Qualche considerazione Filosofica sull’Infinito di Leopardi.

di Alessandro Prever

 

La Poesia si apre con il richiamo  al colle e  alla siepe, che ha la funzione di nascondere gli interminati spazi e i sovrumani silenzi che il Poeta si immagina perché non li può davvero incontrare ne vedere.

Non a caso Leopardi dice chiaramente “io nel pensier mi fingo”.

Il Poeta, cioè immagina gli spazi immensi e i sovrumani silenzi di questi spazi, con un’angoscia di nulla e vuoto, determinata in ultimo dalla nascita del  nuovo metodo scientifico, e dal Cartesiano partire dal Cogito, che tende a diluire, l’importanza della alterità delle altre cose e di Dio rispetto al Pensiero Umano.

Si sente infatti, che gli infiniti spazi e i sovrumani silenzi che Leopardi tenta di afferrare nel suo pensiero sono quelli astratti della moderna scienza dominata dalla matematica (che tende però a ridurre al quantitativo tutte le qualità, perdendo la ricchezza delle determinazioni concrete).

Questo tentativo di inglobare la realtà in un pensiero in ultima analisi quantitativo, porta il Poeta verso uno sforzo interminabile e tragico e forse impossibile (almeno quando di tratta di raggiungere le grandezze infinite).

C’ è un passo dei Pensieri di Pascal, che ricorda, molto l’apertura dell’Infinito di Leopardi, in cui Pascal si chiede drammaticamente in che punto dell’universo si trova, e in che momento del tempo, intuendo benissimo che questo infinito matematico non può e non potrà mai sostituire Dio, perché è quantità ma non qualità, non Sostanza.

Di qui la tragicità di Pascal (che da grandissimo matematico del 600), deve interpretare il nuovo tempo determinato dall’inizio della scienza moderna.

Ma l’infinto di Leopardi, nella seconda parte ha un movimento opposto al primo, che lo allontana molto dal forte tragicismo dei Pensieri di Pascal.

E ‘ il vento e cioè un qualcosa di concreto, di determinato che viene comparato a “quello infinito silenzio”, ed e come se l’infinito silenzio, ma anche tutte le passate stagioni e la morte stessa, fossero abbracciate, avvolte dal Vento.

E l’infinito diventa l’indefinito, quell’infinito cioè, che possiamo cogliere fra le cose, che non si contrappone come astratto al concreto e al reale.

E’ convinzione delle tradizioni Mistiche che non coglieremo l’infinito proseguendo nel sempre di più e nel sempre più grande, perche tutte le cose, anche le più piccole e le più semplici hanno a che fare con l’infinito.

E così Leopardi può sostituire “io nel pensier mi fingo” che riportando tutto all’immaginazione e alla conoscenza umana, uccideva l’alterita’ delle cose concrete rispetto all’uomo, con “e mi sovvien l’eterno, e le morte stagioni e il suon di Lei”, dove il“sovvien”, rispetto al “mi fingo “ lascia ben aperta la dimensione dell’alterita’delle cose concrete.

I verbi s’annega e naufragar nell’ultimo verso, non a caso sono parole tipiche della mistica cristiana e islamica, del tutto inusuali  (con il senso di pace aperto da queste dimensioni) rispetto all’altra produzione di Leopardi essenzialmente tragica.

Leopardi usa queste parole per la prima e l’ultima volta anche nei Canti, come a concedersi un momento di pace mistica nella sua travagliata e tragica visione delle cose.

Ancora una cosa.

Forte e suggestivo mi pare il parallelo fra l’infinito di Leopardi e il Tractatus di Wittgenstein.

Anche Wittgenstein infatti, parte dal linguaggio matematico e scientifico e quando tenta di avvicinarsi a comprendere  con questo linguaggio le cose ultime (come l’infinito di Leopardi), getta via la scala perché capisce che non possono e non potranno mai essere colte con questi linguaggi ma solo nei grandi silenzi che ci provengono dalle tradizione mistiche.

 

 

 

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Articolo pubblicato il 22/12/2021