Un Uomo e la sua Religione della Libertà

In ricordo di Antonio Martino

“Un liberale è un conservatore quando è necessario mantenere le libertà che si possiedono, un progressista quando bisogna far crescere le libertà del presente, un rivoluzionario quando bisogna imporre nuove libertà non ancora conosciute, un reazionario quando è necessario riprendersi le libertà del passato”.

Ecco, il mio ricordo di Antonio Martino è tutto in queste parole pronunciate tanto tempo fa in un convegno, non ricordo dove, ma parole che mi hanno sempre illuminato non solo ogni volta che qualcuno mi chiedeva che cosa significa essere liberali, ma anche quando lo chiedevo a me stesso.

Martino era un liberale “genetico”, non solo per la famiglia da cui proveniva, con quel padre docente universitario, Ministro degli Esteri e della Pubblica Istruzione, segretario del Partito Liberale, parlamentare, europeista e capo della delegazione italiana che portò alla stesura e alla firma dei Trattati di Roma nel 1957, ma lo era soprattutto per formazione mentale: una mente lucida, positiva, lontana da ogni enfasi intellettuale e dalla passione tutta italiana per la retorica avvocatizia e il melodramma, una mente tutta anglosassone nel suo empirismo e nella sua concretezza anti-ideologica.

Da quel terreno non poteva che nascere un liberalismo nordico, atlantico, ottocentesco, molto british, molto simile al liberalismo piemontese di un Einaudi, fortemente economicista, e abbastanza lontano da quello partenopeo di un Croce fondato su un idealismo metafisico e talvolta  sfuggente.

Un liberalismo cosmopolita che da Adam Smith porta Martino verso il monetarismo della Scuola di Chicago e di Milton Friedman, una scuola economica anch’essa priva di fronzoli ideologici, costruita su un rigore scientifico accuratissimo, analitica e in perenne confronto con la realtà fattuale delle moderne economie di mercato.

Il ruolo fondamentale della moneta, per i monetaristi e per Martino, è qualcosa di più di un semplice dato scientifico, è il predominio della necessità economica sul velleitarismo ideale di un socialismo sempre proteso al futuro ma sovente approssimativo nel comprendere il presente. La moneta, nella sua neutralità di mezzo di scambio è però anche un micidiale strumento di dissesto se utilizzato da una politica economica ignorante e presuntuosa.

Ecco perché -sosteneva Friedman- la politica monetaria è come lasciare una pistola carica in mano a un bambino.

E la vita di Antonio Martino è stata proprio una lunga e inesausta battaglia contro la stupidità delle anime belle, quella stupidità che nasce da ottime intenzioni per produrre pessimi effetti.

Quando gli idealisti diventano politici e poi si improvvisano economisti, nascono crisi economiche, inflazioni, deflazioni, stagflazioni, semplicemente perché queste persone ignorano il fatto fondamentale che i sistemi economici sono infinitamente complessi e, soprattutto, costruiti su leggi interne talvolta dettate dall’uomo ma, più spesso, dalla semplice natura delle cose, secondo una struttura comunicativa e operativa frammentata in milioni e milioni di unità decisionali, la catallassi della scuola austriaca, generata da una grande moltitudine di scambi liberi e indipendenti.

Come possono i politici manovrare questa materia sfuggente, magmatica, caotica ma ad un tempo ordinata secondo sue leggi interne, che essi non conoscono mai appieno, senza provocare squilibri e catastrofi?

Martino -nella sua visione di liberale-liberista-libertario secondo una concezione quasi ottocentesca, alla Bastiat per intenderci- è sempre stato un nemico giurato di ogni ipotesi ingegneristica e costruttivistica dell’economia e della società, cosa quest’ultima che necessariamente comporta una dose più o meno grande di costrizione, di illibertà e, spesso, di violenza da parte dello stato.

Ecco quindi l’attrazione che portò Martino a condividere le politiche thatcheriane e reaganiane degli anni ottanta, col loro liberismo molto spesso sfrenato e, va detto, ideologico. Ma come poteva un uomo come Martino, colla sua radicata diffidenza verso l’arbitrio, l’approssimazione e l’irresponsabilità dei pubblici poteri, non farsi sedurre da due statisti che avevano piantato la loro bandiera sulla lotta a quei poteri, con la loro elefantiasi normativa, e sull’esaltazione degli animal spirits e della libertà d’impresa?

Forse a quel mondo, sinceramente mosso dal desiderio di una libertà economica priva di “lacci e lacciuoli”, sfuggiva però il fatto che una cosa è la libertà d’impresa, che crea ricchezza per tutti, per i capitalisti, i lavoratori, i consumatori, e la libertà del grande capitale finanziario che crea ricchezza solo per i suoi detentori, con le conseguenze che si sono viste di recente.

Su questa religione della libertà Antonio Martino fondò anche il suo impegno politico. L’adesione al berlusconismo del 1994 (vantò la “tessera numero due” di Forza Italia) rappresentò per lui l’occasione di fondare un nuovo partito liberale che, a differenza di quello vecchio, poteva essere veramente popolare, diffuso, vincente: un’idea antica trasformata in una realtà contemporanea, forse per la prima volta.

E, come Ministro degli Esteri e poi come Ministro della Difesa, Martino ebbe l’occasione di fondere questa visione genuinamente liberale con una prospettiva internazionale, quella prospettiva che egli aveva sempre portato con sé, forse eredità paterna forse eredità culturale acquisita nel mondo accademico americano, quella di un liberalismo sprovincializzato e aperto ai grandi temi internazionali.

Poi, lentamente, assistiamo in lui ad un raffreddamento di certe appassionate tematiche economiche ma anche politiche, probabilmente legato al mutamento dello scenario internazionale ma anche ad una mutazione di Forza Italia, sempre più lontana dal genuino liberalismo “laico” delle origini e sempre più vicina ad un popolarismo centrista, europeista e democristianeggiante.

La netta percezione che l’Unione Europea, dopo Maastricht, si stesse trasformando in una colossale macchina burocratica e statalista basata sul compromesso politico e sull’ossessione regolatoria, sempre più lontana dallo spirito democratico originario, l’aveva progressivamente avvicinato all’euroscetticismo.

E l’imposizione dell’Euro -fortemente criticata anche dal suo maestro Milton Friedman e vista come una forma di oppressione monetaria che frenava i normali processi di aggiustamento economico all’interno dell’UE- accentuò ancor di più questa sua mutazione intellettuale e culturale, mutazione a cui non era estranea anche la chiarissima visione dell’inconsistenza politica e diplomatica europea nello scenario internazionale.

Nella sua ultima intervista a Libero, risalente a pochi giorni fa, Antonio Martino riprende con amarezza queste considerazioni anche alla luce del conflitto in Ucraina e ci ricorda il vento di follia, di ignoranza e di incompetenza che sta scuotendo la politica dell’Occidente, dell’Europa e soprattutto della NATO (egli rifiutò a suo tempo l’incarico di Segretario Generale offertogli da Berlusconi), trasformatasi da giustificata alleanza difensiva del secondo dopoguerra a strumento di aggressione e prevaricazione nel mondo, a pura tutela degli interessi americani.

Ci lascia una figura limpida. Non solo per la lucidità delle sue analisi, che qui abbiamo tratteggiato, ma anche per l’eticità (più che la moralità, virtù meno elevata) della sua persona, un’eticità posata su due semplici ma solidi pilastri: l’intelligenza fondata sulla cultura e la coerenza di un pensiero che non ha mai deviato dalla sua impostazione originaria.

Mai come in quest’epoca, in cui tutti si sono definiti e si definiscono liberali, abbiamo assistito a tanto scempio di quel nobilissimo pensiero.

Lo stato è tornato ad essere un Leviatano che maneggia le leggi a suo piacimento, che ignora lo stato di diritto -da noi rappresentato da una vecchia ma nobile Costituzione-  che discrimina le persone con nuove inconcepibili apartheid, le chiude in casa, le priva volontariamente del lavoro, non le lascia spostare liberamente, che usa l’informazione come un bene tutto suo e ci dice cosa è vero e cosa è falso per poi censurare quest’ultimo, che impone tessere e codici per usare i servizi pubblici, che -dichiarandosi pacifista- vende armi a paesi in guerra e la sua sovranità al migliore offerente...

Chi, come Antonio Martino, veniva da una cultura diversa -o forse semplicemente dalla Cultura- e ci ha sempre raccontato la grandezza antica, saggia e fragile della Religione della Libertà, ci ha lasciato proprio in questo momento molto difficile e molto buio.

E avevamo ancora bisogno di lui. 

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Articolo pubblicato il 06/03/2022