Tra guerra e ritorsioni energetiche dobbiamo tornare al carbone, pur senza il placet degli ecologisti

Anche il premier rilancia le fonti fossili per compensare una possibile crisi del gas e aprire la strada verso lo sganciamento dalle forniture russe.

Giornate convulse con notizie che si accavalcano dal fronte ucraino, mentre gas e carburanti aumentano a vista d’occhio.

 

Intanto chi dovrebbe responsabilmente curarsi del governo dei Paesi occidentali, nel mentre Nato e Stati Uniti stanno cercando di mettere in azione ritorsioni commerciali ed economiche nei confronti della Russia, invece di citare slogan, sarebbe opportuno si preoccupasse delle conseguenze che caleranno inesorabilmente sull’economia dei singoli Paesi.

 

L’Italia è il Paese europeo che sta peggio e che mal sopporterebbe le conseguenze.  Le nostre aziende alimentari e dolciarie hanno già denunciato che rimarrebbero penalizzate dall’impennata dei prezzi e dal probabile blocco della forniture di grano e mais provenienti dalla Russia. Per non parlare dell’Energia.

 

Abbiamo trascorso anni di politica dissennata e, senza la dotazione di un piano energetico siamo in balia di Russia e Paesi arabi per quel che concerne le forniture di petrolio e gas. Sino a dieci anni or sono, pur nel mancato perseguimento dell’autonomia energetica, i nostri governi avevano cercato, anche tramite l’Eni, di tessere rapporti amicali con i fornitori di energia.

 

Poi è successo di tutto.

 

Il complotto di Giorgio Napolitano e Nicolas Sarkozy contro la Libia, la presenza nefasta di grillini ed estrema sinistra al governo che ha bloccato ogni iniziativa estrattiva dal nostro suolo e condizionato anche il proseguo delle importazioni, tutti abbagliati dall’utopia dell’energia alternativa e sotto la droga della decrescita felice. Ed ora la follia interna ed internazionale ci fa correre il calcolato rischio di stare a piedi in tutti i sensi.

 

In Italia oggi ci sono sette impianti che producono il 6% dell’elettricità. Ma c’è anche da spingere sull’estrazione del gas sotto i nostri piedi e in Adriatico, superando ogni ostacolo politico ed eventualmente sociale. Si dovrà perseguire ogni possibilità, pur di creare soluzioni alternative, rispetto al cordone ombelicale energetico che lega Roma a Mosca.

 

Anche il premier Mario Draghi, intervenuto venerdì d’urgenza alla Camera, ha messo in campo una possibile soluzione per tentare di sganciare l’Italia dal gas russo.

Rinfreschiamoci la memoria. L’Italia, sprovvista del nucleare da 36 anni, compra gas dalla Russia e dall’Algeria e questo ovviamente la rende esposta come nessun altra Nazione alle fluttuazioni del mercato e alle tensioni geopolitiche. Senza considerare che, Usa e Ue insistono per l’estromissione del sistema finanziario russo dal circuito globale Swift, che avrebbe quasi certamente come primo effetto una rappresaglia di Mosca sulle forniture di gas all’Europa. Con tutte le conseguenze del caso.

 

Si stacca dal coro degli osanna, Matteo Salvini: “Bisogna valutare tutto fino in fondo, perché se impedisci pagamenti tra banche noi non abbiamo più il gas“. Il leader della Lega, al termine dell’incontro con il console ucraino a Milano, ha dichiarato: “per fermare la guerra vale tutto e tutti i mezzi necessari vanno messi in campo, ma un conto è bloccare i patrimoni degli oligarchi, dei politici e dei guerrafondai. Se sospendiamo i pagamenti l’Italia rimane senza gas e poi bisogna correre ai ripari. Detto questo, Draghi è il presidente del Consiglio, ha il nostro sostegno, decida“.

 

Ripensando alle alternative, è quasi impossibile che l’Italia torni all’atomo in tempi non decennali, nonostante l’energia nucleare sia stata inserita nella tassonomia europea.

 

Meglio, dunque, rispolverare il vecchio e in questo caso provvidenziale carbone, nell’attesa che si decida, ideologia permettendo, di estrarre il gas nel sottosuolo e dare campo libero alle trivelle.

 

“Potrebbe essere necessaria la riapertura delle centrali a carbone, per colmare eventuali mancanze nell’immediato. Il governo è pronto a intervenire per calmierare ulteriormente il prezzo dell’energia, ove questo fosse necessario. E io già so che sarà necessario”. Draghi ha quindi tracciato una nuova strategia energetica dell’Italia per affrancarsi dal gas russo sia nel breve periodo che nei prossimi anni.

 

Attualmente nel Paese vi sono ancora sette centrali a carbone in funzione: si stratta della centrale “Eugenio Montale” di Vallegrande (La Spezia), la centrale “Andrea Palladio” di Fusina (Venezia), la centrale di Torrevaldaliga Nord a Civitavecchia, la centrale “Federico II” di Brindisi e la centrale “Grazia Deledda” di Portoscuso (Sud Sardegna), la centrale di di Monfalcone (Gorizia) e quella di Fiume Santo (Sassari). I sette impianti producono poco più del sei per cento dell’elettricità usata in Italia e secondo il Piano nazionale integrato per l’energia e il clima firmato nel 2019, andavano dismesse entro il 2025 o riconvertirle in centrali a gas naturale.

 

Afferma Draghi: “La maggiore preoccupazione riguarda il settore energetico, che è già stato colpito dai rincari di questi mesi: circa il 45% del gas che importiamo proviene infatti dalla Russia, in aumento dal 27% di dieci anni fa. Le vicende di questi giorni dimostrano l’imprudenza di non aver diversificato maggiormente le nostre fonti di energia e i nostri fornitori negli ultimi decenni. In Italia,  prosegue il premer, abbiamo ridotto la produzione di gas da 17 miliardi di metri cubi all’anno nel 2000 a circa 3 miliardi di metri cubi nel 2020 – a fronte di un consumo nazionale che è rimasto costante tra i 70 e i 90 miliardi circa di metri cubi.

 

Dobbiamo procedere spediti sul fronte della diversificazione, per superare quanto prima la nostra vulnerabilità e evitare il rischio di crisi future”, ha messo in chiaro il presidente del Consiglio. Draghi ha poi ribadito che il gas resta essenziale come combustibile di transizione. Oltre a rafforzare il corridoio sud e a migliorare la capacità di rigassificazione, il premier ha invocato l’aumento della produzione nazionale a scapito delle importazioni. “Perché il gas prodotto nel proprio Paese è più gestibile e meno caro”.

 

Di sicuro, il possibile ritorno al carbone (a La Spezia a fine 2021, Enel ha chiuso dopo quasi 60 anni una sua centrale), non piace a ecologisti e grillini. Se ne facciano una ragione!

La linea governativa dovrebbe però essere coerente.

 

Nei giorni scorsi proprio a Torino abbiamo ricevuto un brutto segnale. Mentre industriali e sindacati , preoccupati per i circa settantamila posti di lavoro che andrebbero in fumo se entro il 2035 di perseguisse l’utopia dell’auto elettrica, il ministro Orlando ha ribadito il suo No ad ogni slittamento, dimostrando insensibilità vero la nostra industria e disprezzo per settantamila famiglie che perderebbero  il sostegno del lavoro.

 

Tant’è vero che Mino Giachino, da mesi impegnatissimo sul fronte, a differenza del silenzio dei politicamente corretti, dichiara: “Il Ministro Orlando deve sapere che puntare tutto è solo sull’elettricità porterebbe al dimezzamento dell’indotto auto, alla chiusura di aziende storiche e alla perdita di 70.000 posti di lavoro.

 

Chi ha a cuore il rilancio economico del Paese e di Torino farà di tutto perché prevalga la linea del Ministro Giorgetti e mi auguro che il Parlamento discutendo la Mozione Molinari confermi questa linea. Da questo punto di vista ottima la intesa Federmeccanica sindacati metalmeccanici. Noi difenderemo il settore auto come abbiamo difeso la TAV”, conclude Giachino.

 

Ci auguriamo che Draghi mantenga con decisioni la sua impostazione, a prescindere dalle decisioni aprioristiche di Paesi che hanno poco da perdere. Non è con i sussidi che si esce da una crisi economica dai non prevedibili sviluppi. Urgono misure lungimiranti e radicali.

 

 

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Articolo pubblicato il 27/02/2022