Festa dei defunti

Sepolcri che raccontano luci e ombre dell’umana esistenza

“Solo la morte mi ha portato in collina”: è uno dei tanti versi della famosa Antologia di     Spoon River in cui l’autore, Lee Master, riprendendo il modello narrativo classico, dà voce ai sepolcri che raccontano luci e ombre dell’umana esistenza".

 

La morte riporta alla terra, riconduce all’origine, oggi però è difficile pensarlo nei cimiteri delle metropoli dove quello che fu il giardino dei silenziosi, comunque caratterizzato da una propria armonia ambientale, diventa un luogo da ottimizzare, in cui restringere all’estremo gli spazi per riuscire a metterci il maggior numero di tombe.

E così crolla anche la certezza del poeta che assicurava: “anche chi non ha niente adesso, prima o poi due metri quadrati di terreno li avrà”.

 

È che in questi nostri anni avari di serenità, della morte sono stati enfatizzati esclusivamente gli aspetti bruti: la morte fine, la morte che sfalda corpi e certezze antropocentriche, la morte come porta sul niente.

Ecco che con l’ottimizzazione degli spazi del cimitero, le benedizioni in serie nelle camere mortuarie degli ospedali, le agenzie di pompe funebri che si fanno pubblicità con grandi manifesti e assicurano che con un tot “tutto compreso” si potrà contare su “professionalità e discrezione”, la morte si è sempre più allontanata dalla vita.

 

A questo si aggiunga il delirante senso di immortalità che la schizofrenia di tutti i giorni ci impone (o, forse, che vogliamo farci imporre): facciamo scorrere i nostri anni come se la vita non finisse mai, senza fermarsi a pensare che il filo dell’esistenza di ognuno di noi non è indistruttibile.

Materialisticamente abbiamo allontanato la morte dai noi e poi, paradossalmente, la enfatizziamo nelle assurde rivisitazioni ludiche delle feste di Halloween.

 

Una volta si chiamava Camposanto (nome che gli veniva da quello di Pisa realizzato con terra proveniente dalla Palestina) e oggi questa sua aura “santa” appare un po’ appiattita dalle regole, dai rigori degli orari, dall’obbligo di unificare lapidi e vasetti, dalle dimensioni delle fotografie. Un altro esempio di globalizzazione che ci segue fino alla fine.

 

Nelle grandi città il cimitero è una micro-metropoli dei defunti, con le sue immagini fisse, i suoi percorsi delineati: il chiasso della auto in coda di là, oltre il muro, supera sbarramenti e limiti e grida voci di una vita strana, impossibile, fatta di fretta e di quel senso di immortalità di cui abbiamo detto.

Ancora diversa la realtà nelle piccole località, con il cimitero così vicino alla chiesa da esserne parte, oppure lontano, appartato, ma sempre ben visibile dal centro abitato.

 

Lì, il rumore tenue della natura sembra ricordare che la vita continua nel ritmo atavico del vento, della poggia e delle erbe spontanea che a primavera sorgeranno dal sonno greve imposto dal freddo; anche  il tempo pare rallentare quando percorri quei piccoli spazi dove trovi ancora lapidi dell’Ottocento che hanno qualcosa di archeologico. E poi le foto “virate seppia” e soprannomi scavati nella pietra che invocano l’immortalità della memoria.

 

Ma la spersonalizzazione che i grandi cimiteri cittadini impongono, sta un po’ stretta a molti di noi e ognuno si aggiusta come può per dare un alito di vita al proprio ricordo. Vicino alla tomba di mio padre, vi è quella di un ragazzino che i genitori coprono di piccoli peluche, sorprese Kinder, soldatini. La sua foto con un cagnolino in braccio commuove anche allo sconosciuto che scivola lento tra le lapidi. È un esempio, tra i tanti, della volontà di salvaguardare l’immagine dei silenziosi e per fare in modo che non siano però muti.

 

Nella notte tra il 1° e il 2 novembre, nelle nostre campagne, al nord come al sud, i nonni lasciavano castagne e vino sulle tavole delle cucine perché le anime dei morti venissero a banchettare. Nessuno lì ha mai visti e noi eravamo forse troppo piccoli per avere l’arroganza di verificare se castagne e vino fossero realmente scomparsi. Ma i morti continuavano così a essere un po’ vivi: forse c’entrava qualcosa con l’anima, ma per i bambini quello era un discorso ancora troppo difficile.

 

 

 

 

 

 

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Articolo pubblicato il 28/10/2021