Variante Bizantina 2022?
Il Quirinale

di Aldo A. Mola

L’ombra lunga di Bisanzio...

Narrano le cronache che mentre erano assediati da Maometto II i Bizantini disputavano sul sesso degli Angeli. Il 29 maggio 1453 l’antica Costantinopoli venne espugnata. In nome del loro dio clemente e misericordioso i turchi menarono l’orribile strage narrata con enfasi poetica da Tursun Bey.

L’ultimo imperatore della Seconda Roma, la sua famiglia, i difensori e i notabili furono sterminati. Il sultano ordinò che i popolani “fossero lasciato vivi per essere sfruttati per lavoro”. All’apice del racconto il cronista osservò: “Al mondo Iddio ha creato con la sua Potenza la gemma più bella, lo strumento della ragione.  Come fa il re giudizioso a sottrarsene?”.

Maometto II “ragionò” e vinse. L’imperatore no; e fu spazzato via. I turchi continuarono ad avanzare: Atene (1458), Trebisonda (1461), l’Albania (1478), invano difesa dal valoroso Giorgio Castriota, “Scanderbeg”. All’indomani della Grande Guerra, divisi su tutto tranne che nel rifiuto di accesso della Russia al Mediterraneo, i vincitori lasciarono Bisanzio alla Turchia, che continuano a dominare “Cospoli” e ora la islamizzano a tappe forzate, nel silenzio di un’Europa più strabica che distratta quando è l’ora del coraggio.

Nel timore di far la fine di Bisanzio, nel 1454 i cinque Stati all’epoca prevalenti in Italia (Venezia, Milano, Firenze, Roma e Napoli) concordarono a Lodi una “pace” minata alla radice da riserve mentali, diffidenza, calcoli spacciati come astuzie. Nel 1480 i turchi assalirono Otranto e ne martirizzarono la popolazione. Avvolti nei sontuosi anni del Rinascimento, i Principi italioti continuarono a battere l’antica strada, lastricata di divisioni, congiure, lotte intestine, sino a quando il re di Francia Carlo VIII di Valois invase la penisola e in pochi mesi giunse a Napoli, accolto quale “liberatore” da nobili e plebei che (annotarono i cronisti) quando non arrivavano a baciargli la mano o i piedi baciavano la terra ove passava.

La “politica” sopraffina era il “sesso degli Angeli” dell’Italia dell’epoca. Ammirata e soggiogata, studiata e “messa all’indice”, come accadde a Niccolò Machiavelli.

 

…si allunga sino al Colle più alto?

Le dispute che da mesi infervorano le cronache partitico-parlamentari rievocano quei tempi andati. A ormai poche settimane dall’elezione del presidente della Repubblica divampa il dibattito più inattuale del mondo: se non sarebbe meglio che il capo dello Stato fosse eletto direttamente dai cittadini anziché dal migliaio di parlamentari e di delegati delle regioni che tra un mese affollerà l’Aula di Montecitorio. Anziché essere ignorato per manifesto anacronismo, il quesito vede scendere in campo costituzionalisti (come Gustavo Zagrebelsky) e docenti di dottrina politica, “provocati” dalla bislacca ipotesi di installare al Quirinale una personalità capace di pilotare velatamente il governo tramite un suo diadoco, così instaurando un presidenzialismo “di fatto” a scapito dell’equilibrio dei poteri previsto dalla Costituzione vigente.

Destinato a durare e forse a incattivirsi, il dibattito richiede qualche attenzione di merito e di metodo perché mette a nudo la crisi di sistema che investe le istituzioni, sia nei loro princìpi cardinali sia, persino, nei dettagli della votazione destinata a calamitare i telespettatori più del festival di Sanremo o del mondiale di calcio. Bastino le elucubrazioni sulla “cabina” attraverso la quale, salvo diversa decisione del presidente Roberto Fico, passeranno i “grandi elettori” per scrivere la scheda (e magari, si sospetta, fotografarla col cellulare).

 

Come i Costituenti tagliarono i panni del Presidente

Premesso che sic stantibus rebus l’elezione è dettata dalla Carta costituzionale, giova ricordare come il 21 e 22 ottobre 1947, 75 anni addietro, l’Assemblea Costituente discusse e definì gli articoli 83-91 che configurano il Presidente della Repubblica. La forma dello Stato era stata decisa col referendum del 2-3 giugno 1946. La Repubblica aveva ottenuto circa 12.700.000 suffragi su 28.000.000 di aventi diritto al voto: una minoranza, dunque. Ma la monarchia ne aveva raccolti due milioni di meno. Alle 0.15 del 13 giugno la contesa fu risolta non nel rispetto della legge, incarnata dalla Corte suprema di cassazione, ma con un “atto politico”: il conferimento delle funzioni di capo dello Stato al presidente del Consiglio, Alcide De Gasperi, da parte del governo, con il voto contrario del solo ministro Leone Cattani.

Umberto II rispose al “gesto rivoluzionario” lasciando l’Italia da Re. L’imposizione del trattato di pace (10 febbraio 1947), la sua approvazione da parte dell’Assemblea Costituente (con soli 262 voti favorevoli su 555: una minoranza) e la sua esecuzione fissarono la cornice entro la quale la Costituente doveva tracciare il triangolo dei poteri: il legislativo (le Camere), l’esecutivo (il governo) e il presidente della Repubblica. È appena il caso di ricordare, per inciso, che la Magistratura non è un “potere” ma un “ordine autonomo e indipendente” (art. 104 della Costituzione), soggetto soltanto alle leggi e demandato ad amministrare la giustizia in nome del popolo” (art. 101).

Alla definizione del profilo del Capo dello Stato anche i più repubblicani d’Italia giunsero senza una visione maturata e condivisa nel tempo. Colpisce che non se ne trovi cenno nelle due “Basi programmatiche” del Partito d’Azione. 

Il dibattito in seno alla Commissione dei Settantacinque, incaricata di approntare la bozza della Carta, e in Aula scartò la proposta di elezione popolare diretta del presidente. Questa venne propugnata da Umberto Nobile, che propose di affiancargli un Consiglio supremo della repubblica. A sua volta l’autorevole costituzionalista Costantino Mortati propose un’elezione di tipo misto di secondo grado, con la partecipazione di parlamentari e di rappresentanti delle forze sociali (eco del corporativismo caro ad Amintore Fanfani).

A favore dell’elezione popolare si schierarono anche i deputati Roberto Lucifero, Francesco Colitto e Ottavio Mastrojanni per “tenere il Presidente al di fuori dei partiti e al di sopra delle fazioni”. A sostegno dell’elezione popolare diretta si pronunciarono inoltre Francesco Maria Dominedò, Romano e Guido Russo Perez. Francesco De Vita avvertì che solo a quel modo gli sarebbe stata assicurata l’«indipendenza necessaria all’esercizio di funzioni gravi, come lo scioglimento delle Camere».

A lungo venne dibattuta la sua durata in carica. Alcuni proposero sei anni, altri cinque. Reduce da lungo auto-esilio a Parigi, Francesco Saverio Nitti esortò ad adottare il modello degli Stati Uniti d’America: quattro anni, con rieleggibilità. La brevità doveva «dargli la sensazione che il suo ufficio non è duraturo, perché soltanto questa sensazione lo avvicina alla realtà».

Gli venne però fatto osservare che negli USA il presidente, eletto con suffragio diretto, è anche capo dell’esecutivo, mentre in Italia la sua durata in carica doveva essere diversificata da quella delle Camere proprio per rafforzarne l’indipendenza dai suoi elettori e soddisfare «l’esigenza di una certa permanenza, di una certa continuità nell’esercizio delle pubbliche funzioni».

Lo ammettessero o meno, i costituenti riecheggiavano lo Statuto emanato il 4 marzo 1848 da Carlo Alberto di Savoia-Carignano, re di Sardegna, poi fatto proprio dal regno d’Italia (14-17 marzo 1861). Lo si constatò quando venne discusso l’articolo 87 della Carta, che suona: «Il Presidente della repubblica è il capo dello Stato e rappresenta l’unità nazionale». Lo Statuto diceva: «Il Re è il Capo supremo dello Stato». La nazione era appena sull’orizzonte.

 

Ruini e i suoi Fratelli

Bartolomeo (Meuccio) Ruini, presidente della Commissione dei Settantacinque, nella Relazione di presentazione alla Costituente della bozza della Carta repubblicana delineò il profilo del presidente: «Non è l’evanescente personaggio, il motivo di pura decorazione, il maestro di cerimonie che si volle vedere in altre costituzioni. Mentre il primo ministro è il capo della maggioranza e dell’esecutivo, il Presidente della Repubblica ha funzioni diverse, che si prestano meno ad una definizione giuridica di poteri.

Egli rappresenta ed impersona l’unità e la continuità nazionale, la forza permanente dello Stato, al di sopra delle fuggevoli maggioranze». Il Capo dello Stato è, deve essere, «il grande consigliere, il magistrato di persuasione e di influenza, il coordinatore di attività, il capo spirituale, più ancora che temporale, della Repubblica. Ma perché possa adempiere queste funzioni essenziali – concluse Ruini – deve avere consistenza e solidità di posizione nel sistema costituzionale». Come già il Re, anche il presidente doveva fungere da Pontifex   e Sommo Sacerdote.

Affiliato massone nella loggia “Rienzi” di Roma il 5 maggio 1901, Ruini (Reggio Emilia, 14 dicembre 1877 - Roma, 6 marzo 1970) aveva alle spalle una lunga militanza politica e culturale. Avvocato, deputato dal 1913, volontario e decorato nella Grande Guerra, sottosegretario al Lavoro nel governo presieduto da Vittorio Emanuele Orlando (1917-1919), ministro delle Colonie con Nitti, promotore dell’Unione nazionale per la Nuova Democrazia, nel 1943 fondò il Partito democratico del lavoro, con Ivanoe Bonomi e altri maggiorenti formati nel solco delle riflessioni di Domizio Torrigiani, gran maestro del Grande Oriente d’Italia, per ricostruire il Paese dopo il trauma della guerra e arginare gli opposti estremismi: il bolscevismo e il fascismo.

Ministro senza portafoglio nel primo governo Bonomi (1944) e per la Ricostruzione in quello presieduto da Ferruccio Parri (1945), deputato alla Costituente, senatore di diritto nel 1948, nel 1953 presiedette il Senato durante la violentissima discussione della riforma elettorale che avrebbe garantito la stabilità del governo ma venne spacciata e combattuta come “legge truffa”. In quell’occasione fu persino bersaglio di oggetti scagliati dalle sinistre. In perfetta coerenza con la sua storia, Ruini presiedette il Consiglio nazionale dell’Economia e del Lavoro (CNEL), poi ridotto a ectoplasma da tracotanti interessi di parte.

«Il capo dello Stato non governa – aggiunse Ruini nella Relazione ai costituenti- . La responsabilità dei suoi atti è assunta dal primo ministro e dai ministri che li controfirmano ma le attribuzioni che gli sono specificamene conferite dalla Costituzione e tutte le altre che rientrano nei suoi compiti generali gli dànno infinite occasioni di esercitare la missione di equilibrio e di coordinamento che gli è propria».

 

L’eredità dello Statuto albertino

 Mutatis mutandis il nuovo capo dello Stato era la “variante repubblicana” del re costituzionale, quale, più ancora del padre e del nonno, era stato Vittorio Emanuele III, vincolato a controfirmare le leggi votate dal Parlamento. Per meglio assicurarne la libertà, i costituenti aggiunsero però che «prima di promulgare la legge» il Presidente possa «con messaggio motivato alle Camere chiedere una nuova deliberazione». Ma, «se le Camere approvano nuovamente la legge, questa deve essere promulgata». A tale proposito non è superfluo ricordare il dramma vissuto nell’autunno 1938 da Vittorio Emanuele III, privo di qualunque appiglio statutario per disinnescare leggi ai suoi occhi disgustose, ma approvate dal Parlamento.

Vittorio Emanuele Orlando deplorò che se nel regime monarchico il sovrano era un “Re travicello” in quello repubblicano il presidente «non rappresentava più nulla». Gli era stata sottratta l’“iniziativa legislativa”, prevista dal rimpianto Statuto albertino. «Ora, – osservò Orlando – nell’iniziativa si afferma per di più la natura giuridica del capo dello Stato e si giustifica l’intervento dell’autorità di esso come di colui che, stando al vertice della vita di un popolo, deve avere la sensibilità più acuta e più pronta di un bisogno nel campo della politica, del diritto, dell’economia di un Paese».

Molti altri erano però i problemi non risolti dalla Costituente. In particolare il comando delle Forze Armate. Al riguardo lo Statuto Albertino era chiaro: il re «comanda tutte le forze di terra e di mare; dichiara la guerra; fa i trattati di pace, d’alleanza, di commercio ed altri...”. I costituenti ribadirono che il presidente della Repubblica «ha il comando delle forze armate, presiede il consiglio supremo di difesa costituito secondo la legge, e dichiara lo stato di guerra deliberato dalle Camere», correttivo quest’ultimo introdotto molto tardivamente rispetto alla proposta avanzata da Giovanni Giolitti nel 1919 di trasferire dal re al Parlamento (non all’esecutivo ma al legislativo) il potere di dichiarare guerra. Solo Francesco Cossiga volle che fosse sciolto l’interrogativo sul comando effettivo in caso di conflitto.

Infine non va scordato l’articolo 90 della Carta, in forza del quale «il Presidente della Repubblica non è responsabile degli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni, tranne che per alto tradimento o per attentato alla Costituzione»: un capo d’accusa usato da una fazione proprio contro Cossiga.

Lo Statuto prevedeva, invece, che il re si trovasse «nella fisica impossibilità di regnare» (perché inguaribilmente ammalato, caduto prigioniero...): una condizione ricalcata dalla Carta repubblicana, il cui articolo 86 recita: «Le funzioni del Presidente della Repubblica, in ogni caso che egli non possa adempierle, sono esercitate dal Presidente del Senato».

È quanto accadde allorché Cesare Merzagora esercitò con pieno merito la lunga supplenza di Antonio Segni. «In caso di impedimento permanente, di morte o di dimissioni del Presidente della Repubblica, il Presidente della Camera indice le elezioni del nuovo presidente della Repubblica entro quindici giorni, salvo il maggiore termine previsto se le Camere sono sciolte o manca meno di tre mesi alla loro cessazione»: un groviglio che impegnò in una spossante discussione i costituenti, assillati dall’incubo del Presidente-Sovrano, di un Capo dello Stato abilitato a impedire la confisca della politica da parte dei “partiti” che, per definizione, sono “fazioni”, basate su ideologie, dottrine o persino “filosofie” e magari anche “teologie”, cosmogonie e altre fantasie più o meno utili a provvedere ai bisogni quotidiani di milioni di persone che però votano sempre meno perché si sentono privati della sovranità vera: la libera scelta dei rappresentanti anziché la ratifica di candidati imposti da congreghe di potere.

Mala tempora currunt

Nel 2022 non figurano dunque “all’ordine del giorno” le modalità di elezione del presidente della Repubblica. Esse sono quelle che sono e, al pari dei poteri del Capo dello Stato, non vengono certo cambiate “in corsa” né, tanto meno, da un Parlamento agonizzante qual è l’attuale. Le Camere talora lamentano di avere poco spazio per la discussione di leggi importanti, ma hanno sciupato mesi in dibattiti futili ed essersi fatte esautorare su questioni fondamentali, come le misure sulla sanità pubblica e le discusse limitazioni delle libertà costituzionali.

Nondimeno questo Parlamento qualcosa di memorabile ha fatto: in un raptus “alla Origene” ha approvato quasi all’unanimità il drastico “taglio” dei componenti delle Camere venture. I problemi incombenti sono immensi. Lontanissimi dalla piccola gara fra i tre o quattro partiti che si disputano la palma di chi primeggi con un misero 20% dei voti di quel 60% di cittadini che ancora si recano alle urne.

Uscita rovinosamente sconfitta dalla guerra del 1940-1945, completa di atroce guerra civile, per la saggezza di alcuni suoi “Maggiori” l’Italia odierna è a sovranità limitata e quindi non corre soverchi rischi. Però, come nel passato, può farsi e si fa molto male da sé. Per esempio continuando a discutere sul sesso degli angeli mentre servirebbe l’Arcangelo Michele con la spada fiammeggiante.

Non è più tempo di bizantinismi ma di concretezza, per dimostrare la consistenza del regime instaurato dalla Costituente. L’alternativa è una Costituente nuova, che richiede tempo, pazienza e competenze: non proposte infantili, come il conferimento del diritto di voto ai sedicenni e l’identità dei corpi elettorali delle due Camere, in barba alla auspicata differenziazione delle loro funzioni.

Aldo A. Mola

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Articolo pubblicato il 02/01/2022