Ahi Serva Italia...

Dal miracolo economico all’attesa di un miracolo

Su Civico 20News del 18 maggio Andrea Farina ha svolto un’accurata analisi sulle circostanze che in passato hanno portato l’Italia a crescere sino a diventare una delle principali potenze economiche mondiali e poi sulle cause che, dal 1992, ne hanno determinato il declino sino ai giorni nostri, giorni su cui si stanno addensando nubi sempre più scure sul nostro futuro economico prossimo venturo.

Situazione geopolitica, dinamica sociale interna, capacità imprenditoriale, crescita ed evoluzione dei consumi, pressione tributaria, politiche di bilancio; a questa analisi storica Farina aggiunge una spruzzata finale di ottimismo che, visti i tempi, non può che essere bene accolta anche se purtroppo l’attuale congiuntura (nel senso originario del termine, di aggregazione celeste di eventi minacciosi) non fa ben sperare.

Ridimensionamento del patrimonio produttivo e distributivo a seguito delle recenti chiusure sanitarie, riduzione della capacità di consumo e di risparmio delle famiglie, problemi di approvvigionamento di materie prime a causa degli attuali eventi bellici, sostanziosa crescita dell’inflazione, aumento del deficit e del debito pubblici: sono tutte cose che spaventano e non inducono certo all’ottimismo.

All’analisi di Farina si potrebbero però aggiungere alcune altre considerazioni, soprattutto sotto l’aspetto  politico-monetario.

Molto correttamente egli individua la data critica nel 1992 che rappresenta il momento in cui l’Italia perde di fatto la sua sovranità monetaria, e non solo quella monetaria. Col trattato di Maastricht si avvia quel processo che porterà il nostro Paese ad adottare l’euro come nuova moneta e, conseguentemente, alla sua marginalizzazione economica.

Per secoli si è sempre ritenuto che la quantità di moneta (qualunque cosa essa significhi) fosse una delle variabili strategiche su cui fondare la crescita o a cui imputare la decrescita: domanda, offerta, prezzi, importazioni ed esportazioni sono sempre stati visti come determinati in qualche modo dalla quantità di moneta, e quest’ultima pertanto diventava l’utensile principale nella cassetta delle politiche economiche.

La moneta sovrana era spesso lo strumento utilizzato per coprire i disavanzi pubblici, per fornire i servizi collettivi, per pagare le importazioni e incentivare le esportazioni, oltre ad essere una forma di “libertà coniata” -per usare l’espressione di Tolstoj- che lo stato offriva ai cittadini in grado di procurarsene a sufficienza.

Per un paese manifatturiero come il nostro, fortemente orientato all’esportazione, il tasso di cambio sarebbe uno strumento impareggiabile per poter penetrare i mercati mondiali, cosa che l’ “italietta” del secondo dopoguerra seppe fare con grande abilità. Una moneta forte, o quantomeno credibile, assieme alla qualità e alla quantità dei suoi prodotti, alle favorevoli ragioni di scambio e alla flessibilità del tasso di cambio costituiscono il vero talismano per il successo sui mercati internazionali.

Perduta la sovranità monetaria, l’Italia ha perso pure quel prezioso strumento -appunto il tasso di cambio - che da secoli costituisce la fortuna internazionale anche di paesi territorialmente piccoli e scarsi di materie prime ma ricchi di imprenditorialità innovativa e di alta qualità, proprio come fu quell’Italia felice del miracolo economico.

E poi abbiamo perso il primo grande strumento delle politiche anti-inflazionistiche, e cioè ancora la moneta in tutte le sue varianti (legale e fiduciaria), che -con la costituzione della Banca Centrale Europea- è completamente sfuggita di mano ai singoli stati e, per l’Italia, ha costituito una perdita irrimediabile.

Molti hanno detto che una fragile “liretta” non avrebbe mai retto alle turbolenze monetarie internazionali che si sono susseguite negli ultimi decenni, dimenticando che la forza di una valuta dipende non da se stessa ma dalla forza del sottostante sistema economico nazionale.

Francamente non si riesce a capire come una moneta sovranazionale, come l’euro, possa essere di aiuto a un singolo paese in crisi, soprattutto se privato della possibilità di scegliersi autonomamente le sue politiche economiche. D’altra parte è risaputo che in ogni società è l’azionista più forte (anche se non necessariamente maggioritario) a decidere le politiche aziendali: ogni riferimento alla Germania è puramente casuale...

Accanto alla perdita della sovranità monetaria, sempre a partire dall’infausta data del 1992, l’Italia ha perso anche la sovranità in materia di politica di bilancio e, quindi, la possibilità a cui alludeva Farina di politiche genericamente keynesiane-rooseveltiane in grado di stimolare la domanda globale, la crescita e l’occupazione.

Il cappio al collo costituito dall’articolo 81 della Costituzione, nella nuova formulazione del 2012, è un ulteriore atto di cessione di sovranità che ha condotto l’Italia sempre più nell’impossibilità di operare scelte di politica fiscale sue proprie; e non bisogna essere troppo fiduciosi nell’allentamento dei vincoli finanziari che l’Unione europea ha concesso in questi ultimi due anni poiché presto -passate le tempeste bellico-sanitarie, se mai passeranno- ci sarà la resa dei conti e i paesi virtuosi del nord non esiteranno ad esigere, tramite Bruxelles, una nuova stagione di rigore finanziario dalle conseguenze drammaticamente imprevedibili, soprattutto per una nazione ormai sfibrata come la nostra.

Tacciamo poi sull’eventualità più buia: quella di un coinvolgimento diretto della NATO, e quindi automaticamente dell’Italia, in una guerra per noi veramente guerreggiata, che sarebbe sconvolgente anche senza varcare la soglia nucleare.

La conclusione è semplice. L’Italia non è più un paese vero: è una colonia politica ed economica di altre realtà più grandi, più forti, spietatamente votate ai propri interessi e del tutto indifferenti ai destini dei paesi medio-piccoli.

E la classe politica che ci governa -la figura di Mario Draghi ne è il simbolo più visibile- non è altro che un piccolo esercito di soldati, caporali e sergenti agli ordini di generali stranieri, come le compagnie di ventura del passato, che pensano solo alla loro modesta sopravvivenza.

E, per restare nel passato, forse ci manca terribilmente un Dante che sappia coniare le giuste e fiammeggianti  invettive verso chi ha ridotto l’Italia -oggi come allora- a una servetta capace solo a cucinare per i suoi padroni, e neppure tanto bene.

 

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Articolo pubblicato il 20/05/2022