Mausoleo, viaggio da Torino ad Alicarnasso

Curiosità storiche su un vocabolo entrato nell'uso comune (di Paolo Barosso)

Una delle tombe più conosciute del cimitero monumentale di Torino, sorto nel 1829 su disegno dell’architetto Sada e ampliato nel 1841 con il progetto dell’architetto Lombardi, è il Mausoleo di Francesco Tamagno, che accoglie le spoglie mortali del celebre tenore verdiano, morto nel 1905 e proiettato in una dimensione quasi leggendaria per l’incredibile potenza della sua voce, ritenuta capace di “far tremare i lampadari del Regio”.

Il sepolcro, voluto dalla figlia del cantante lirico, Margherita, che ne affidò il progetto all’architetto milanese Raineri Arcaini, si distingue per l’imponenza, con i suoi quasi quaranta metri di altezza, per il candore del marmo Botticino, estratto dalle cave situate in provincia di Brescia, e per l’elegante veste neoclassica del monumento commemorativo che sovrasta la camera funeraria, ispirato ai sacelli eretti nell’antica Atene a ricordo dei coreghi, patroni di spettacoli teatrali e dei cori, in particolare a quello di Lisicrate (334 a.C.), con sei grandi colonne in stile corinzio e un tripode in bronzo collocato alla sommità. 

Per le dimensioni e i richiami estetici all’antichità classica, la tomba di Tamagno viene quindi definita “mausoleo”, vocabolo entrato nell’uso comune per designare un sepolcro monumentale destinato a una personalità illustre.

Qual è però l’origine del termine? Da una facile ricerca se ne scopre la derivazione dal greco antico “µαυσωλε?ο” (mausoleìo), nome con cui era indicata una delle “sette meraviglie” del mondo antico, la grandiosa tomba situata nel centro di Alicarnasso, antica capitale della Caria, oggi corrispondente alla città portuale turca di Bodrum, che accoglieva i resti mortali del satrapo Mausolo (e della consorte Artemisia II), vissuto nel IV secolo a.C.

La regione storica della Caria, affacciata sulle coste sud-occidentali della penisola anatolica, era profondamente grecizzata nei costumi e nella cultura, ma nel IV secolo a.C. (prima della conquista di Alessandro Magno) risultava da tempo inglobata nell’impero persiano degli Achemenidi, che l’avevano eretta a satrapia, cioè provincia, affidandone il governo alla dinastia degli Ecatomnidi (da Ecatomno, il capostipite eponimo), cui apparteneva Mausolo.

L’ambizioso e abile Mausolo, che governò la Caria quasi come un sovrano indipendente, volle seguire l’esempio del padre, Ecatomno, il quale s’era fatto costruire una grande tomba nella città di Milasa (oggi Milas in Turchia), capitale della Caria prima di Alicarnasso, e iniziò quindi a concepire per sé l’edificazione di un monumentale sepolcro, che avrebbe dovuto dominare con la sua mole massiccia il centro urbano, in contrasto con le disposizioni che imponevano le sepolture dei defunti al di fuori del perimetro cittadino.

Il progetto venne portato ad attuazione da Artemisia, che non era soltanto la moglie di Mausolo, rimasta vedova nel 353 a.C. e subentrata al marito nel governo della satrapia di Caria, ma ne era anche la sorella. A quanto pare, il matrimonio tra consanguinei doveva essere un’abitudine di famiglia perché, alla dipartita di Artemisia, nel 350 a.C., il governò della regione passò a un secondo fratello, Idrieo, che a sua volta era convolato a nozze con un’altra sorella, Ada.

Secondo le fonti, il dolore di Artemisia per la morte di Mausolo fu tanto intenso che ella provvide a mescolare, in una brocca ricolma d’acqua (o di vino aromatizzato), le ceneri del defunto consorte, la cui salma era stata bruciata su una grande pira, bevendone poi il contenuto, nel convincimento, frutto di ancestrali credenze, che l’energia vitale del defunto rifluisse nel suo corpo. L’episodio, riportato dal Boccaccio nel “De mulieribus claris”, raccolta di biografie di donne illustri edita nel 1362, divenne un tema ricorrente nella pittura occidentale, specialmente dal Rinascimento al Settecento e in ambito olandese: tra coloro che immortalarono il gesto della sovrana vi fu Rembrandt, che nel 1634 dipinse il quadro intitolato “Artemisia riceve le ceneri di Mausolo”.

Artemisia II, ereditando il governo, diede nuovo impulso al cantiere per la costruzione della tomba monumentale di Mausolo, chiamandovi a lavorare i più famosi architetti del tempo e soprattutto, come testimonia Plinio il Vecchio, reclutando una squadra di scultori di primo piano, Skopas, Bryaxis, Timotheos e Leochares.

Le imponenti dimensioni del sepolcro (secondo Plinio alto 45 cubiti, vale a dire oltre 11 metri, e delimitato da uno pteron, variante del peristilio, di 36 colonne) e la straordinaria ricchezza dell’apparato scultoreo, che aveva il suo apice nel gruppo statuario collocato alla sommità dell’edificio, raffigurante Mausolo e Artemisia a bordo di una quadriga (cocchio trainato da quattro cavalli), colpirono a tal punto l’immaginario collettivo che la tomba del satrapo di Alicarnasso venne inserita da Antipatro di Sidone, epigrammista greco (II secolo a.C.), nel novero delle sette meraviglie del mondo antico, insieme con il Colosso di Rodi, il Faro di Alessandria, il tempio di Artemide a Efeso, la statua di Zeus a Olimpia, i giardini pensili di Babilonia e la piramide di Cheope.

Ma che fine fece la tomba dopo l’estinzione della dinastia ecatomnide, per la cui imperitura gloria fu eretta? Ebbene, dalle testimonianze a nostra disposizione risulta che il Mausoleo di Alicarnasso resistette per secoli alle insidie del tempo e alle spoliazioni dei predoni, ma venne seriamente danneggiato da una serie di terremoti che si abbatterono sulla penisola anatolica nel corso del Medioevo, tra XII e XV secolo. In seguito, il materiale lapideo ricavato dalle rovine della grande tomba venne utilizzato dai Cavalieri dell’Ospedale di San Giovanni di Gerusalemme, poi di Rodi, predecessori dell’odierno Sovrano Militare Ordine di Malta, che avevano preso il controllo della città ottomana di Alicarnasso, per la costruzione di un possente castello a presidio del porto, ancora oggi visibile, battezzato di “San Pietro”, petreus in latino, da cui il nome turco di “Bodrum”.  

Oggi importanti frammenti dei meravigliosi fregi e sculture che ornavano la tomba sono conservati al British Museum di Londra mentre a Bodrum sono visibili pochi resti, riportati alla luce nel 1856 per merito dell’archeologo britannico Charles T. Newton.

Noi torinesi, anche senza spostarci dalla città, possiamo invece immaginare la magnificenza di quella costruzione, che tanto colpì la fantasia degli antichi, passeggiando tra le tombe del cimitero e ammirando le forme neoclassiche del Mausoleo di Francesco Tamagno, l’uomo che, dai tavoli di una trattoria di Borgo Dora elevò la propria condizione fino a calcare il palcoscenico dei più grandi teatri del mondo.

Paolo Barosso

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Articolo pubblicato il 14/10/2021