La lezione della caduta dell'Impero Romano: un insegnamento per noi - Parte 2

Fides e pietas: la caduta dell’impero non si deve forse al fatto che i romani si erano allontanati da entrambe le virtù fondatrici?

Per quanto riguarda le cause della caduta dell’impero, ci sono cause esterne e interne. Quanto alle prime, è impossibile negare il carattere decisivo della grande migrazione degli unni, che, come illustrato dallo storico britannico Peter Heather, ha letteralmente scagliato il mondo germanico contro l’Occidente. Tuttavia, le invasioni barbariche non sono l’unico problema che Roma deve affrontare nell’ulti­mo secolo di vita. Le guerre civili, le agitazioni sociali, l’ecce­zionale appesantimento dell’apparato governativo e la dilatazione di spese improduttive in­nescano una spirale di problemi, cui si aggiungono la decadenza dei costumi, come ha ricordato Papa Benedetto XVI (2005-2013) parlando«[…] del tramonto dell’Impero Romano.

Il disfacimento degli ordinamenti portanti del diritto e degli atteggiamenti morali di fondo, che ad essi davano forza, causavano la rottura degli argini che fino a quel momento avevano protetto la convivenza pacifica tra gli uomini. Un mondo stava tramontando. Frequenti cataclismi naturali aumentavano ancora questa esperienza di insicurezza. Non si vedeva alcuna forza che potesse porre un freno a tale declino».

A partire dal secolo III si manifesta un palese declino demografico, che lo storico francese identifica come causa principale della decadenza. La crisi economica e l’insicurezza scoraggiano una natalità già debole da tempo e le nascite non riescono a compensare le significative perdite umane dovute alle invasioni e alle guerre, oltre che a varie epidemie, fra le quali la Peste Antonina (165-180), una pandemia di vaiolo o forse di tifo, che produce almeno cinque milioni di morti, e la Peste di Cipriano — così detta dal nome di san Cipriano (210 ca.-258), vescovo di Cartagine —, probabilmente un’epidemia di morbillo o ancora di vaiolo, che imperversa in tutto l’impero fra il 251 e il 270.

Si produce quella che lo storico irlandese Eric Dodds (1893-1979) ha definito «età dell’angoscia»: la denatalità porta alla crisi dell’amministra­zio­ne, del sistema stradale e dell’erogazione di acqua su lunghe distanze e così aumentano la vulnerabilità alle malattie e l’emigrazione. L’aristocrazia romana si trasforma da élite militare a élite latifondista, interessata più ai piaceri che alla difesa dell’impero, e smette di fare figli. Lo storico Publio Cornelio Tacito (56/58-120 ca.) evoca le manovre dei senatori per aggirare le norme che vietavano l’accesso alle magistrature a coloro che non avevano discendenza: «I matrimoni divennero sempre meno frequenti e si allevarono sempre meno figli, perché era meglio essere senza eredi».

L’esempio delle classi dirigenti, come sempre accade, fa proseliti. Lo scrittore Petronio Arbitro (27-66) denuncia nel Satyricon che «[…] nessuno riconosce i figli, poiché chiunque ha eredi legittimi, non trova posto né a pranzi né a spettacoli, ma, escluso da ogni vantaggio, si perde tra i rifiuti. Quelli invece che non presero mai moglie e non hanno parenti prossimi, conseguono i più alti onori, come a dire che passano per campioni di ardimento, per campioni di fermezza, non che per anime candide».

Lo storico francese Pierre Chaunu (1923-2009) ha analizzato il crollo de­mografico del tardo impero, dai sessanta milioni di abitanti del secolo II ai trenta milioni del secolo IV. È quella che De Jaeghere definisce «demografia del declino». Nel secolo IV il ritorno a una relativa pace non si traduce, infatti, in un aumento della natalità: le famiglie sono fragili e poco feconde, dilagano l’a­borto e l’infanticidio, il concubinato resta la regola, sotto l’influsso dei costumi ellenistici il divorzio è sempre più frequente, la mortalità rimane alta e aumenta il numero di maschi adulti che dichiarano di volere avere esclusivamente relazioni omosessuali.

Di conseguenza, per mancanza di braccia, aumenta considerevolmente la superficie delle terre non più coltivate. Dal punto di vista economico meno popolazione significa meno produttori e meno soggetti che pagano le tasse.

Le costituzioni imperiali della fine del secolo IV e dei primi decenni del secolo V testimoniano una massiccia riduzione dell’imponibile fondiario, in Italia come in Africa. L’impero reagisce aumentando le tasse, fino a deprimere l’eco­nomia e anche a incassare meno, perché molti vanno in rovina. Nelle campagne molti piccoli proprietari che non sono in grado di pagare vanno a ingrossare le schiere della criminalità e del banditismo.

A questa situazione, si affianca la schiavitù, caratteristica di tutte le civiltà antiche, gli schiavi però non hanno interesse a difendere i loro padroni. Intanto è pronta l’immigrazione che rappresenta un serbatoio di mano d’opera servile, soprattutto alle frontiere e così si crea un vero e proprio mercato di schiavi a buon prezzo. Alcuni gruppi e tribù germaniche entrano pacificamente nell’impero attraverso le frontiere ormai deboli e vi s’installano. È un fenomeno che viene tollerato e molti sono accolti per ripopolare zone ormai abbandonate e per rilanciare l’agricoltura.

Fra il 376 e il 411, un milione di barbari entrano nei territori dell’impero, inquadrati in varie categorie: immigrati, rifugiati o deportati. Le popolazioni germaniche entrano nell’impero a causa della pressione degli unni, che non può essere imputata alle classi dirigenti romane, le quali, però, non sanno governare bene l’immigrazione, favorendo accessi indiscriminati.

Infine, il calo demografico generale riduce le capacità militari e di sicurez­za dell’im­pero. Già i poeti Publio Virgilio Marone (70-19 a.C.) e Sesto Properzio (47-14 a.C.) e lo storico Tito Livio (59 a.C.-17 d.C.) avevano deplorato la scomparsa dei contadini della campagna romana, che avevano rappresentato fino ad allora il nerbo delle legioni. Peraltro, l’editto dell’imperatore Caracalla (188-217), che nel 212 — soprattutto per cercare di aumentare le entrate — concedeva la cittadinanza romana a quasi tutti gli abitanti dell’impero, rendeva meno appetibile l’arruolamento a quanti si accingevano ad assumere quel gravoso impegno proprio con il miraggio della cittadinanza, concessa appunto a quanti combattevano sotto le aquile romane.

L’esercito comincia a soffrire di questa penuria di uomini e in parallelo il fisco fa fatica a raccogliere i fondi necessari per arruolare le truppe mercenarie. Sarà fatale, a quel punto, la decisione di reclutare gl’im­migrati, snaturando la composizione delle legioni. All’inizio del secolo V gli arruolati ammontano a circa mezzo milione di uomini, ma più della metà sono di origine germanica e la loro lealtà appare legata più alla persona dei comandanti che all’impero.

A poco a poco, i germani accedono ai gradi superiori dell’eser­cito, al consolato e, alla fine del secolo IV, alla famiglia imperiale: Flavio Onorio (384-423), figlio di Teodosio (347-395), sposa la figlia del vandalo Stilicone, il primo dei magister militum di origine barbarica. La caduta in disgrazia di questi e la sua morte sono seguite da ondate di diserzioni, che vanno a ingrossare le file dell’esercito di Alarico, il quale due anni dopo può saccheggiare Roma, a otto secoli di distanza dall’in­gresso delle tribù galliche nell’Urbe.

Cercando la causa delle cause, De Jaeghere cita lo storico e accademico francese René Grousset (1885-1952), secondo il quale “nessuna civiltà […] viene distrutta dall’esterno senza essere prima caduta essa stessa, nessun impero viene conquistato dall’esterno se non si è prima suicidato. E una società, una civiltà, non si distrugge con le sue mani se non quando ha cessato di comprendere la sua ragion d’essere, quando l’idea dominante attorno a cui essa fu in origine organizzata gli diviene come estranea. Tale fu il caso del mondo antico”.

Pierre Grimal (1912-1996), storico e latinista francese, interessandosi non alle cause della caduta dell’impero ma a quelle della sua ascesa e restando lontano da ogni idealizzazione dei costumi dell’antica Roma, pone in evidenza le due virtù caratteristiche della romanità, la pietas e la fides.

La pietas, cioè la lealtà alle tradizioni morali e religiose trasmesse dai padri, aveva dato ai romani l’energia vitale per sopravvivere e perpetuarsi; la fides, la fedeltà alla parola data e agl’impegni assunti come cittadini romani nei confronti della patria, aveva costituito il mezzo per non soccombere alla vertigine dell’onnipotenza e quindi si basa sull’assimilazione dei vinti. “Il popolo romano - dichiarò Scipione dopo aver preso Cartagine - preferisce vincolare gli uomini grazie ai benefici, anzichè al timore, e tenere legate a sé le nazioni straniere in buona fede e alleanza, anziché sottometterle a una triste schiavitù”.

«Fides e pietas: la caduta dell’impero non si deve forse al fatto che i romani si erano allontanati da entrambe le virtù fondatrici?».

La perdita della pietas si tradusse in uno spopolamento che avrebbe avuto un grande peso nei destini del mondo romano.

De Jaeghere non indaga ulteriormente sulle ragioni strettamente religiose del declino, sulle quali si è soffermato invece il sociologo delle religioni Rodney Stark, mostrando come la crisi della religione pagana, non più persuasiva per nessuno, sia alle origini del declino della pietas. Nel corso delle grandi epidemie anche il paganesimo si era ammalato seriamente, rivelandosi incapace di affrontare la crisi socialmente e spiritualmente; il cristianesimo, che sapeva trovare in sé le ragioni per difendere l’impero, era però ancora minoritario e non poteva costituire — almeno per il momento — una valida alternativa alle antiche religioni.

Pur con tutte le cautele necessarie a evitare giudizi anacronistici, abitualmente interroghiamo il passato in relazione alle domande che ci pongono i nostri tempi. L’opera di De Jaeghere, che sembra tener costantemente di mira il presente, offre delle risposte convincenti.

La caduta di Roma mostra che tutte le grandi civiltà finiscono e che generalmente l’inizio del declino è demografico: cadono quando non fanno più figli, perché la denatalità innesca una spirale di tasse insostenibili, statalismo dell’e­conomia e cattivo governo dell’immigrazione. A ciò si aggiunge di regola la crisi delle religioni tradizionali e il conseguente tracollo della moralità, sia pubblica sia personale.

Per di più oggi gl’immigrati, a differenza delle popolazioni germaniche di un tempo, sono portatori di un pensiero molto forte e non ambiscono ad assimilare la nostra cultura, anzi vogliono convincerci della superiorità della loro e talvolta ci riescono. «La crisi che potrebbe seguirne potrebbe essere ancora più letale di quanto fu per l’Europa la caduta di Roma. Per questo, discutere sulle ragioni della caduta dell’Impero romano d’Occidente non è un puro esercizio intellettuale»..

 

 

 

 

 

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Articolo pubblicato il 25/04/2022