Il 28 giugno (15 giugno), data fatidica per i serbi

di Kalemegdan (Terza e Ultima Parte)

Con la Jugoslavia quindi si sarebbe progressivamente distrutto lo spirito serbo, sia nella prima Jugoslavia monarchica, soprattutto dopo l’assassinio di re Alessandro e con la reggenza del principe Pavle, poiché si giunse comunque nel 1939 all’instaurazione della Banovina croata che ricomprendeva, oltre alla Croazia, l’Erzegovina arrivando sulla costa fino a Cattaro, la Posavina o territorio al di sotto della Sava e quindi bosniaco fino a Zemun alle porte di Belgrado con parti dello Srijem, che, ancor più, nella seconda Jugoslavia comunista ove comunque Tito e il partito controllavano e bilanciavano ogni andamento che andava fuori dallo stretto jugoslavismo: non troppa autonomia, non troppo centralismo, non troppo estremismo ecc. (cfr. Ante Ciliga, Labirinto Jugoslavo, Jaca Book, 1983).

In tal modo si ebbe sempre una retrocessione dei serbi.

Ciò non considerava o meglio non voleva considerare le innovazioni apportate nella lunga Costituzione del 1974, l’ultima, che dava più autonomia a tutte le repubbliche e alle due unità autonome Vojvodina e Kosovo, tanto che con procedura ad hoc ogni repubblica che lo desiderasse, avrebbe potuto uscire dalla Federazione.

Ma i serbi non volevano una Jugoslavia forte e neppure le autonomie: volevano la Grande Serbia.

Il Kosovo era considerato la regione attraverso cui la Jugoslavia combatte i serbi che con molta esagerazione parlarono di genocidio. In realtà da secoli i serbi migrarono dal Kosovo in Serbia soprattutto per motivi economici più che politici ed è chiaro che gli albanesi occuparono i posti liberi. L’emigrazione fu forte anche al tempo della Jugoslavia e il Kosovo rimase fondamentalmente un territorio sottosviluppato ed è chiaro che con la Costituzione del 1974 che riconosceva il Kosovo come unità autonoma, l’emigrazione aumentò perché come Manzoni dice nel cap. XXXVIII dei Promessi Sposi, “la Patria è dove si sta bene”.

Con la redistribuzione del potere, al principio degli anni ’80 i serbi erano il 10% della popolazione kosovara. I serbi dovevano quindi ad ogni costo recuperare la loro grandezza nel momento in cui la Jugoslavia tra inflazione, debito estero, debito pubblico, svalutazione ecc. era giunta alla fine.

Per far ciò andava risvegliato il mito di Kosovo nel popolo serbo e il culto del 28 giugno 1389. Milosevic, segretario del PC serbo, vide nel nazionalismo un modo per consolidare il proprio potere e si propose come una sorta di nuovo Lazar.

Il suo atteggiamento cambiò nel 1987, da quando smise di essere comunista ossia da quando smise di considerare il nazionalismo come atteggiamento pericoloso e dannoso nell’insieme jugoslavo ormai allo sbando. Facendo così però creò un precedente e risorsero a poco a poco anche gli altri nazionalismi.

Nel 1989 tenne un discorso nel 600° della battaglia di Kosovo, il 28 giugno 1989, improntato al più smaccato nazionalismo onde recuperare la dignità perduta della Serbia attraverso una sua nuova unità, a danno dei traditori che prosperavano nelle stesse file serbe. Samo sloga Srbe spasava e cioè solo la concordia salva i Serbi fu lo slogan rispolverato per l’occasione, usato nei tempi di crisi del popolo serbo e richiamato dalle quattro C rosse (in cirillico S = C) a lato della croce dello stemma serbo.

In campo entrò pure la chiesa ortodossa serba perché il 27 giugno le spoglie di Lazar vennero deposte nel monastero di Ravanica dopo un pellegrinaggio di due anni nei territori serbi di Bosnia e Serbia. Al passaggio del feretro accaddero manifestazioni nazionaliste e veniva ricordato a tutti i serbi come dovessero emulare Lazar.

Si raggiunse un grado di nazionalismo patologico, nel momento in cui personaggi come Milosevic, Karadzic (leader dei serbi di Bosnia), il paramilitare cetnico Zeljko Raznatovic detto Arkan (comandante delle Tigri ex tifoseria della Stella Rossa) e lo stesso gen. Mladic, autore poi del massacro di Srebrenica, vennero paragonati spesso a Milos Obilic che uccise il sultano Murad o a Lazar, santificato dalla chiesa ortodossa serba e così cantavano le canzoni turbofolk dell’epoca che avevano una leader nella stessa moglie di Arkan, Ceca.

Ruolo della chiesa ortodossa autocefala serba

Secondo Radmila Radic, storica e ricercatrice di storia moderna della Serbia a Belgrado (La chiesa e la questione serba, 1998; “Crkva i 'srpsko pitanje”, Srpska strana rata – Trauma i katarza u istorijskom pamcenju, pr. Nebojša Popov, Beograd, 1996, 267–305 ripubblicato nel 1999 in francese come Radiographie d’un nationalisme, AA.VV., p. 137 e ss. Paris, 1998, Editions Ouvrières), per prima fu la chiesa ortodossa serba a restaurare e rivitalizzare il mito di Kosovo già nell’aprile 1982, a due anni circa dalla morte di Tito e in occasione dei disordini e della repressione in Kosovo.

I popi ortodossi indirizzarono un appello alle più alte istanze della Serbia e della Federazione. Tale scritto fu un modo per levare la voce onde difendere l’essenza spirituale e biologica del popolo serbo di Kosovo - Metohija (territorio ad occidente del Kosovo ove Pec possiede una minoranza serbo-montenegrina e fu sede del Patriarcato serbo). Secondo la chiesa ortodossa serba l’obiettivo finale degli albanesi kosovari era lo sterminio di tutti i serbi lì residenti e gli albanesi venivano per questo definiti nazisti (Nihil sub sole novi) miranti al genocidio.

Vero è che novemila kosovari vennero a formare nel 1944 la divisione SS Skanderbeg sotto comando tedesco, ma è pur vero che erano trascorsi quasi 40 anni dagli eventi e che gli uomini di Tito avevano effettuato un repulisti radicale della regione di notevole importanza per Belgrado, fino al 1948, ma i serbi, per motivi economici e non politici, continuarono a migrare.

Notare che molte petizioni, come quella di Zemun (località non scelta a caso per i suoi trascorsi storici croati), vennero inviate il 28 giugno e sempre sul medesimo tema. Si chiesero provvedimenti draconiani a carico degli albanesi e uno fra tutti era il divieto di manipolare alimenti in territorio serbo da parte albanese e venne chiesto il trasferimento della sede patriarcale serba a Pec.

S’instaurò una vera e propria paranoia nazionale.

Scaturirono quindi le tematiche epiche del ciclo di Kosovo. La cosa si dilatò ancora e la chiesa ortodossa serba iniziò a parlare delle sofferenze dei serbi in ogni parte della Jugoslavia e qui iniziò il tema del campo di sterminio ustascia di Jasenovac in Croazia fino a diventare un mito serbo con un milione di morti.

In realtà, dalle registrazioni effettate, i deceduti totali furono tra i 77 e i 99.000 di cui da 45 a 52.000 serbi, il resto furono ebrei, zingari, oppositori del regime, partigiani (Sono le cifre già fornite dallo storico croato Vladimir Zerjavic che tra l’altro fu consulente dell’ONU).

Il difensore universale degli ortodossi, Sua Santità il Patriarca di Rus’ Pimen fu accolto a Kosovo nel 1984 da una folla immensa a dimostrazione dell’interesse della Russia a difesa della Serbia.

Il Patriarca di Costantinopoli è primus inter pares ma non ha nessun potere sulle chiese ortodosse autocefale orientali per cui l’uomo più potente è il Patriarca russo che parafrasando Stalin, possiede “le divisioni necessarie” e talvolta da lui benedette, onde rendersi plausibile verso il mondo.

Un potente funzionario statale che appoggia il potere.

Tra l’altro, già nel XIX e poi nel XX secolo, le petizioni dei serbi che si lagnavano degli albanesi, venivano inviate anche allo zar di Russia. La chiesa autocefala serba divenne il perno della vita nazionale nel momento in cui il comunismo tramontava, un’istituzione che lungo la storia mai tradì i serbi, almeno a suo dire.

Ecco che tale chiesa propugna una visione conservatrice tesa a smontare l’idolatria occidentale, Papa compreso, il nihilismo, l’anarchia, rifiutando la cultura e la civilizzazione occidentali e il vaticanismo fatto di “eccessi vampiristici di scolastica e filosofia e di gesuitismo cannibale in etica…” (J. Popovic, teologo e professore serbo ortodosso in Glas Crkve - La voce della chiesa, Valjevo, n. 3, 1986).

L’innesco della crisi è dovuto in primo luogo alla chiesa locale e più in superficie dai politici locali (il primo nazionalista fu Vuk Draskovic che già nel 1987 era fortemente legato a posizioni estreme) con essa collusi con uno strato di mezzo costituito dai membri dell’Accademia delle Scienze.

La chiesa ortodossa serba non si accontentò di attaccare i croati per il campo di Jasenovac, ma se la prese direttamente con la Chiesa Cattolica croata per diverse affermazioni in difesa dei croati e della loro fede, apparse sul Glas Koncila o La Voce del Concilio, poi attaccò Sarajevo e i musulmani di Bosnia accusandoli di genocidio culturale e religioso e infine il Montenegro, per via dello statuto autocefalo della chiesa locale, ritenuta serba.

Ma i diversi mandanti ecclesiastici ortodossi e i sedicenti intellettuali dell’Accademia serba, pur avendo propalato a piene mani il nazionalismo e lo scontro etnico e religioso, mai pagarono come mandanti, al Tribunale dell’Aja.

La cosiddetta carsija (turco come mercato ma anche centro del potere, centro decisionale ristretto, circolo occulto e quindi zona grigia del potere) non venne praticamente intaccata se non per i fautori di spicco del nazionalismo serbo come Milosevic, Mladic e Karadzic; ma il resto dell’iceberg è rimasto sommerso.

Lo stesso Arkan era appoggiato dalla chiesa locale e lui stesso era il favorito del Patriarca Pavle che reputava suo comandante e fece battezzare la sua banda armata dal vescovo Lukijan a Dalj (Slavonia orientale croata), ove tra l’altro vennero uccisi almeno 91 croati di cui 56 civili.

Inoltre, Arkan aveva pure massacrato tutti gli anziani di una casa di riposo a Bijelina in Bosnia. Portava su di sé un’immagine di S. Nicola firmata dal Patriarca (Danas, 8- 23/11/1991). Ciò non impedì di ucciderlo, nel 2000, in piena Belgrado e in perfetto stile gangsteristico. Evidentemente sapeva troppo.

Ecco come il culto feticistico di una data può diventare patologico e portare a comportamenti estremi che non hanno nulla di religioso ma che sconfinano nella superstizione, mantenendo però vivo sotto la cenere il fuoco del nazionalismo.

Con tali riflessioni si è fornita una chiave per comprendere ciò che avviene oggi in Ucraina, ripetizione in grande di quello che avvenne trent’anni fa nell’ex-Jugoslavia.

Kalemegdan

Fine della terza e ultima parte

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Articolo pubblicato il 30/06/2022