Una "Santa" un po' così!

di Alessandro Mella

I paeselli di montagna sono sempre ricchi di storie, storielle e leggende con qualche frammento di verità mescolato al mito ed alla favola.

E Viù (Torino) non è certo da meno con le sue tante frazioni, secoli di storia, vicende particolari e curiose situazioni locali.

Uno di questi miti è senz’altro quello della “Santa” della località Vignette di San Vito, storia dai contorni inquietanti e misteriosi.

La prima versione dei fatti la troviamo nel celeberrimo volume “Favole e leggende della Valle di Viù” del 1977, opera cui concorse la compianta Donatella Cane ed a cui parteciparono anche Elena Guglielmino con Anna e Laura Rivotti.

Val pena riportare il brano originale come loro fecero in quella bella pubblicazione:

«Un tempo non c’era il ponte Barolo per venire su a Viù e c’era una strada che chiamavano la strada dei boschi e passava per l’Inverso, attraversava il Rio dell’Agnello, andava alle Toglie e da lì su fino alle Vignette e poi potevi andare ai Mulini o alle Fucine.

Là alle Vignette c’era una donna che dava ospitalità a tutti i forestieri che passavano per la strada dei boschi.

Quella lì aveva anche fatto costruire una cappella vicino a casa e dei piloni che andavano giù fino a Stura.

Le donne della borgata accanto, tutte contente di avere una cappella a due passi, dicevano: “Ah, è proprio una santa! Puoi capire, far fare una cappella così bella! E' proprio una santa!”.

Ma qualcun altro saltava fuori a dire: “Ma che santa e santa! Io non credo che sia una santa!”.

“Ma fa fare anche i piloni della Via Crucis”.

“Ma i soldi dove li prende?”.

“Non è di Viù e vive anche isolata e noialtri non la conosciamo bene”.

E facevano grandi chiacchierate e discussioni, finché la notizia della santa è venuta alle orecchie di Don Bosco, il quale ha detto: “Come va quello? Ah, vado su io a vedere”.

Si è travestito da merciaio ambulante, ha preso la strada dei boschi ed è arrivato alle Vignette.

Là ha messo il naso dappertutto, poi fa: “E' una santa indiavolata!”.

Allora sono andati a vedere nella cappella e dietro all’altare han trovato teste di morto, braccia, gambe, tutto quel che si può credere.

“Ahimè, che cos’è quello?”.

“Sono ossa di persone, guarda qua”.

“Chi sono?”.

“Ah, io l’avevo detto che non era una santa”.

Un tale s’è battuto la mano sul capo e ha detto: “Ecco dove prendeva i soldi!”

Così hanno capito che lei alloggiava i forestieri e li uccideva per prendere loro i soldi per fare la cappella e i piloni.

E dopo di allora, il posto là con la casa e la cappella l’han sempre chiamato la Santa».

La favoletta sembra immaginata proprio per stuzzicare la fantasia dei più, magari la sera davanti al focolare come si faceva un tempo, quando non c’era la televisione e si raccontavano storie e tramandavano ricordi prima del riposo dal lavoro della giornata.

Comunque, a Vignette, in effetti, una cappella ormai sconsacrata, in rovina e piuttosto datata esiste. Chiesina un tempo dedicata alla Natività di Maria Vergine SS. Per quale ragione fu abbandonata all’oblio non è dato saperlo. Ricorda, a riguardo, Milo Julini che condusse indagini sull’argomento:

«La cappella è separata dalla casa da un prato in cui alcuni degli informatori ricordavano di aver giocato a bocce da bambini con i teschi, ora scomparsi, che prendevano dietro all’altare della cappella».

Tracce e notizie di questa costruzione si trovano nelle relazioni delle visite episcopali del 1838, 1895 e 1913.

Dalla prima si evince come allora la cappella fosse pienamente vivente e munita del necessario ma già nel 1895, citata come di proprietà della famiglia Aires Silett, essa risultava “interdetta”. Interdizione e decadenza confermate dal testo del 1913.

Una supplica del 1875, firmata da Giovanni Battista Ajres detto “Silet”, lascia intendere che la cappella fosse stata edificata da suo padre Domenico nel 1833 e che questi, in seguito ad alcuni miracoli ad essa attribuita, l’avesse ampliata per farne un santuario mai consacrato. Ragione della lamentala dell’autore del documento.

Quali fatti avevano bloccato la sospirata consacrazione?

Difficile credere che veramente la “Santa” assassinasse i viandanti di passaggio e ne nascondesse i miseri resti e quasi certamente questa versione dei fatti fu inquinata dal mito popolare, uno schema classico, quasi antropologico.

Probabilmente la ragione fu molto più concreta e molto più semplice e una testimonianza sull’argomento si trova nel volume “Memorie biografiche del Sacerdote Salesiano Don Giovanni Battista Lemoyne”.

Correva l’anno 1846 e da poco era stato eletto papa il pontefice Pio IX, amato ed odiato, personaggio che ebbe un atteggiamento non sempre lineare nei confronti delle rivendicazioni unitarie italiane.

Poche settimane dopo le elezioni monsignor Fransoni, vescovo di Torino, stanco del gran vociare che gli giungeva dalle Valli di Lanzo, incaricò nientemeno che don Bosco di recarsi a far chiarezza in quel di Viù per condurre una:

«Inquisizione sulla condotta di una donna, la quale per certo suo modo di vivere creduto soprannaturale, erasi acquistato il soprannome di Santa di Viù. Essa non contraddicente, si era sparsa la voce che da gran tempo non fosse stata vista da alcuno prendere cibo. Delle molte elemosine che riceveva ne faceva però buon uso, beneficando fanciulle povere ed orfanelle. La gente ricorreva a lei per consigli e per raccomandarsi alle sue preghiere».

Dopo aver accompagnato don Cafasso a Sant’Ignazio di Pessinetto per i suoi esercizi spirituali, il nostro prese la via di Viù per andare ad investigare su cosa stesse accadendo in quel borgo alpestre.

Egli, dalle informazioni che aveva preso, si era persuaso che la donna fosse rispettosa delle leggi della chiesa ed incline a far del bene ma un poco ammaliata dal narcisismo e dall’ignoranza. E la buona fede non poteva certo bastare a giustificare la sua condotta.

Egli si fece dunque annunciare, tramite il signor Melanotti testimone dei fatti, alla “Santa” ma avendo cura di lasciarle intendere di non dar molto importanza alle sue presunte virtù, quasi a volerne provocare lo spirito e l’amor proprio.

Così quando, con molta calma, giunse presso di lei si unì agli altri fedeli che le stavano attorno per udire ed ivi restò finché non fu presentato.

Chiese di poter parlare in disparte con la signora ma questa ebbe già una prima reazione scortese che indusse il don Bosco a persuaderla, con la dovuta delicatezza circa l’utilità di quel colloquio riservato finché ella acconsentì.

Come i due si trovarono nella stanza attigua il pio sacerdote ne stuzzicò subito l’ego con parole assai dure: “Da quanto tempo voi fate questo mestiere di ingannatrice, di ipocrita, di cialtrona?”.

Ella andò su tutte le furie e prese ad urlare inviperita mentre don Bosco, quietamente, ne ascoltava il violento sfogo, la rabbia, il crescente rancore.

Solo quando si calmò le spiegò, con toni pacati, che egli non voleva offenderla ma sincerarsi solo delle sue virtù. Se fosse stata davvero una santa, e non una mistificatrice, la sua umiltà e pazienza ne avrebbero frenato e moderato le scomposte reazioni per moto spontaneo.

Quella sceneggiata furiosa gli confermò i sospetti che fosse tutt’altro che intrisa di santità.

Poi, con candore quasi misto ad affetto, le spiegò quali danni ella avrebbe subito se fosse stata smascherata pubblicamente. Non solo nel suo personale prestigio e nella sua onorabilità ma anche, nel concreto, per via dei provvedimenti che l’autorità civile avrebbe senz’altro intrapreso nei suoi riguardi.

La povera donna si riebbe e toccata dalla benevolenza del sacerdote e dalle sue parole espresse tutto il suo vivo pentimento e lo rassicurò che nulla aveva fatto per suo tornaconto ma anzi aveva usato quel mezzo per soccorrere fanciulle bisognose.

E don Bosco, percependo sincerità in quello sfogo più umile ed umano, volle perdonarla e la esortò a condurre una vita più sobria e morigerata cosa che lei prese a fare in un altro paese ove la sua condotta smentì, nei fatti, le dicerie e superstizioni di cui si era adornata e beata nel passato. E così quando il don Bosco tornò dal vescovo ebbe modo di rasserenarlo su come si erano risolti gli incresciosi fatti della “Santa di Viù” che santa cessò d’essere restituita, come fu, ad una vita di migliori e forse reali virtù.

Alessandro Mella

L’autore desidera ringraziare Milo Julini per la cortesia riservatagli e, con l’occasione, rinnovare un grato e commosso pensiero alla memoria di Donatella Cane cui tutti e tutte noi molto dobbiamo.

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Articolo pubblicato il 11/07/2022