Non cancelliamo la Storia d’Italia
Il Principe Aimone di Savoia Aosta, Capo della Real Casa di Savoia, ospite della Federazione del Nastro Azzurro a Bologna (5 giugno 2022)

Il Duca Amedeo d’Aosta dal 1941 dedicatario del Liceo Scientifico di Pistoia

Nell’Europa orientale, a pochi minuti di missile da noi, è in corso una guerra feroce. Trattati, convenzioni e regole, violati per decenni in tanti Paesi, ora sono calpestati anche nel Vecchio Continente, persino a ridosso della città ove nacque Immanuel Kant, il filosofo della Ragion pratica e di Per la Pace perpetua. Un “errore umano” (eventuale, possibile, voluto) potrebbe scatenare l’inferno sulla terra, causare il danno irreversibile per milioni di persone e spazzare via secoli di incivilimento.

Anziché occuparsi di quanto incombe, c’è chi fa la guerriglia sui nomi delle scuole e vorrebbe cancellare il nome del Duca Amedeo di Savoia Aosta (Torino, 1898-Nairobi, 1941), Medaglia d’Oro al Valor Militare, da dedicatario del Liceo Scientifico di Pistoia. Solo per distrarre? La falsificazione della Storia esige risposte chiare. La Consulta dei senatori del regno si oppone fermamente e invita a farlo, scrivendo al sindaco della città e al prefetto di Pistoia.

 

Il vizio antico della damnatio memoriae

Anche in Italia imperversa da anni la stolida corsa a cambiare i nomi di strade, piazze, edifici e pubblici istituti. È una mania speculare a quella divampata tempo addietro, quando a quelli in uso furono aggiunti i precedenti. Un vezzo bizzarro: se venisse rispettato sino in fondo, agli angoli delle strade dovrebbero essere collocate non le solite targhe, spesso sbiadite, ma lapidi che rechino scolpite tutte le diverse denominazioni succedutesi nel tempo. Così sono sempre andate le cose nella civiltà latina, usa a intitolare le Opere ai rispettivi promotori e/o artefici, salvo sostituirli con altri quando risultavano “superati”. Ricordiamo, in sintesi, che già gli antichi Romani presero a cancellare ogni ricordo dei predecessori “scomodi”. Fu un effetto del Cesarismo. La Res publica (genus mixtum secondo Cicerone: equilibrio tra comizi tributi, senato e consolato) aveva celebrato tutti gli Ottimati meritevoli di gloria imperitura. Invece dai Giulio-Claudi in poi (che dopo Augusto inanellarono Caligola e Nerone...), ogni dinastia spazzò via la memoria del passato e pretese che la storia iniziasse con se stessa, come facevano i Faraoni in Egitto. Dilagò la damnatio memoriae, che non è triste invenzione recente ma rigurgito del malcostume politico-culturale introdotto dalla tirannide. Altrettanto avvenne nei secoli seguenti, sia per il potere civile (imperatori, re, principi, “liberi comuni”...), sia per quello ecclesiastico. Alcuni papi non esitarono a demonizzare e persino a processare e condannare post mortem (presente cadavere!) il predecessore. Poiché la sapevano lunga, i consoli romani reduci da vittorie smaglianti sul cocchio avevano alle spalle chi li ammoniva: “guardati dal giorno della lode”.

Questa premessa non è una divagazione. Ci ricorda che nulla è nuovo sotto il sole. Chi conquistava una terra esigeva che i vinti dimenticassero la propria identità. Molto cristianamente, imponeva persino il culto dei propri santi al posto di quelli venerati dalle popolazioni soggiogate, inducendo a battezzare i neonati con nomi usuali nella dinastia vittoriosa. Con l’avvento degli Aragonesi, nel regno di Napoli gli Alfonso, Fernando e Ferdinando sostituirono i Carlo, Roberto e altri nomi tipici degli spodestati Angioini. Però, poiché i più ricorrenti nell’Europa centro-occidentale erano e rimasero una manciata, alla stretta finale le diverse dinastie si trovarono ad avere Carli, Filippi, Ferdinandi, Giuseppi, Franceschi, Enrichi, Guglielmi, Giorgi e loro composti. Basti, a conferma, scorrere i nomi dei sovrani in carica alla conflagrazione europea del luglio-agosto 1914, scatenata dall’assassinio di Francesco Ferdinando d’Asburgo, arciduca e principe ereditario dell’impero d’Austria e del Regno di Ungheria. Erano come salmi responsori.

 

L’eccezione sabauda in Italia

A quell’epoca unica eccezione era il re d’Italia, Vittorio Emanuele III, che aveva un nome quasi esclusivo della Casa di Savoia. Originariamente associato ad altri nomi, come Emanuele Filiberto, restauratore del Ducato, e Carlo Emanuele (due dei quali re), il primo “Vittorio Emanuele” tout court (1759-1825), restauratore del regno di Sardegna, sommò insieme il “Vittorio” di Amedeo II, duca incoronato re, e l’“Emanuele” di “Testa di Ferro”. Il principe Carlo Alberto di Savoia Carignano (1798-1849), suo lontano parente ed erede al trono, ebbe la lungimirante prontezza di far battezzare Vittorio Emanuele il primogenito (14 marzo 1820-9 gennaio 1878): futuro re di Sardegna, primo re d’Italia e indiscutibile Padre della Patria. Terzo di quel nome, Vittorio Emanuele (Napoli, 11 novembre 1869-Alessandria d’Egitto, 28 dicembre 1847) fu il sovrano che regnò più a lungo in Italia (dal 29 luglio 1900 al 9 maggio 1946), ne portò i confini politici a coincidere con quelli geografici (ad abundantiam anzi, giacché comprese anche Fiume, Zara, ecc.) e alle colonie conquistate prima della Grande Guerra (Eritrea e Somalia) aggiunse la Concessione di Tien-Tsin in Cina, Libia, Rodi e Dodecanneso, oltre all’impero d’Etiopia e la corona di Albania.

Fu vera gloria la sua? Se n’è discusso e se ne discuterà ancora. Di sicuro il re ebbe il sostegno del Paese e per decenni venne stimato dai capi di Stato (anche di grandi potenze come USA, URSS, Gran Bretagna e Francia), sino alla fase agonica della Guerra dei Trent’anni che imperversò nella prima metà del secolo scorso (1914-1945). Dopo quasi vent’anni di regime di partito unico, approvato dagli elettori nel 1929, 1934, 1939 e votato dalle Camere quasi unanimi, nell’estate del 1943 in poche settimane fu lui a revocare Benito Mussolini da capo del governo, a smantellare il Partito nazionale fascista e ad ottenere dagli anglo-americani la resa senza condizioni, premessa indispensabile per risalire la china, come documenta il denso saggio 1943-1945. Dai Gruppi di Combattimento al nuovo Esercito Italiano, curato da Pier Carlo Sommo e Alberto Turinetti di Priero a corredo della Mostra di esemplare rigore storiografico allestita alla Cittadella di Torino lo scorso aprile.

Malgrado i suoi indiscutibili meriti, dopo anni di scaramucce (subite in silenzio da chi avrebbe dovuto replicare subito colpo su colpo), in tempi recenti contro la sua memoria è stata scatenata un’offensiva volta a farne tabula rasa. Appellato, via via, Re borghese, socialista, soldato, fascista, razzista, fuggiasco, fellone..., secondo alcuni Vittorio Emanuele III andrebbe cancellato per sempre. Nel 2019 una senatrice a vita della repubblica invitò i sindaci di tutta l’Italia a eliminarne il nome da piazze, vie e istituti pubblici. Leoluca Orlando, all’epoca sindaco di Palermo, sollecitò le scuole siciliane a dare il buon esempio. Per scongiurare il caotico “fai da te” dominante dal famigerato Sessantotto, il 18 febbraio 2021 il dirigente scolastico regionale richiamò la normativa vigente sull’intitolazione di scuole, aule e locali interni agli istituti nonché sull’erezione di monumenti e la posa di lapidi (circolare Ministeriale 12 novembre 1980, n. 313). Con ovvi aggiornamenti (all’epoca non esistevano i consigli d’Istituto nei quali siedono docenti, personale amministrativo, tecnico e ausiliario, studenti e genitori, mentre i “dirigenti”, senza diritto di voto, fanno le belle statuine), essa ricalca la legge 23 giugno 1927, n. 1188, emanata, vedi caso, proprio da Vittorio Emanuele III.

Il dedicatario di scuole, ecc., deve essere morto da dieci anni: un tempo minimo per separare il grano dal loglio, vagliare il merito durevole, senza cedere né alle emozioni né ai cambi dei sempre più volatili “gusti” ideologici. L’intitolazione, decisione di alta responsabilità e di portata storica, è proposta dal consiglio d’istituto, sentito il collegio docenti, con delibera da sottoporre all’approvazione del Provveditore agli studi dopo aver acquisito le valutazioni vincolanti del prefetto e della Giunta comunale. Essa è dunque un atto complesso, che unisce cultura, politica e certezza del diritto, proprio perché, con buona pace di Luigi Einaudi, il prefetto è quel che resta dello Stato d’Italia.

La normativa dovrebbe dunque scongiurare intitolazioni dettate da pulsioni estemporanee e da spiriti faziosi, estranei alla Pubblica istruzione e, più in generale, dovrebbe concorrere alla costruzione e alla salvaguardia della Memoria. Chi è meritevole di speciale ricordo, lo è “a prescindere” da pregiudizi privi di consistenza, come quelli accampati per cancellare il nome di Vittorio Emanuele III dagli Istituti che se ne fregiano. È il caso, recentissimo, della proposta ventilata a Napoli di sostituire il nome del sovrano con quello di Benedetto Croce quale dedicatario della celeberrima Biblioteca Nazionale di Napoli, arricchita nel dopoguerra dalla biblioteca della duchessa Elena di Savoia Aosta.

A quanti accusano il Re di collusione con il fascismo, contrapponendogli artificiosamente Croce, va ricordato che il sommo filosofo e storico napoletano votò a favore dell’insediamento del governo presieduto da Benito Mussolini, così come Vittorio Emanuele Orlando, “presidente della Vittoria” ed Enrico De Nicola, futuro presidente provvisorio della Repubblica, entrambi nell’aprile 1924 candidati nella Lista Nazionale “fascista”, nonché Alcide De Gasperi capogruppo dei popolari alla Camera, Giovanni Giolitti, maggiorente dei demoliberali, e un lungo elenco di parlamentari di varia ascrizione (democratici, demosociali, riformisti...). A differenza di quei politici, grandi industriali, banchieri, agrari, ecc., “monarchisti” di passo e a noleggio anziché veramente “monarchici”, Vittorio Emanuele III ovviamente non votava. Sovrano costituzionale, egli promulgava le leggi approvate dalle Camere. Non aveva neppure la possibilità di rinviarle al Parlamento con parere motivato, come è oggi facoltà del presidente della Repubblica (il quale deve comunque “trangugiarle” se le Camere le confermano: art. 74 Cost.).

 

Il “caso” del Duca d’Aosta Viceré d’Etiopia

Ora accade che qualche insegnante del liceo scientifico “Amedeo di Savoia Duca di Aosta” di Pistoia chieda che il nome distintivo della scuola sia cancellato. In alternativa vengono prospettate Rita Levi Montalcini, già senatrice a vita, e Margherita Hacks. I loro nomi sono di prestigio assoluto e meritano l’omaggio degli italiani. Ma perché mai mortificarli in una disputa artificiosa contro quello di Amedeo di Savoia Aosta, Medaglia d’Oro al Valor Militare, ammirato in Italia e all’estero per la sua capacità di conciliare senso dello Stato e visione universale della Storia?

Non ne ripercorriamo qui la figura e l’opera. Venne fatto il 5 giugno scorso a Bologna per iniziativa del Nastro Azzurro presieduto da Davide Nanni, in occasione dell’intitolazione di una rotonda al principe Luigi Amedeo di Savoia Aosta, Duca degli Abruzzi, con partecipe intervento dell’Assessore ai Lavori pubblici e alla toponomastica, Simone Borsari, delegato dal sindaco Lepore, presenti il principe Aimone di Savoia Aosta, duca di Savoia e Capo della Real Casa, e autorità civili e militari. “Amedeo d’Aosta” (come il viceré d’Etiopia viene ricordato non per diminutio ma per sincera ammirazione e affetto da quanti lo conobbero o ne sentirono parlare o ne lessero), al pari di suo padre Emanuele Filiberto fu Artigliere a Venaria Reale: quella era infatti l’“arma dotta”, di avanguardia. Lì lo volle Vittorio Emanuele III, perché, memore della legge salica e dei novecento anni della Casa, riteneva che i “cugini” Savoia Aosta fossero la riserva aurea della Monarchia. I governi passano, lo Stato rimane. Di vocazione “marinaio”, Amedeo d’Aosta fu Artigliere (lo ha ricordato l’Associazione Nazionale Artiglieri d’Italia a Venaria Reale il 18-19 giugno con i generali Pierluigi Genta e Luigi Cinaglia, promotore della suggestiva Mostra “Strappi, tra violenza e indifferenza”, completa di catalogo) e pilota nella nascente aeronautica, “proiezione” della cavalleria sin dalla Grande Guerra. Militare come tutti i principi della Casa Savoia Carignano, nipote dell’omonimo Aosta per breve tempo re di Spagna (1870-1873), da generale di aviazione di stanza a Gorizia e dimora nell’infausto Castello di Miramare a Trieste, nel 1937 Amedeo venne nominato viceré d’Etiopia per rimediare ai guai del predecessore, Rodolfo Graziani. Si era laureato molti anni prima a Palermo con una tesi proprio sui “Rapporti giuridici fra gli Stati moderni e le popolazioni indigene delle loro colonie”, da lui conosciuti e studiati sulle orme dello zio Luigi Amedeo.

Fu egli “fascista”? Fu “governativo”, come erano e dovevano essere i principi della Casa, i militari e tutti i pubblici impiegati entrati come lui “in servizio” prima dell’imposizione del giuramento aggiuntivo di fedeltà al “regime”. Dopo il quale Benedetto Croce consigliò che era meglio prestare quel tributo “formale” piuttosto che essere sostituiti da manutengoli del fascismo. Quando venne chiesto il dono dell’“oro alla Patria” anche il filosofo fece la sua parte. Perché così sono i Patrioti, sull’esempio degli Inglesi per i quali, sia nel diritto o no, la Patria è “il mio Paese”. Essi hanno alle spalle la guerra delle Due Rose, la decapitazione di Maria Stuarda e di Carlo I, il lord protettore Cromwell, la cacciata dell’ultimo Stuart, la ricerca di un sovrano “di passo”, debitamente domesticato. E anche un po’ di venturieri come Drake, Raleigh e ugole d’oro elevate a baronetti perché “pecunia non olet”. Rappresentano la continuità della storia, incarnata nella monarchia.

Patriam recuperare

Stato ancora giovane, con tanti, troppi, nostalgici di fiabe pre-unitarie, l’Italia odierna ha bisogno di tutto tranne che di cancellare la memoria storica della propria identità, che risale ai Latini, ai Cesari, agli Illuministi, ai patrioti del Risorgimento e ai Savoia re d’Italia. Lo ha insegnato proprio il Presidente Sergio Mattarella che nel dicembre 2017 propiziò la traslazione delle salme di Vittorio Emanuele III e della Regina Elena da Alessandria d’Egitto e da Montpellier al Santuario di Vicoforte, nel Vecchio Piemonte, “per ricomporre la memoria storica”, come scrisse la Principessa Maria Gabriella di Savoia di concerto con la Consulta dei senatori del regno. Per stare in Europa e nel mondo attuale e venturo, quello delle massime potenze continentali (la tetragona ma declinante Federazione Russa e soprattutto la Repubblica popolare cinese, mentre gli Usa sono sulla soglia della deflagrazione) l’Italia deve mettere tra parentesi le fazioni e riscoprire la propria identità. Dopo i quattro re susseguitisi dal 1861 al 1946, nei successivi 74 anni essa contò quattordici elezioni di presidenti della Repubblica, non tutti saldamente presenti nel ricordo dei cittadini.

Cancellare il nome di una Medaglia d’Oro al valor Militare da insegna di un Liceo è quanto di peggio si potrebbe fare in un Paese che ha urgenza di riscoprire storia, valori, motivazioni civili. Per fermare la corsa verso l’oblio della storia vera bisogna confidare in un guizzo di orgoglio civile di cittadini, docenti, insegnanti e allievi e, come la Consulta dei senatori del regno, sollecitare il parere negativo vincolante del sindaco di Pistoia, Alessandro Tomasi, sorretto da Fratelli d’Italia, Forza Italia, Lega e affini, e del Prefetto di Pistoia, dott.ssa Licia Donatella Messina, cioè dello Stato d’Italia, che non è nato con il referendum del 2-3 giugno 1946 ma dal Risorgimento.

Aldo A. Mola 

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Articolo pubblicato il 26/06/2022