Il 28 giugno (15 giugno), data fatidica per i serbi

di Kalemegdan (Seconda Parte)

Uso politico della storia

La battaglia di Kosovo è presentata con un sentimento di rivalsa e di consolidamento nazionale: cade lo Stato ma rimane la nazione serba che risorge nel momento in cui Herder ha piantato la solida pianta del nazionalismo, ove Napoleone è all’apice e la Restaurazione serve da incubatrice agli Stati nazionali.

Spesso, con mentalità del tutto occidentale, affermiamo che la storia la fanno i vincitori.

Ad oriente non è sempre così, soprattutto nei paesi a matrice ortodossa o greco cattolica. Il ciclo di Kosovo infatti riporta il mito della “vittoriosa sconfitta” e i successori dei caduti di Kosovo sono tenuti a vendicarli secondo una scala di giusti valori. E questo mito viene così usato in politica.

La battaglia in oggetto, benché sia uno scontro minore rispetto ad altri tatticamente e strategicamente molto più importanti, diviene centrale per la storia e l’identità serbe. Il racconto si veste di divino, il tradimento viene esaltato e viene promesso un regno celeste ai difensori della fede cristiana contro i musulmani.

Da un lato una rilettura orientale della crociata e dall’altro un’influenza chiaramente bizantina che si allargherà poi alla Terza Roma o Russia zarista. È una lettura opposta ma complanare di quanto dice l’Islam sulla guerra lecita. Il mito e la visione celeste portano a consolidare il destino storico della costruzione di una Grande Serbia e il cantiere in cui viene forgiata tale identità serba fu quello letterario. È chiaro l’intento di espandere la Serbia al massimo fulgore raggiunto al tempo di Dusan Nemanija che nel 1331 venne incoronato re e che al suo apogeo dominò la Macedonia eccetto Salonicco, l’Albania, l’Epiro e la Tessaglia, concedendo all’arcivescovo della chiesa serba ortodossa il titolo e il rango di Patriarca. E lo stesso incoronò Dusan imperatore o zar dei serbi e dei greci; nel 1346 ottenne ancora i titoli di zar degli albanesi e dei bulgari. E fu qui che Bisanzio si allarmò e chiamò in aiuto i turchi ottomani che entrarono in Europa come alleati di Costantinopoli. In pochi anni l’impero serbo si disperse.

Lazar Hrebeljanovic, dopo il martirio subito per mano turca, venne santificato dalla chiesa serba che ebbe sempre una parte importante nella stessa politica serba.

In uno studio di Alessandra Arru dell’Università di Barcellona, vengono ben descritti gli scopi del ciclo di Kosovo assieme agli elementi che lo contraddistinguono: esaltazione del sacrificio della vita per realizzare un ideale, inversione dei valori di sconfitta e vittoria, in cui la volontà sacrificale conduce alla santità con un profondo valore catartico.

Tale realizzazione viene a combaciare con quella della Serbia e del suo popolo, là ove si crea un’identità cristiana nazionale e vi è il raggiungimento di un Regno Celeste che si associa al nuovo Stato serbo. E chi come pòturo abbandona la vera fede cristiana - come fece Vuk Brankovic - è un traditore da eliminare. È una tematica che si ritrova ad esempio, nel Gorski Vjenac o Serto della Montagna di Petar Petrovic Njegos, vladika o vescovo-principe di Montenegro.

Il mito diviene quindi parte essenziale della storia del popolo serbo che è coraggioso ma è circondato da nemici e da traditori che tentano di eliminarlo politicamente e religiosamente e che deve combattere per poter difendere la religione e ottenere la propria salvezza.

Sarebbe bello, ma non è qui la sede, analizzare quanto c’è di atavico in tale comportamento serbo e slavo in genere e quanto invece è stato artificialmente aggiunto successivamente. È chiaro che un substrato caratteriale volto in tal senso esiste da sempre. Il passo tra religione e politica è breve e rapidamente si traduce in un forte nesso. Regno Celeste significa Grande Serbia e il Kosovo diviene così la “culla della nazione serba” ove si crea un legame di sangue generazionale tra i serbi e coloro che versarono il loro sangue in battaglia.

A partire dall’ultimo scorcio del XVIII secolo, gli intellettuali serbi esuli a Vienna concepirono il disegno nazionale della Serbia e uno di questi fu lo stesso Karadzic che studiò il problema linguistico, culturale e nazionale e definì la nazione serba. Tra l’altro nel 1850 fu uno dei sottoscrittori dell’accordo letterario di Vienna ove con croati e sloveni definì i canoni della lingua nascente nei territori slavo meridionali.

A questo punto il politico Ilija Garasanin, più volte ministro, disegna la politica serba nel suo “Nacrtanje” o progetto, del 1844. La Serbia avrebbe dovuto inglobare l’Albania, il Kosovo e la Bosnia con uno sbocco al mare onde bilanciare Austria e Russia e doveva diventare potenza egemone nell’area. Garasanin guardava allo scacchiere internazionale e non allo Stato uninazionale. Il tutto veniva considerato sotto un’aura di sacralità onde realizzare un destino che tendeva a ricomporre l’antico regno serbo (cfr. p. es. Tim Judah, The Serbs: history, myth and the destruction of Yugoslavia, Yale, seconda ed., 2000, p. 58).

Tale modo di pensare fu portato avanti da altri storici e politici.

Ad esempio Nikola Stojanovic in “Srbi i Hrvati” del 1902 ove chiaramente diceva che le cose si sarebbero risolte tra questi due popoli “fino al nostro o al vostro sterminio” perché i croati secondo lui erano serbi che abbracciarono il cattolicesimo; Jovan Cvijc, molto in auge a Parigi al termine della prima guerra mondiale, che dettagliò l’espansione storica del popolo serbo che avrebbe potuto rivendicare anche territori abbandonati da tempo; Vasa Cubrilovic, teorico della pulizia etnica con il famoso “Iseljavanje Arnauta” (esodo degli albanesi che in segno di disprezzo sono chiamati arnauti) del 1937, ripreso nel 1944; Dobrica Cosic fautore del serbismo centralista fin dal 1961 e delle teorie inerenti il privilegio della cultura e della lingua serba.

Tali premesse portarono tutte al nazionalismo aggressivo di Milosevic degli anni ’90 del XX secolo con i precedenti di due Jugoslavie, una monarchica e l’altra comunista, sotto egida serba.

Nella Jugoslavia comunista le tendenze centrifughe vennero comunque congelate da Tito che esercitò un certo bilanciamento dei poteri in modo che la Serbia, almeno ufficialmente, non fosse sempre egemone e quando nel 1971 con la Primavera Croata tentò una certa misurata autonomia la Croazia, anche questo tentativo venne stroncato.

Il 1986 costituisce un anno importante nella dissoluzione della Jugoslavia perché compare il Memorandum dell’Accademia Serba delle Scienze e delle Arti (SANU) firmato da diversi intellettuali, in primis Dobrica Cosic poi Presidente della Federazione Jugoslava residua: Serbia e Montenegro tra il 1992 e il 1993.

Nel lungo Memorandum si diceva chiaro: “Serbia è dappertutto dove vivono i serbi!”. Evidentemente tale affermazione non considerava la differenza tra serbofoni e serbofili; l’interesse puntava solo sui secondi annullando i primi come se non ci fossero o fossero stati dei traditori, dei pòturi, poiché serbofono può voler dire serbo antiserbo ossia non nazionalista, magari jugoslavo o anche bosniaco o croato. Ed esempi ve ne furono molti. Il più noto forse è quello di Jovan Divjak che nato a Belgrado, ma essendo bosniaco di origini, colonnello e poi generale dell’esercito jugoslavo, passò a comandare i bosniaci contro i serbi.

Altro concetto del Memorandum è “Serbia forte e Jugoslavia debole, Jugoslavia forte e Serbia debole”. La Serbia per essere forte deve essere egemone nella Jugoslavia perché questa venne costruita a scapito dei serbi onde indebolirli.

Seguono poi altre ulteriori storture del tipo che nelle varie repubbliche federate vivono serbi che non hanno il diritto all’uso della loro lingua e del loro alfabeto, alle loro organizzazioni politiche e culturali.

I serbi di Croazia non hanno mai usato il cirillico e parlano lo stokavo ijekavo e qualche volta ikavo come i croati; i montenegrini, considerati serbi, parlano e scrivono allo stesso modo in ijekavico pur usando il cirillico.

Gli unici ad usare il cirillico sono i serbi di Bosnia ma sempre ijekavo-ikavici. Sono le lingue del che cosa? Sto? Mentre le neolatine sono quelle del .

I serbi parlano stokavo ma ekavico a partire dal 1877.

L’esempio che segue chiarisce il concetto:

lijepo (ijekavo)

lipo (ikavo)

lepo (ekavo)

(bello)

pijesma (ijekavo)

pisma (ikavo)

pesma (ekavo)

(canzone)

mijesto (ijekavo)

misto (ikavo)

mesto (ekavo)

(luogo)

 

 

In genere però l’ikavo è tipo di variante dialettale del croato cakavo (che cosa è ca?) di Dalmazia, isole e Istria ed è molto più raro nello stokavo se non per qualche isola in Slavonia e Bosnia.

(La spiegazione sintetica e semplificata, poiché vi sono ancora altre due forme dialettali minori del croato che esulano dal contesto, è dovuta per far comprendere ai non addetti ai lavori l’uso di certa terminologia).

Kalemegdan

Fine della seconda parte - Continua

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Articolo pubblicato il 29/06/2022