
Il governo dei “migliori”
Presupposto concettuale per comprendere la critica di Platone nei confronti della democrazia è dato dall’idea stessa di governo. Per Platone governare è un’arte, proprio come lo è la medicina.
Il filosofo utilizza spesso l’esempio del medico affermando che il malato non può che farsi assistere da una persona professionalmente adatta e dalle conoscenze assodate. Lo stesso varrebbe per l’arte del governare: così come pochi sono adatti alla professione medica, allo stesso modo pochi hanno la giusta attitudine per gestire la “cosa pubblica”.
Con queste premesse è più facile spiegarsi la distanza che separa Platone dalla democrazia. Secondo il filosofo greco, questa non è altro che il governo delle masse, e quindi degli ignoranti che non hanno alcuna conoscenza. Affidare a loro la cosa pubblica significa attribuire un potere immenso a chi non ha le capacità per gestirlo.
Il rischio di questa situazione è sempre la demagogia, cioè lo sfruttamento del consenso popolare da parte di personaggi ben lontani nei propri intenti dal perseguire il bene comune.
Questa concezione critica della democrazia si basa sulla suddivisione in classi che Platone fa dei cittadini tra governanti, guerrieri e lavoratori. Alla stessa categorizzazione corrisponde una divisione dell’anima umana in una parte razionale (propria dei governanti), una parte irascibile (adatta al guerriero), e una parte “concupiscibile”, alla base di tutti gli impulsi corporei. Ecco perché attribuire il potere al popolo sarebbe come legittimare gli impulsi del corpo nel decidere le sorti di una città.
Per Platone l’equilibrio e la giustizia si raggiungono nel momento in cui ogni parte del corpo svolge la sua funzione senza pretendere di svolgerne altre, e quindi quando un cittadino fa il suo dovere, quello per il quale è inquadrato come lavoratore, o come soldato o come governante.
Partendo da questo ragionamento Platone sembra favorevole all’oligarchia, ovvero un governo dei “pochi”, secondo l’etimologia del termine. In realtà il filosofo critica anche i modelli oligarchici e propone come forma di governo ideale l’aristocrazia.
Per “aristocrazia” Platone intende una forma di gestione della polis affidata agli “àristoi”, ovvero i migliori. In questo modo la sfida politica passa dalla legittimazione tramite il consenso di massa del governo di pochi all’individuare la categoria di soggetti “migliori”, i più adatti a perseguire il bene comune da un punto di vista oggettivo e a prescindere dall’umore popolare.
La soluzione al dilemma per Platone è semplice: i migliori sono i filosofi, gli unici in grado di gestire uno Stato.
Non a caso, nell’apertura del Libro sesto, il Socrate platonico si sofferma sulle principali virtù del filosofo: oltre all’amore per la verità e alla conoscenza di ciò che non è eterno, sarebbe dotato di magnanimità e di sincerità, in virtù della sua temperanza d’animo e del suo distacco dai beni materiali.
È l’unico soggetto che non userebbe il potere per assecondare le sue necessità, perché educato fin dalla giovane età a ignorare le pulsioni corporee o la vanità mondana che invece animano le aspirazioni delle masse, dei tiranni e dei demagoghi.
Quella di Platone è un’immagine coerente con l’idea che nel mondo filosofico greco si ha dell’uomo politico: il buon governante deve possedere la phronesis, ovvero la saggezza, l’unica attitudine che porta l’uomo a riflettere sulle sue scelte. La phronesis, ben distinta dalla sofia intesa come sapienza, è in grado di indicare all’individuo il kairos, il momento opportuno per ogni singola azione.
Una saggezza di questo tipo non si trova negli impulsi irrazionali delle masse, ma solo in chi coltiva la ricerca filosofica. La debolezza del sistema democratico è che le masse non possono essere in alcun modo filosofe.
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Articolo pubblicato il 01/02/2022