La «Torino noir» vista e narrata da Milo Julini

L'assurdo delitto di Capodanno 1984

«Il 1984, la sera di Capodanno, comincia sotto il segno del sangue» così su Stampa Sera scriverà Lorenzo del Boca nel suo articolo del 31 dicembre di quell’anno dove commenta i dodici mesi appena trascorsi (1).

Il fatto di sangue è avvenuto al semaforo di corso Orbassano che, al confine tra Mirafiori Nord e Mirafiori Sud, immette chi proviene da Orbassano nella piazza Riccardo Cattaneo, verso le 9:30 della sera di domenica 1° gennaio 1984.

Sulla periferica piazza, percorsa da rari e frettolosi passanti, è calata la nebbia e gli scarsi lampioni diffondono una luce fioca. Questa atmosfera potrebbe fare da sfondo a un film noir, ma l’omicidio che sta per avvenire è talmente assurdo da uscire da ogni schema narrativo.

I protagonisti del fatto di sangue sono un anziano commerciante, la vittima, e una giovane guardia notturna in uniforme che sta andando al lavoro, l’omicida.

Il loro fatale incontro al semaforo di corso Orbassano è del tutto casuale e, forse, non doveva neppure accadere. Come è giunto il commerciante all’appuntamento con la morte?

L’ucciso è Sergio Vittore, di 60 anni da poco compiuti, proprietario di un negozio di elettrodomestici in via Chiesa della Salute n. 9, dove ha anche il suo alloggio. Sergio sta pensando di ritirarsi dal commercio e, dopo lunghi anni di lavoro, sogna una vita tranquilla.

Nella serata di Capodanno sta viaggiando sulla sua Ritmo di colore blu elettrico, insieme alla moglie Lucetta Cernusco e alla giovane figlia Loredana, insegnante. Stanno rientrando dal Sestriere dove sono andati per aiutare il figlio Roberto, di 25 anni, che di recente ha aperto una discoteca a Borgata. Con lui hanno riordinato il locale dopo il veglione di San Silvestro. Al momento della partenza il figlio ha insistito perché i familiari trascorressero la notte a Sestriere, ma il padre Sergio, abitudinario e poco incline a stare fuori casa, ha preferito rientrare, senza preoccuparsi della nebbia che stava calando.

Tra Orbassano e Torino, una A112 tenta una prima volta di superare la Ritmo dei Vittore, senza riuscirsi. Ci riprova poco dopo con successo, grazie a una manovra azzardata. Sergio Vittore sente un urto, ritiene che la fiancata sinistra della sua auto sia stata leggermente urtata e segnala più volte con gli abbaglianti al conducente dell’A112 di fermarsi.

Al semaforo rosso di piazza Cattaneo, l’A112 è costretta a fermarsi. Sergio Vittore si ferma a sua volta, scende per verificare eventuali danni. Il conducente dell’A112 apre la portiera urlando insulti. È la guardia giurata Roberto Mercurio, di 24 anni. Indossa l’uniforme e sta andando al lavoro. Appare furente, urla a Sergio Vittore «Vecchio, che cosa vuoi?» Sergio lo prende per il bavero, gli ribatte: «Potresti essere mio figlio, smettila». Ne nasce una colluttazione, il giovane strappa l’orologio dal polso di Sergio e lo getta lontano. Dalla Ritmo, Loredana grida per attirare l’attenzione dei passanti, poi, quando nessuno si ferma, scende e si avvicina a Mercurio.

Gli automobilisti di passaggio sfrecciano via. L’alterco è isolato nel traffico che continua a scorrere. Si radunano alcuni curiosi che però presto si dileguano nella notte. Un tale interviene per tentare di separare i contendenti, ma sparisce anche lui quando compare la pistola di Roberto Mercurio.

La guardia giurata, infatti, si è improvvisamente ammutolita, ha aperto il giubbotto e impugnato la sua 357 Magnum. La punta alla tempia di Sergio. Il rumore delle auto attutisce appena il «No, non farlo» mormorato dal commerciante. Mercurio spara e Sergio Vittore crolla sull’asfalto.

Loredana si avventa su Mercurio che continua a impugnare l’arma: «Che cosa hai fatto, l’hai ammazzato!». Lui risponde «Ho la pistola, sono una guardia giurata», poi scoppia in pianto, chiede scusa e si allontana a piedi.

Loredana avvolge con una sciarpa il capo del padre, tenta un massaggio cardiaco. La madre, intanto, si sbraccia per fermare un’auto. Grida, implora, impreca. Gli automobilisti sfrecciano gettando sguardi curiosi, nessuno si ferma. Minuti preziosi volano prima di trovare un telefono e far giungere un’ambulanza. Nel 1984 i telefoni cellulari non sono ancora diffusi e, per telefonare in luoghi aperti, occorre ancora una cabina telefonica (2).

Finalmente Sergio Vittore viene trasportato all’Ospedale Mauriziano, dove giunge moribondo, col proiettile conficcato nella fronte.

Nel frattempo, la Polizia è stata avvertita. Mercurio viene arrestato dagli agenti poco lontano dal semaforo mentre vaga a piedi rasente i muri, guardandosi attorno stranito con gli occhi gonfi di lacrime, la pistola ancora in pugno. Ai poliziotti dice «Non ho fatto niente, non ho sparato».

In Questura piange per tutta la notte. Mercurio vive coi genitori, a Orbassano. Da tre anni lavora per un noto Istituto di vigilanza privata torinese. Svolge il servizio dalle 21:00 alle 07:00 del mattino, un orario che lo ha esaurito e stressato, tanto da indurlo a cercare invano un nuovo lavoro e a chiedere ai superiori un turno diurno. In quel periodo è anche indaffarato perché alla vigilia delle nozze in chiesa con la fidanzata Nardina, di 19 anni, previste per il 15 gennaio di quell’anno. Subito dopo aver ucciso, ha detto a Loredana «Mi avete rovinato», forse alludendo al fatto che la follia di un attimo ha distrutto il suo mondo.

Appare evidente lo stretto legame affettivo di Mercurio coi genitori e soprattutto con la fidanzata e la situazione di tensione venutasi a creare a causa dell’insensibilità dell’Istituto di vigilanza nei confronti dei certificati medici da lui prodotti.

Le iniziative della vedova di Sergio Vittore, Lucetta, vanno in questa direzione. Sulla saracinesca abbassata del loro negozio viene esposto questo polemico biglietto: «Sergio Vittore è deceduto ucciso da un folle pazzo armato dai suoi superiori per salvaguardare la vita dei cittadini».

Lucetta viene intervistata dal cronista de La Stampa Renato Rizzo e spiega che il marito è stato «giustiziato come un animale al macello» dalla guardia giurata. L’intervista si conclude con polemiche domande: «Dicono che quel ragazzo era stanco e stressato, dicono che lavorava troppo, che, da tempo, era teso e nervoso. Ma si può uccidere per un sorpasso? Mio marito era anziano e invalido, sarebbe bastato uno spintone per gettarlo a terra. E, poi. È giusto dare una pistola a una persona che non ha i nervi saldi? È giusto esporre la gente a un pericolo così grave?» (3).

Il foglietto esposto sulla saracinesca del negozio e queste domande di Lucetta Vittore hanno colto il punto saliente di questo assurdo delitto di Capodanno 1984. Una persona che si è rivelata psichicamente inaffidabile ha ricevuto in consegna una micidiale pistola dal suo datore di lavoro.

A quasi quarant’anni di distanza è opportuno contestualizzare questo caso.

Siamo sul finire degli anni di piombo e si sono verificati fenomeni sociali che il professor Michele Di Giorgio, specialista di storia della Polizia italiana, così spiega magistralmente:

 

La criminalità, il clima sociale turbolento e l’inefficienza delle forze dell’ordine (molti dei reati commessi restavano impuniti) generarono nella parte più abbiente del paese, oltre ad una certa sfiducia nei confronti degli apparati di polizia, un ricorso diffuso a forme private di controllo, di sicurezza e di difesa. Proprio in questo decennio [gli anni Settanta, N.d.A.] infatti sia la domanda che l’offerta di una sicurezza privata iniziarono a crescere in maniera rapida. Si assistette a un’espansione del mercato: dagli accessori più o meno costosi (cancelli automatici, allarmi, porte e vetri blindati, cani da difesa, armi), fino ai corsi di autodifesa e alle arti marziali. Si rafforzò e si moltiplicò l’offerta di forme private di protezione personale come l’utilizzo di guardie del corpo, tanto che al tempo ebbe una certa fortuna il termine gorilla per indicare i guardaspalle; si parlò addirittura dei gorilla come un “genere di consumo” per le classi benestanti. Anche il settore della vigilanza a pagamento conobbe una crescita intensa: sorsero e si svilupparono vere e proprie polizie private da impiegare nel controllo di zone residenziali o nella sorveglianza di attività commerciali (4).

 

L’idea di questo tipo di autodifesa è invisa alla cultura di sinistra. Si diffondono termini sprezzanti come gorilla, vigilantes, sceriffo, giustiziere. Si ironizza col film commedia del 1975, Di che segno sei?, diretto da Sergio Corbucci, dove Alberto Sordi nel quarto episodio, Fuoco, riesuma il personaggio di Nando Mericoni, l’americano a Roma, nel ruolo di una guardia del corpo arrogante e inaffidabile.

Ma, di fronte all’omicidio del gennaio del 1884, le polemiche assumono una particolare rilevanza. Un cronista di Stampa Sera, Alberto Gaino, intervista un dirigente sindacale del settore vigilanza per avere un quadro della situazione.

L’impostazione è sempre astiosa, come appare dal titolo Questi sceriffi con il pistolone, ma le critiche maggiori colpiscono le agenzie di vigilanza per la loro interessata gestione del personale, che può portare a «lasciare in servizio un giovane in evidenti condizioni psichiche precarie» (5).

Si compie intanto la veloce istruttoria del processo a Mercurio, dichiarato seminfermo di mente da una perizia psichiatrica. È escluso che il colpo sia partito per sbaglio, come lui dichiara inizialmente: la 357 Magnum non è arma che consenta questo tipo di incidenti.

Non si è presentato nessun testimone oculare. La ricostruzione dei fatti può avvenire solo sulla base delle contrapposte dichiarazioni di coloro che sono coinvolti nella tragedia. Mercurio è rinviato a giudizio dopo solo due mesi, con l’accusa di omicidio volontario aggravato da futili motivi.

Il processo si svolge alla Corte d’Assise di Torino il 17 aprile dello stesso anno: quasi un record, visti i tempi della Giustizia.

Mercurio si presenta in aula prostrato e, al mattino, non riesce a rispondere alle domande del Presidente. Al pomeriggio, dopo essere stato visitato da un medico legale per stabilire se sia in grado di assistere al dibattimento, farfuglia di non ricordare nulla di quella sera.

In mancanza di testimoni oculari, al dibattimento si contrappongono le ricostruzioni della vicenda.

Il Pubblico Ministero parla di «società nevrotica» e chiede la condanna a diciotto anni di carcere.

La difesa di Mercurio, sostenuta dagli avvocati Geo Dal Fiume e Gribaudi, insiste sull’aggressività degli automobilisti, superiore alla norma, poi enfatizza quella che la famiglia Vittore ha mostrato verso Mercurio: una provocazione insistente che ha mandato in corto circuito la sua mente malata, scatenandone la reazione omicida. Secondo il difensore, Mercurio, in carcere, ha esasperato il suo senso di colpa e, se condannato ai diciotto anni chiesti dal Pubblico Ministero, la sua mente potrebbe non essere più in grado di recuperare la ragione.

Il 18 aprile, la Corte d’Assise concede a Mercurio l’attenuante della seminfermità e lo condanna a sedici anni di carcere più tre anni di casa di cura.

Si conclude così la nostra ricostruzione di questo tragico episodio di cronaca nera cittadina, basata sulle informazioni fornite dai quotidiani torinesi dell’epoca dai quali non abbiamo riscontrato successive informazioni relative ai protagonisti.  

 

Note

(1) Lorenzo Del Boca, Dodici mesi di violenze e sparatorie. Catena di omicidi firmati dalla mafia, Stampa Sera, 31 dicembre 1984.

(2) Nel 1983, la Motorola ha messo in commercio un modello dal costo di € 3.000, prezzo elevato che lo circoscrive a persone facoltose.

(3) Renato Rizzo, Il barbaro delitto di domenica sera in corso Orbassano dopo la lite per un sorpasso. «Ucciso come un animale al macello», La Stampa, 3 gennaio 1984.

(4) Michele Di Giorgio, Appunti sulla storia di polizie, democrazia e sicurezza in Italia.

(5) Alberto Gaino, Questi sceriffi con il pistolone, Stampa Sera, 3 gennaio 1984.

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Articolo pubblicato il 01/01/2022