
Un racconto a testimonianza della voglia di conservare le tradizioni, piuttosto che essere asserviti ai diktat originati dal Covid-19
In questi ultimi anni sono sempre volato a Parigi partendo da Bologna o da Genova. Aeroporti piccoli, facili da raggiungere, senza lunghe file per la consegna dei bagagli o per i controlli. Quello di Genova sembra addirittura una stazione degli autobus, sul mare.
A Natale per il covid 19 hanno annullato tutti i voli da queste due città e per volare sono dovuto andare sino a Malpensa, ma a Pasqua Bologna riapre e io ora mi immedesimo in un reporter di guerra.
Ho in mente un’azione da commando giornalistico che potrebbe suscitare ostilità, anche se il suo motore è l’empatia, la condivisione di un’esperienza di viaggio. Viaggio e quindi sono umano, si potrebbe dire.
Che siamo in guerra lo conferma anche un ‘nota bene’ sul sito dell’ambasciata francese: “A causa della circolazione attiva del virus covid 19 e di tutte le sue varianti, è necessario imporre una stretta agli spostamenti per rallentare il progredire dell’epidemia nel mondo. Per tale ragione tutti gli spostamenti internazionali dall’estero verso la Francia e dalla Francia verso l’estero sono totalmente e rigorosamente sconsigliati sino a nuovo ordine.” Non vivamente, ma totalmente e rigorosamente. A un passo dal divieto. Guerra.
Ma nonostante questo avviso noi ci siamo. Abbiamo eseguito il nostro tampone molecolare il cui esito negativo abbiamo esibito in formato cartaceo o elettronico, ci togliamo la mascherina solo per bere un sorso d’acqua, aspettiamo silenziosi e ordinati in abiti civili al gate da cui ci daranno il via libero per l’imbarco. Diamo qualche pacca di conforto ai bagagli da cabina o ai bambini se per caso ci sono.
Perché nonostante il covid 19 e le sue temibili varianti, perché nonostante la massiccia campagna di informazione contraria, perché nonostante il manifesto bellico dell’ambasciata, perché nonostante i fastidiosi controlli sanitari e burocratici, prima e dopo, perché nonostante il periodo di quarantena inserito all’ultimo momento e un ulteriore tampone, abbiamo deciso di ritrovarci tutti quanti per volare a Parigi? Eccola, la mia stupida inchiesta.
Conobbi Gilles (nome inventato) durante una vacanza a Tolosa. Oltre a essere un pilota Air France, era istruttore nel campo volo della sua città dove aveva preso il brevetto. La città si gira in fretta e nel pacchetto speciale dell’hotel era prevista l’esperienza del volo: Tolosa città dell’aeronautica e dello Spazio. Durante la mia prima escursione fra le nuvole ebbi una potente crisi di panico. Un po’ il brutto periodo, un po’ le vertigini.
Quando tornammo a terra confessai a Gilles nel mio cattivo francese che la mia predilezione andava piuttosto ai voli pindarici. Non sembrò afferrasse la battuta, ma qualche mese dopo su Facebook, a commento di una mia poesia sull’inesorabilità del destino, ce n’era una sua su Saint-Exupery: “il disparut sous le blanc masque de la mer...” e subito sotto in italiano “picchiata di Tolosa” con un emoticon sorridente. Scriveva poesie, dunque, e non solo su eroici piloti. Diventammo amici.
So da Gilles che sarà il pilota del volo AF1317 (codice fittizio) da Bologna a Parigi. Dice tre o quattro volte che non può assolutamente permettermelo, ma alla fine cede. La forza della poesia. Mi introdurrà con la sua voce professionale dalla cabina di pilotaggio.
Le autocertificazioni da compilare per la compagnia aerea e per la dogana sono obbligatorie, il mio questionario è facoltativo, comunica ai passeggeri. Non aggiunge altro, non fornisce dettagli ed è già tanto che me lo permetta. Dopo il decollo passo nel corridoio e distribuisco i miei fogli ai viaggiatori delle poltrone di destra e sinistra. Svolgo un servizio da steward, ma mi sento piuttosto come quei poveri venditori che passano tra i tavoli del ristorante e lasciano vicino al piatto un aggeggino che fa luce o un animaletto che fa sì con la testa, per poi tornare a riscuotere una piccola offerta se qualcuno l’ha lasciata al posto della carabattola.
Ma non si stupiscono più di niente. Obbediscono e basta. Se dicono loro di scrivere, lo fanno senza porsi troppe domande. Non mi ringraziano certo per la nuova incombenza, ma neppure sbuffano o protestano. Ricevono il foglio dalle mie mani e lo aggiungono agli altri da compilare. Seccature inevitabili a cui sottoporsi se vogliono raggiungere la meta. Io invece passando cerco di imprimere i loro volti nella mia mente, un’acconciatura, un maglione colorato, il cappellino, gli occhiali. Alla fine so già che non resisterò a ricollegare le risposte a qualcuna di queste persone che come me stanno viaggiando verso Parigi.
Al Charles De Gaulle scendono tutti dopo aver lasciato le loro dichiarazioni nelle mani delle hostess che li salutano e augurano una buona permanenza. Io rimango. Gilles divide il protocollare dal facoltativo e mi restituisce il mio fascicoletto di carte. “E dietro le venìa sì lunga tratta di gente ch’io non avrei creduto che morte tanta n’avesse disfatta”, recita Gilles. Questa l’ha preparata, sicuro. Sorrido per l’accento francese. “Anno dantesco. Profetico, vero?”, aggiunge, ma poi mi invita a scendere in fretta, solo il tempo di nascondere i documenti illegali nello zainetto. “Ci troviamo su Facebook”, gli sussurro.
Questionario distribuito sul volo AF1317 (sigla arbitraria) e redatto in francese, inglese e italiano (non voglio essere pedante e per comodità riporto qui le domande e le risposte già tradotte in italiano):
- sesso maschile o femminile
- età
- cittadinanza
- non occorre assolutamente scrivere nome e cognome
- rispondere alla seguente domanda: nonostante l’ambasciata francese quasi lo proibisse, nonostante gli esami medici a cui ha dovuto sottoporsi prima di partire, nonostante quelli a cui dovrà sottoporsi se tornerà in Italia, nonostante le ultime misure restrittive previste dal governo francese, perché ha deciso di partire? Quali sono dunque le motivazioni personali che la spingono a raggiungere Parigi?
(Lo spazio vuoto su cui poter scrivere occupa mezzo foglio)
L’aereo era pieno zeppo. 174 passeggeri. In 152 hanno risposto al mio questionario facoltativo. Non male. In 127 casi l’ampio spazio vuoto è stato però riempito da una o due parole: motivi personali, famigliari, notarili, lavoro, ricongiungimento… nessuno ha scritto vacanza. Qualcuno, aggiungendo un po’ di più, dice che deve tornare dagli anziani genitori che si sono ammalati anche se non di covid 19, qualcuno che dopo molti mesi deve rivedere una figlia che non se la passa molto bene finanziariamente, perché anche a Parigi molti esercizi sono chiusi e la crisi è dietro l’angolo. Uno invece mi scrive che è tornato in Italia perché deve aprire una pizzeria a Parigi con i figli e voleva controllare di persona la qualità delle mozzarelle che deve importare. Non si fida delle ordinazioni on line. Basta, non vorrei annoiare. Ma una risposta, estesa, la vorrei proprio riportare integralmente, perché mi ha colpito. Al cuore.
“Io sono metà italiana e metà francese. Sono cristiana, ma là ho vecchi parenti ebrei. Ogni anno per la primavera ci riuniamo al Parc Villemin, davanti a una stele che ricorda i bambini che sono stati deportati e sterminati nei lager nazisti. Li arrestava la polizia collaborazionista di Vichy. In totale furono 11.000, se non sbaglio. Nel decimo (arrondissement) furono presi in più di 700. C’era anche il mio cuginetto che aveva 4 anni. Secondo voi perché c’è la pandemia io devo mancare al mio appuntamento? Staremo ben distanziati e con la mascherina, ma ci terremo per mano e formeremo un cerchio. Ricorderemo.”
E così una volta arrivato a Parigi ho trovato il modo di arrivare anch’io al Parc Villemin, pieno di fiori, alberi di ogni tipo e di bambini chiassosi che per fortuna giocavano nell’erba. Ho visto la stele che in realtà sono due. In una c’è scritto che 75 ‘tout-petits’ furono strappati alle famiglie e morirono senza sepoltura. Nell’altra ci sono i nomi e la loro età. Il più grande aveva 6 anni, i più piccoli, due gemelle, 28 giorni. Di bimbi di 4 anni ne sono segnati diversi: chissà chi sarà stato il cuginetto della signora.
Ecco, in questo periodo di restrizioni e sorveglianza, magari si può viaggiare non per disobbedire alle norme vigenti, ma perché ci sono degli impegni affettivi non procrastinabili, che non riguardano solo il presente e i suoi affetti, ma anche il passato: si può e si deve ancora viaggiare per tornare sui luoghi della barbarie, per non dimenticare quello che è successo, per fare cerchio intorno ai morti e tramandare la loro sofferenza.
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Articolo pubblicato il 31/12/2021