà nacque a Genova verso il 1830. Datosi alla professione del Foro, riescì valente avvocato e ben presto prese parte anche alla vita pubblica, dimostrando animo proclive a sentimenti d’ordinata libertà. Partecipò a molteplici manifestazioni politiche e dai concittadini venne eletto a sedere fra i membri delle principali Amministrazioni civiche. Dal Governo fu chiamato poi all’onore di dirigere l’Amministrazione comunale di Genova; ebbe a sostenere fiere lotte provocate da spirito di parte, ma l’onestà sua non fu potuta disconoscere dai suoi stessi avversari, cosicché, caduto una volta, fu più tardi riassunto al sindacato che conservò sino alla morte. Entrò a far parte della Camera lungo la X Legislatura mercé i voti del 2° Collegio di Genova e venne rieletto in cinque successive Legislature. Sedette sempre a Destra. Nel novembre 1883 fu assunto alla dignità di senatore. Fu pure presidente del Consiglio provinciale di Genova. (3)

 

Il 4 marzo 1895, affaticato da anni d’impegno e lavoro, egli si spense nella sua Genova lasciando dietro sé infiniti dolori e non poco rimpianto:

 

Acqui è una lieta ricordanza del Sindaco di Genova. Nel banchetto inaugurale della linea Genova-Asti, tenutosi nel gran salone della nostra Casa Operaia, la parola simpatica e forbita del Barone Andrea Podestà portava il saluto affettuoso della sua Genova, e a nome della sua città, con l’alto encomio a Giuseppe Saracco per l’infaticabile patrocinio di opera così proficua per la Liguria e pel Monferrato, augurava alle nostre fertili terre ed alle laboriose nostre popolazioni quella restaurazione economica e quel fecondo avvenire di prosperità a cui la nuova linea avrebbe potuto efficacemente cooperare.

Gli applausi unanimi e prolungati dei commensali dissero allora al Sindaco di Genova quanta simpatia avesse destato e quanto venissero apprezzate la sua presenza e la sua parola in così fausta ricorrenza. Il Barone Andrea Podestà era anche legato da particolare e inalterabile affetto al Sindaco d’Acqui.

La comunanza d’idee politiche, la indefessa, febbrile attività dei due illustri cittadini, la costante, non interrotta opera in vantaggio del loro paese, rendeva più saldi i loro vincoli di amicizia e la profonda reciproca stima.

Oggi che Andrea Podestà, vinto da improvvisa e terribile malattia, non è più, Acqui ha il dovere di ricordarne con riverenza ed affetto la memoria, augurando al paese uomini che, come il defunto Sindaco di Genova, che S. M. Umberto I chiamava il primo Sindaco d’Italia, sappiano, per rettitudine, intelligenza ed operosità, ricondurre il prestigio della moralità in tutte le pubbliche amministrazioni, dare l’esempio ai neghittosi del come alla vita pubblica si attenda non per soddisfazione, senza troppo occuparsene, a personali ambizioni ma per il benessere del paese, richiamando e rinsaldando nell’animo dei cittadini la fiducia negli uomini che sono preposti alla direzione della cosa pubblica.

Mentre la nobile città piange, addoloratissima, la morte del suo primo cittadino, noi pure, a nome della cittadinanza acquese, da questo lembo modesto della terra monferrina, inviamo un mesto saluto e l’espressione del più vivo rimpianto alla memoria di quell’illustre. (4)

 

LA MORTE DEL BARONE PODESTÀ Genova 6 marzo (Aldo). — Mai lutto di popolo venne così vivamente sentito, come quello che incombe su Genova tutta per la morte del suo venerato Sindaco barone Andrea Podestà. L’intera cittadinanza che, alla notizia della grave malattia dell’illustre uomo, trepidante attendeva d’ora in ora i bollettini dei medici curanti, appena apprese la terribile catastrofe si accasciò profondamente da ricordare le infauste giornate che seguirono la morte del buon Re Vittorio Emanuele, e quella del sommo Duce dei Mille.

I negozi, le officine, i teatri, i pubblici ritrovi, gl’istituti, le scuole, si chiusero per tutta la giornata di ieri; per le vie ove numerose pendevano le bandiere a mezz’asta, sia dai balconi dei sontuosi palazzi, che dalle finestruccole delle misere case d’operai fu un continuo avvicendarsi di cittadini, affrettantisi verso il palazzo Podestà ove il Sindaco esalò l’ultimo sospiro.

Così dinanzi alla salma dell’amato Barone si son visti sfilare operai, facchini, pescatori, contadini, nei cui occhi tremolavano le lacrime, frammiste alle notabilità cittadine, alle donne dell’aristocrazia superbamente impellicciate. 

In una parola, il compianto fu universale, e ciò costituisce la più splendida prova della popolarità immensa che il nostro adorato Sindaco, colle sue opere, colle sue elettissime doti di mente e di cuore s’era saputo acquistare in ogni ceto di cittadini, durante i 30 anni di sua vita sindacale.

I funerali, per espresso desiderio dell’estinto, vennero eseguiti stamane in forma privata, ma non per questo riuscirono meno imponenti. Alle 6.30 il carro funebre di prima classe, ma a due cavalli soltanto, accoglieva la venerata salma. Sulla bara non si collocarono che quattro delle cinquanta e più splendide corone che l’affetto d’innumerevoli amici aveva nella notte adunate nel palazzo Podestà.

Erano le corone della «città di Genova» e dei figli. Tutte le altre, parecchie delle qual costituivano veri capolavori d’arte floreale, furono collocate in quattro carri e su vetture private. Quando si mosse il carro funebre era giorno fatto e lo seguirono ben 160 vetture in cui avevano preso posto tutte le autorità civili e militari e uno stuolo innumerevole di amici ed ammiratori.

L’Arcivescovo di Genova volle anche lui nella sua vettura prender parte all’ accompagnamento. Alle ore 7,40 il carro entrò nella necropoli, mentre le ultime vetture non erano neppure a metà strada. La bara, tirata fuori, venne a braccia portata su la maestosa scalinata di marmo nell’interno del tempio, ove trovarono posto i parenti dell’estinto e le principali nobilità cittadine.

Il parroco della Maddalena, vecchio amico del compianto Sindaco, celebrò la messa, quindi la bara venne trasportata alla seconda arcata del portico di destra ove trovatisi le tombe della famiglia Podestà. Dopo averla benedetta, lo stesso sacerdote che aveva celebrato la messa, volle pronunziare poche parole, rotte dai singulti, in memoria dell’estinto, prima che la venerata salma venisse calata nella cripta, quantunque fosse stabilito che non si sarebbe fatto alcun discorso.

Fu un momento d’indicibile commozione: i due figli dell’estinto, che fin allora s’ erano fatti forza, ruppero in lacrime e molti dei presenti non poterono neppure trattenerle.

Ieri la giunta municipale fra le altre onoranze stabilite, aveva decretato che fosse al Barone Podestà assegnato un posto d’onore nel Pantheon di Staglieno; ma anche a questa meritata onoranza volle con atto di sua ultima volontà isfuggire il lacrimato estinto.

Vennero pure decisi: 1. Un lutto di tre mesi con abbrunare la sala del Consiglio. 2. Funerali solenni nella Metropolitana, pontificati dall’arcivescovo. 3. Invito d’intervenirvi a tutti i Sindaci della Liguria. 4. Collocamento d’un busto in bronzo e d’una lapide nell’ aula consigliare. 5. Imposizione del nome di Andrea Podestà ad una via o piazza.

Il miglior monumento però l’adorato Sindaco s’avrà imperituro nel cuore di tutti i genovesi che a lui devono la floridezza del civico erario, il rinnovamento edilizio dell’intera città, la sua igiene, la sua salute, e mai dimenticheranno quanto egli abbia fatto nelle disastrose epidemie del 1866, del 1884, del 1887 e durante il terremoto che funestò tanta parte della Liguria. 

Innumerevoli telegrammi pervennero alla famiglia, dai Reali, dai Principi e da tutti i Ministri, da tutte le autorità principali d’Italia e delle colonie dell’estero, poiché il lutto di Genova è lutto nazionale e la perdita d’un tanto Uomo fu troppo vivamente sentita. (5)

A distanza di qualche tempo anche a Roma, nell’aula del Senato del Regno tra i cui scranni tante volte sedette, si tenne la commemorazione:

 

Atti parlamentari Commemorazioni.

Domenico Farini, Presidente

 

Signori senatori! Doloroso è a me l’annuncio, a voi l’udire dei colleghi venuti a morte dacché non ci adunammo. [...]

Vi hanno uomini la cui morte concilia gli animi a mesta concordia. Attorno alla memoria di codesti che già furono segno di aspre lotte, tace subito ogni dissidio e sul loro feretro gli amici e gli avversari del dì innanzi gemono a gara, a gara lodano. In un attimo, quasi una luce improvvisa rischiarasse la vita che si spense, le è fatta giustizia del maltalento; il vuoto che dopo di sé lascia nello Stato o nella città affligge e fa meditare.

Tanta la costernazione di Genova, poiché la mattina del 5 di marzo con parola commossa, la Giunta comunale annunciava la fatale perdita del suo capo il barone Andrea Podestà, spirato alle ore ventidue del giorno innanzi.

Egli è che da oltre trent’anni si era come imperniata nel defunto e da lui indirizzata non solo l’azione del municipio, ma ben anche quella della maggior parte degli istituti benefici e delle aziende industriali e bancarie onde il laborioso popolo trae decoro e benessere, accumula ricchezza. Egli è che Andrea Podestà, suo deputato al Parlamento durante sei legislature e senatore da pressoché dodici anni, aveva con fervore continuo e ligure tenacia in ogni occasione favorito nelle due Camere le provvisioni onde Genova e lo Stato si avvantaggiassero. Egli è che consigliere comunale per un trentennio, tre volte sindaco, consigliere provinciale dal 1864 e presidente del Consiglio dappoi il 1870, da lui aveva preso nome ogni incremento della splendida città, di cui immedesimava in sé i sentimenti e le aspirazioni.

Di vivace ingegno ed ornato di bella cultura letteraria; dalla storia, nella quale era molto versato, traeva incitamento a che la terra natale, ragione fatta dei tempi nuovi, si mantenesse degna del gran nome, del grandissimo passato; che alla patria italiana fosse esempio e stimolo di operosità, insegnamento ed aiuto, argomento di prosperità. Mente larga, acuta percezione, schivo delle meticolosità afferrava con risolutezza il patrocinio d’ogni nobile idea; per lui la magistratura municipale palpitava all’unisono colla città; sicché antivedendo, iniziando, moderando, impediva che alcun privato si arrogasse di rappresentarne i sentimenti, di esprimerne il pensiero, gli affetti.

Aveva in gioventù studiata legge nel patrio ateneo, che tant’anni dopo sua mercé sarebbe accresciuto di dignità, ed aveva pur anche per breve esercitata l’avvocatura. Morto il valente ingegnere [sic] dal quale nell’anno 1830 era nato, lasciato il foro, fece tirocinio di pubblico amministratore reggendo i comuni di San Francesco di Albaro e di Voltri ed in quello di Masone: speciali studi di edilizia, d’igiene, di pubblica economia lo apparecchiarono a più insigne arena.

Dal 1863 consigliere comunale di Genova anzi assessore sui lavori pubblici; nel 1866 sindaco per la prima volta, al colera che fieramente percosse la città oppose animo risoluto, attività sovrumana.

In quell’anno e nel successivo, e più tardi ogni qualvolta la città dal contagio fu flagellata lo combatté con inflessibile baldanza, sorretto dalla ferrea volontà, e dal sentimento della grande responsabilità, da cui il corpo non gagliardo attingeva vigore. Furono certo quelle strazianti giornate, quando la morte desertava i palazzi e funestava i tugurii, quando il morbo popolare collo squallore e coi lutti puniva e maggiorenti per i trasandati doveri sociali, che alla sua coscienza balenò, s’impose una missione: risanare la città. Solcarne il dedalo delle storte viuzze, unirne il cuore al suburbio con larghe strade; schiantarne la muraglia che ad oriente la angustiava, che a mezzodì le precludeva l’ampio mare e le purissime brezze ed impacciava l’accedere al porto ed il venirne; con bella circonvallazione ricingerla a mare e sul dosso del monte, e spianato questo a quello congiungerlo per più vie e farne nuova saluberrima stanza, fu opera sua. E la trasformò per guisa da non contaminarne l’impronta gloriosa dei secoli, da rispettarne i monumenti e le memorie di rispetto degne; nel mentre che i traffici e la vita moderna e le esigenze tutte del nostro tempo ne ricevevano soddisfazione. E fu opera sua: il territorio del comune verso oriente ampliato, il presente e l’avvenire del porto assicurato, il commercio di deposito agevolato. Faticosa, quotidiana battaglia durata nei quindici anni di suo sindacato; per la quale tre volte giacque, tre volte risorse, dalle memorie luttuose lena per vincere la garrula accidia dei giorni sereni, dalla chiaroveggenza d’un cuore caldo e d’un intelletto potente traendo irremovibile fermezza: battaglia, anzi vittoria, alla quale la voce pubblica lo additava, lo chiamava, lo preponeva ogni qualvolta un interesse d’alto momento esigesse pronta soddisfazione.

Ed egli che era caduto per non cedere, che ai successori, pur combattuti, aveva risparmiato le piccole molestie, volenteroso accorreva; riprendeva fiducioso la sua diritta via; conciliava uomini opposti cose discoste, distrigava i viluppi e senza darsi pensiero degli ostacoli, anzi andandovi incontro risoluto a superarli anche a rischio di esserne rovesciato, rompeva gli indugi, imponeva silenzio, tutto dominava, tutti trascinava; nato fatto a comandare da solo.

Del pubblico danaro parsimonioso, alieno dalle pompe, e quantunque ricco abituato a sobrietà paesana, egli sapeva a tempo largheggiare del proprio e del pubblico danaro. Era quando il primo cittadino sentiva di riassumere nel proprio fasto la storica splendidezza degli antichi privati cittadini; era quando il primo magistrato sapeva essere confidato alla città sua il prestigio della nazione. Allora le feste del privato erano degne del Re e dei principi che ospitava; allora ogni patriottica manifestazione appariva, per virtù del municipio, grandiosa e riscaldata dallo stesso vivo sentimento per cui nella storia del risorgimento Genova va gloriosa. Ultime in ordine di tempo le feste Colombiane, la magnificenza delle quali sbugiardò la fola di miseria onde eravamo lacerati, e vive e vivrà lungamente nel ricordo dei popoli che da ogni dove vi convennero; tanto la superba antica signora del Mediterraneo, da lui agognata sempre più ricca e sempre più bella, per lui aveva all’antico apposto novello splendore.

Fu Andrea Podestà taciturno, severo, ruvido in vista; nell’intimità bonario, espansivo, gioviale; cogli amici affabile, per la famiglia aveva tenerezza tale che soltanto chi, al pari di me, godette la sua dimestichezza può figurare. L’abito di una freddezza calcolatrice frenava in lui gli slanci della natura immaginosa; il più caldo affetto per la città si congiungeva a’ purissimi spiriti nazionali.

Giudizio unanime di ogni partito, voce sovrana di popolo lo sentenziò vanto di Genova, onore di Liguria; né l’ala rapida del tempo scolorirà con sconfortante oblio la memoria di chi rappresentò tanta parte di Genova, anzi della Liguria dirimpetto all’Italia (Benissimo). (6)

Se ne andò così un illustre amministratore e uomo politico del nostro tempo il quale, pur possidente e benestante e nonché brillante amministratore del proprio patrimonio, non mancò mai di indirizzare la propria attenzione verso le periferie, il territorio, il mondo del lavoro ed i più deboli. A Genova si impegnò moltissimo per favorirne l’espansione edilizia anche attraverso l’assorbimento dei comuni vicini e tentando di risanarne i problemi, non senza qualche critica. Tra le sue opere non va dimenticato il potenziamento del porto e quello della formazione in ambito navale e nautico al fine di creare lavoro e contribuire al consolidamento dell’economia locale. Scopo da raggiungere anche mediante un miglioramento del commercio mercantile attraverso una migliore gestione logistica e la creazione di una classe dirigente preparata al compito ed all’impiego efficace delle strutture predisposte.

E quello della formazione, anche in ambito commerciale ed universitario, quale volano per lo sviluppo sociale ed economico fu sempre un tema caro al suo cuore e per il quale si prodigò con costanza instancabile.

Una figura la cui memoria merita d’essere tramandata perché di esempi come questo abbiamo davvero bisogno.

Alessandro Mella

NOTE

1) Archivio Storico del Senato.

2) A riguardo si veda: Annuario della Nobiltà Italiana, Edizione XXXI, Parte II, Tomo II, Andrea Borella a cura di, Teglio, 2011, p. 1313.

3) La Stampa, 64, Anno XXIX, 5-6 marzo 1895, p. 1.

4) La Bollente, 10, Anno IX, 7-8 marzo 1895, p. 1.

5) Gazzetta di Novi, 350, Anno VII, 10 marzo 1895, p. 3.

6) Senato del Regno, Atti parlamentari. Discussioni, 12 giugno 1895.

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Articolo pubblicato il 18/10/2021