La «Torino noir» vista e narrata da Milo Julini

La fidanzata del Bersagliere tra Antonio Gramsci e Carolina Invernizio

La trattoria del Merlo Bianco è un modesto albergo sulla Strada di Francia, al di fuori della Barriera di Francia (Piazza Bernini), nei pressi dell’Istituto dei Sordomuti, oggi noto come il Prinotti, dal nome del fondatore. È stato progressivamente inglobato nel tessuto urbano e, nel 1916, al tempo della nostra storia, è collocato al civico 101 di corso Francia, all’angolo con la via Chiavrie, oggi Caprie. Il fabbricato, di aspetto rustico, appare ancora isolato perché i terreni retrostanti, tra corso Francia e corso Vittorio Emanuele II, sono dei prati solo parzialmente occupati da edifici.

Alle 7:30 del mattino del 2 maggio 1916, un giovane uomo e una giovane donna si presentano alla signora Adele Schiappacasse, la padrona del Merlo bianco, e le chiedono una camera. Nello stesso tempo ordinano una colazione: vino, salame, una tazza di zabaione e dei biscotti. Vengono serviti all’istante e si ritirano nella loro stanza, al primo piano. Appaiono tranquilli: alla figlia dell’ostessa che li serve chiedono di preparare della carne lessata e del brodo per il pranzo di mezzogiorno, aggiungendo che sarebbero scesi per mangiare. Poi, rimasti soli, si chiudono in camera e da quel momento non danno più segni di vita.

Dopo aver atteso invano che i due giovani scendano a mangiare, alle 12:30 la signora Schiappacasse pensa che si siano addormentati e manda sua figlia ad avvertirli che il pranzo è pronto.

La ragazza va alla camera della coppia e, passando sul ballatoio, bussa più volte alla porta a vetri, senza ottenere risposta. Ci riprova dopo qualche minuto, bussando più forte sui vetri, sempre inutilmente. Allora inizia a preoccuparsi dell’ostinato silenzio e teme che sia accaduto qualcosa di grave ai due giovani. La porta a vetri della camera ha un finestrino in alto che si può spalancare facilmente. Così la ragazza sale su uno sgabello e spinge la vetrata per guardare all’interno.

Ai suoi occhi appare un orribile scena: la poveretta prova una violenta emozione e per poco non cade sul ballatoio per lo spavento.

Sul letto giace morta la giovane, col volto spasmodicamente contratto e congestionato: sul pavimento giace, supino, in un lago di sangue che si sta coagulando, l’uomo che stringe ancora in pugno un rasoio.

L’imprevedibile tragedia è avvenuta forse da un’ora, in silenzio, senza che nessuno potesse accorgersene. Nell’albergo nessuno ha sentito grida, o rumori di lotta.

La figlia dall’ostessa, più morta che viva per il terrore, scende a precipizio le scale e dà l’allarme, in tono concitato. Accorrono più persone, affannate, ma la porta della stanza è chiusa dall’interno e ogni soccorso per i due disgraziati giovani appare inutile. Si telefona quindi alla Polizia.

Si recano sul posto due funzionari con alcuni agenti. Salgono al primo piano e, dopo aver constatato che l’uscio della camera è chiuso dall’interno, come anche la seconda porta a vetri che dà sul ballatoio, forzano la serratura. La camera della tragedia è arredata con sobria eleganza. Il corpo della donna giace supino e con le braccia allargate a croce sul letto a due piazze, vestito dalla camicia e da una leggera maglia. Larghe chiazze di sangue si estendono sul corpo e sulle coperte. Vicino al letto giace a terra il corpo dell’uomo, vestito della sola camicia, anch’egli supino. Nella destra stringe il rasoio. Larghissime pozze di sangue si estendono tutt’attorno, in particolare vicino al collo straziato da una profonda ferita.

I due corpi sono già freddi, la tragedia si è svolta da alcune ore.

Gli abiti della donna sono appoggiati su un sofà presso il letto; quelli dell’uomo su un attaccapanni. Su una tavola rotonda, dove sono presenti gli avanzi della colazione, vi è un orologio da uomo e due pacchi di sigarette Avana. Nelle tasche dell’uomo vengono trovate 207,35 Lire, diverse lettere, alcuni documenti militari e fotografie che ritraggono lui in abito borghese e in divisa da bersagliere e la donna in abiti festivi.

Esaminando i documenti militari si deduce che l’uomo si chiama Ermenegildo Grosa, soldato del 7° bersaglieri, ora addetto alla Fabbrica d’Armi della ditta Filippo Tettoni, di Brescia. Si trova anche una licenza concessa dai superiori dal 29 aprile a tutto il 1° maggio. Grosa avrebbe dovuto quindi presentarsi in caserma il mattino precedente.

Fra le lettere se ne trova una scritta dalla donna e indirizzata a Grosa nel marzo scorso: contiene frasi d’amore ed è firmata Caterina Astegiano presso le Officine di Savigliano. È questo il nome della sventurata.

Fra le altre carte viene trovato anche un pianeta della sorte (1), nel quale - ironia funebre - era predetto che il giovane sarebbe vissuto fino a ottant’anni!

Inizialmente si suppone che si tratti di un duplice suicidio e quindi si cerca fra le carte qualche lettera o biglietto di addio scritto di comune accordo dai due giovani. Non si trova nulla del genere.

Giungono anche il Procuratore del Re e il giudice istruttore, i quali procedono alle prime indagini sui due cadaveri col medico municipale. Al contrario di quello che le chiazze di sangue lasciavano intendere, sul corpo della donna non si riscontrano ferite. La sua morte non è dovuta al taglio delle vene, ma a soffocamento, ipotesi avvalorata dal suo stato cianotico, evidente quando con un po’ d’acqua le sono tolte le macchie di sangue dalla faccia.  

Il dramma viene così ricostruito.

Grosa ha premeditato il delitto - poiché si esclude che la giovane abbia stoicamente accettata l’idea di un suicidio - e, grazie alla licenza è venuto a Torino, dando appuntamento a Caterina Astegiano. Insieme i due si sono recati all’Albergo del Merlo Bianco.

Cosa sia accaduto nella stanza nessuno può saperlo con esattezza, ma si può ritenere che - forse in un impeto di gelosia e torturato dal pensiero che la giovane l’avrebbe abbandonato mentre lui era lontano - Grosa si sia gettato su Caterina premendole un guanciale sulla faccia per ucciderla.

La giovane, assalita all’improvviso, non ha potuto opporre grande resistenza, ma si è dibattuta con tutte le sue forze, tentando di divincolarsi. Allora Grosa l’ha afferrata alla gola e stretta in modo forsennato: il medico, più tardi, riscontra sulla vittima evidenti tracce delle unghiate dell’assassino.

Quando Grosa ha visto la ragazza morta, ha afferrato il rasoio, deposto in un astuccio su un tavolino accanto al letto, e si è inferto un tremendo colpo alla gola. Negli spasimi dell’agonia il giovane è caduto dal letto ed è rimasto disteso sul pavimento, esalando l’ultimo respiro.

Non sono però chiari i precisi motivi che possono aver indotto Grosa ad uccidere la ragazza e suicidarsi. Forse dall’esame delle lettere trovate potrà scaturire uno sprazzo di luce.

Caterina Astegiano, nativa di Villafranca Piemonte, aveva appena vent’anni e, dal 4 aprile, non lavorava più alle Officine di Savigliano.  

Dopo le constatazioni legali le due salme vengono trasportate alla Camera mortuaria del Cimitero Monumentale.

Così La Stampa del 3 maggio descrive quello che definisce «un dramma sanguinoso ancora avvolto nel mistero», sotto il titolo Soffoca la sua amante in letto e poi si svena.

Il mistero non viene risolto: il giorno seguente il giornale riferisce che

 

Le ulteriori indagini compiute intorno alla tragedia di corso Francia non hanno recato alcuna luce sulle causali precise del delitto. I due giovani abitavano con le rispettive famiglie nella casa n. 60 di via S. Chiara. Ai parenti era ben noto che i due giovani si amavano ma non rilevarono mai che tali vincoli affettivi fossero annebbiati da dispiaceri. Anche in questi giorni di licenza il Grosa non aveva dato segni di essere conturbato da pensieri tragici. I due giovani sono usciti l’altra mattina nelle prime ore dalle rispettive abitazioni e si allontanarono senza nulla dire.

 

Sulla base di queste scarne informazioni viene da pensare a un omicidio-suicidio lucidamente programmato, a costo di non rispettare la scadenza della licenza, fatto che in tempo di guerra può assumere notevole gravità: va infatti ricordato che al tempo della nostra storia si sta combattendo la Prima Guerra Mondiale. Ma cosa abbia scatenato la follia omicida di Grosa non è emerso dalle indagini. La relazione amorosa appariva felice e il nostro bersagliere, a quanto pare, non combatteva in prima linea, a contatto degli orrori della trincea, ma lavorava in uno stabilimento industriale delle retrovie.

In ogni caso, una storia di follia amorosa non può trovare molto spazio: dopo aver accertato che nella vicenda non vi sono altri responsabili oltre a Grosa, il quale si è autopunito, gli inquirenti non si saranno certo prodigati per trovare spiegazioni al folle gesto.

L’accesso di follia può fornire una rassicurante giustificazione, pur non spiegando nulla.

La vicenda si chiude il 5 maggio, quando La Stampa pubblica i morti dichiarati allo Stato Civile:

Grosa Ermenegildo, anni 29, di Almese, materassaio;

Astegiano Caterina, anni 20, Villafranca Piemonte, casalinga.

 

Chi si incarica di analizzare questo dramma per trovare una spiegazione è il giovane Antonio Gramsci (Ales, 1891 - Roma, 1937). Dopo aver intrapreso l’attività di giornalista dal gennaio del 1916, Gramsci collabora col giornale l’Avanti nella rubrica Sotto la Mole dove si occupa della cronaca torinese. Qui, il 4 maggio 1916 leggiamo, sotto il titolo Fuori dai cardini:

 

I così detti «drammi d’amore» si susseguono in modo impressionante. [...]

Perché questi fattacci si ripetano con periodica assiduità bisogna convenire che qualche elemento nuovo è sopraggiunto a sconvolgere il ritmo che finisce per crearsi anche nelle attività più bestiali dell’uomo, anche nell’assassinio. Tutti sentiamo questo elemento nuovo, ma non sappiamo rendercene perfettamente ragione, tanto esso è oscuro, impalpabile. Si ha l’impressione che il mondo sia uscito dai cardini e sia sospeso a mezz’aria, in una posizione provvisoria, che non può durare, ma che turba le coscienze e le mantiene in uno stato di irrequietezza e di orgasmo.

Tutto è d’eccezione: le responsabilità individuali sono assorbite da una responsabilità superiore, immanente in tutti e concretizzantesi in nessuno, che assolve e condanna con leggi non consuetudinarie, ma transitorie, escogitate per il momento assurdo che viviamo. L’individuo è scomparso, è assorbito nella macchina «nazionale» e non sente più i freni inibitori della coscienza. La vita umana è rinvilita nel mercato europeo: cosa conta una vile donnacola il cui collo sottile si offre allo strangolatore esaltato, quando milioni di vite sono sospese a un filo, e un mietitore invisibile ne falcia ogni giorno a manate piene, a enormi cumuli di sanguinosi covoni?

La collettività si è realizzata violentemente in ente assoluto, quando ancora le coscienze individuali non avevano raggiunto quel quadro di maturità necessario per comprendere che la base granitica del dovere è in noi stessi e non nella spada di Damocle della giustizia punitiva.

Molti, galantuomini ieri per mancata occasione a delinquere, per debolezza, per paura, hanno sentito il capogiro per l’odore di sangue che si respira nell’aria, per l’atmosfera di strage che ci circonda e colpiscono per ragioni che ieri li avrebbero solo spinti al sorriso o al pianto. [...]

 

Un fiume di parole per veicolare una interpretazione sociologica: il ripetersi dei drammi d’amore è motivato dal clima di guerra. Una “diagnosi” che successivi episodi di cronaca, antichi e moderni, hanno palesemente contraddetto.

Sempre nel 1916, oltre a Gramsci - tra i futuri fondatori del Partito Comunista, pertanto dominato da una visione sociale e politica della realtà tutta - si occupa di donne innamorate dei fanti piumati anche Carolina Invernizio col suo romanzo La fidanzata del bersagliere, ispirato al caso reale di Luigia Ciappi, calabrese di Rosarno, animata da amor di patria, che, nel 1915, in uniforme, armata ed equipaggiata, è riuscita a intrufolarsi fra i richiamati di un Reggimento di Fanteria, per essere scoperta dai commilitoni soltanto a viaggio iniziato.

 

(1) Piccoli foglietti di carta colorata con previsioni sul futuro e i numeri del lotto da giocare, distribuiti da ciarlatani itineranti e mendicanti, dietro un modesto obolo. Erano detti pianeti perché le profezie si dicevano basate sul movimento degli astri.

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Articolo pubblicato il 30/04/2022