La parabola della Libia italiana
Italo Balbo (Ferrara, 6 giugno 1896-Tobruk, 28 giugno 1940)

Chi sta meglio oggi? (di Aldo A. Mola)

Tripoli, bel suol d’amore

Appena al di là del mare, la Libia è nel caos. Chi vi ha messo piede (la Federazione russa e la Turchia) vi rimane. Bastano pochi “uomini” e armi.

Assillata dall’instabilità del governo e in cerca di gas e petrolio in lande remote, senza più badare se i “produttori” siano o meno “democratici”, quale influenza esercita oggi Roma sulla sua antica “Quarta Sponda”? In “Missione”, scritto con Marco Valerio Lo Prete (ed. Luiss University Press), il Generale Claudio Graziano ha narrato come, a margine di una rappresentazione del “Nabucco”, nel remoto 2011 l’Italia abbia aderito alla guerra voluta dalla Francia di Sarkozy e dagli USA per spazzare via Gheddafi. Quel “dittatore” fu orribilmente suppliziato. Venne annientato affinché non parlasse mai più. La Libia deflagrò. Precipitò nell’abisso e vi rimane. Quando decise di intervenirvi l’Italia rincorse antiche speranze o subì decisioni altrui? Un decennio dopo giova ripercorrere rapidamente i trent’anni dalla sua riconquista all’eclissi (1921-1951).

 

Una Vittoria con tanti debiti...

Dalla Grande Guerra del 1914-1918 il regno d’Italia uscì militarmente vittorioso ma con un gravosissimo passivo finanziario, demografico ed economico-sociale. Dopo il crollo dell’impero di Russia (1917), devastato dalla rivoluzione e delle guerre tra bolscevichi e “armate bianche”, dopo la dissoluzione di quelli austro-ungarico e turco ottomano e la crisi interna dell’impero germanico, squassato dai conflitti tra corpi franchi e spartachisti mentre la popolazione sprofondava tra fame e svalutazione della moneta, l’Italia risultò l’unico Stato monarchico rilevante nell’Europa di terraferma. La Spagna, rimasta neutrale, nel 1917 fu sull’orlo della guerra civile per la irrequietezza cronica della Catalogna, come sempre eterodiretta. Molti militari cominciarono a orientarsi verso un regime autoritario come quello poi instaurato da Manuel Primo de Rivera.

In Italia la Vittoria fu tarpata dal gigantesco debito pubblico, dalla svalutazione del potere d’acquisto di stipendi e salari, la rarefazione dei beni di consumo essenziali, la smobilitazione di milioni di soldati, graduati e ufficiali, e dal non facile passaggio dalla produzione di guerra a quella di pace, nel clima intossicato dalle polemiche retroattive contro l’intervento del maggio 1915 e contro il “militarismo”. Guidata dal presidente Vittorio Emanuele Orlando e da Sidney Sonnino la delegazione italiana al Congresso di pace (Parigi, 1919) risultò del tutto al di sotto del compito. Nell’aprile del 1919 chiese l’applicazione integrale dell’accordo di Londra del 26 aprile 1915, che, oltre a ingrandimenti irrilevanti Oltremare, prevedeva il possesso definitivo di Rodi e del Dodecaneso, e aggiunse l’annessione di Fiume. Mentre Gran Bretagna e soprattutto Francia, d’intesa con il nascente Stato jugoslavo, erano riluttanti o del tutto contrari, il presidente degli USA, Wilson, oppose un secco rifiuto. La delegazione italiana lasciò polemicamente Parigi. Wilson si appellò direttamente agli italiani scavalcando con arroganza le regole della diplomazia. Silvio Crespi, l’unico italiano competente al Congresso di pace, abbandonò la delegazione a suo avviso palesemente ignara del “disastro economico” incombente sull’Italia. Orlando e Sonnino erano ormai di “ostacolo alle trattative fra l’Italia e i suoi alleati e associati” (Aldo Mola, L’imperialismo italiano. La politica estera dall’Unità al fascismo, Roma, 1980, p. 335). La Camera sfiduciò il governo Orlando-Sonnino pochi giorni prima della firma del Trattato di Versailles tra i vincitori e la Germania, umiliata e condannata a “riparazioni” esorbitanti e dagli effetti devastanti. I successivi trattati di pace imposti dai vincitori ad Austria, Ungheria, Bulgaria e Turchia non arrecarono vantaggi all’Italia. Alimentarono le polemiche contro la “Vittoria mutilata”, deplorata da Gabriele d’Annunzio per il mancato riconoscimento di Fiume all’Italia. In un Paese corrivo alle emozioni la “questione fiumana” passò da pretesto a sedizione militare e quasi a “rivoluzione”, senza capo né coda.

La nuova legge elettorale il 15 agosto 1919 abolì i collegi uninominali, garanzia di convergenze equilibrate, e introdusse il riparto proporzionale dei seggi. Azzerò la stabilità dei governi, generò il vorticoso cambio dei ministri della Guerra (otto in tre anni), svigorì la politica estera e rallentò la riconquista della Libia, benché questa fosse urgenza primaria per confermare il ruolo dell’Italia nel Mediterraneo.

Il ventennio seguente dei rapporti tra l’Italia e la Quarta Sponda può essere scandito in diversi tempi, nettamente separati: il governatorato di Giuseppe Volpi conte di Misurata (1877-1947, ministro delle Finanze dal 1935 al 1928); la durissima repressione della guerriglia, soprattutto in Cirenaica, contro la sovranità dell’Italia, mai messa in discussione dalla Comunità internazionale; la riorganizzazione durante il governatorato di Italo Balbo (1933-1940), con ingenti investimenti per la realizzazione di opere pubbliche, la messa a frutto del territorio e, infine, il coinvolgimento della Libia nella seconda guerra mondiale.

Nel febbraio 1943 i militari italiani e l’Afrika Korps germanico comandato da Erwin Rommel (molto critico nei confronti dell’armamento degli italiani) lasciarono la Libia verso la Tunisia. Erano trascorsi 32 anni dalla dichiarazione della sovranità di Roma sulla “Quarta Sponda”. Quale bilancio trarne?

 

La lenta riconquista

   Durante la Grande Guerra la presenza italiana in Libia si ridusse a poche guarnigioni sulla costa. D’intesa con la Turchia, la Germania, sua alleata, inviò armi e uomini, anche con sottomarini, a sostegno della guerriglia contro gli “infedeli” italiani. Terminato il primo conflitto mondiale, la riconquista procedette a rilento. Ebbe molte fasi. Nella prima Giovanni Amendola, ministro delle Colonie, massone e teosofo, usò mano pesante. Nell’avanzata dalla costa si segnalò Rodolfo Graziani. Dopo il governatorato civile di Volpi, dal 1925 si impose un cambio di passo, anche a fronte della condotta della Lega delle Nazioni, che via via assegnò a Francia e a Gran Bretagna come “mandati” le colonie già possedute dall’Impero di Germania e le terre sottratte a quello turco, ridotto alla sola Anatolia e alla minuscola “Turchia europea”, presieduta da Ataturk (massone, ma in secondo tempo massonofobo), che adottò l’alfabeto latino e laicizzò la vita pubblica. La Francia aggiunse Libano e Siria al dominio su Algeria e Tunisia. L’Inghilterra, che già possedeva Gibilterra, Malta, Cipro e signoreggiava sull’Egitto, ottenne la Palestina (ridimensionando le aspirazioni dei sionisti e il “focolare ebraico” prospettato dalla dichiarazione Balfour) e l’Iraq. A differenza del governo italiano, altri sapevano bene dove fosse il petrolio, indispensabile dall’avvento dell’automobile. La Lega delle Nazioni (istituzione idealmente e politicamente diversa dalla Società delle Nazioni proposta nel Congresso di Parigi del 28-30 giugno 1917) non fu affatto un passo avanti verso la pace ventilata da Giuseppe Antonio Borgese in “Fondamenti della repubblica mondiale” (ora riproposti con prefazione di Sabino Cassese, ed. La Nave di Teseo) quale alternativa a quel che resta degli Stati nazionali. A cospetto della politica di “isolazionismo” degli USA dalle questioni europee, la Lega si risolse nel condominio franco-britannico diretto e indiretto, assecondato da Stati di seconda fila, e nell’emarginazione dell’Italia dai “grandi giochi”. Per rientrarvi, quest’ultima dovette dimostrare che la sua sovranità sulla Quarta Sponda non era solo nominale bensì effettiva. Le condizioni della lontanissima Somalia e dell’Eritrea, ripetutamente minacciata da scorrerie di etiopi foraggiati dagli inglesi, non lasciavano spazio a progetti di colonizzazione “moderna”, sull’esempio del Villaggio Italia personalmente curato sulle rive dell’Uebi-Scebeli, in Somalia, da Luigi Amedeo di Savoia, duca degli Abruzzi. Di lì l’urgenza di concentrare l’impegno in Libia. Con l’unico mezzo suasorio: le armi. Come facevano da secoli le altre potenze coloniali e gli USA nelle due Americhe (e poi altrove).

Proclamata la sovranità su Tripolitana e Cirenaica (5 novembre 1911) sorse la questione se la Libia dovesse essere considerata parte del “territorio dello Stato” e se dovessero esservi senz’altro applicate le leggi vigenti in Italia per tutti i suoi abitanti. La questione non era nuova. Se ne era discusso a proposito di Eritrea e Somalia ma esclusivamente agli effetti dell’articolo 5 dello Statuto, in forza del quale i trattati comportanti variazione del territorio nazionale non avevano effetto se non dopo l’assenso delle Camere. Le Colonie istituite prima dell’annessione della Libia vennero considerate “signorie” separate e distinte dallo Stato d’Italia. Se fossero state parte integrante del regno, la loro popolazione avrebbe avuto diritto a eleggere propri rappresentanti alla Camera dei deputati e le leggi del regno sarebbero state automaticamente vigenti nel loro territorio sin dall’emanazione, ai sensi dell’art. 1 delle disposizioni preliminari del Codice civile in vigore dal 1865. Quando ci arrivò, l’Italia scoprì che in Somalia e in Libia era ancora praticata la tratta degli schiavi negri. Nulla di novo sotto il sole. Per chiarezza, la distinzione tra il territorio metropolitano e quello delle colonie fu esplicitamente enunciata dall’art. 15 della legge sulla cittadinanza (l. 13 giugno 1912, n. 553): uno dei pilastri dell’età vittorioemanuelina-giolittiana.

La distinzione/separazione non escluse però la formazione di corpi rappresentativi locali all’interno delle Colonie. Ma per vararli occorreva la partecipazione dei “nativi”. Nominato governatore della Tripolitania. il generale Emilio De Bono, quadrumviro della cosiddetta “marcia su Roma” e implicato nell’“affare Matteotti” come direttore generale della pubblica sicurezza, nel 1925-1929 ne attuò quasi completamente la pacificazione.

Diversa fu la sorte della Cirenaica e del Fezzan, la cui popolazione era e rimase prevalentemente ostile nei confronti dell’Italia. Succeduto al generale Luigi Bongiovanni, Pietro Badoglio decise l’“annientamento totale del nemico” e combatté senza tregua le bande dei ribelli. Ordinò di fare terra bruciata. Molti abitanti vennero considerati nemici anche prima di essere costretti a divenirlo e a scegliere tra guerriglia contro gli italiani e riparo in Egitto. Nel novembre 1928 Badoglio minacciò che in Cirenaica avrebbe “distrutto tutto, uomini e cose”, se le tribù ribelli non si fossero sottomesse. Messo alla guida delle operazioni come vicegovernatore, Graziani ricorse alla deportazione di massa di tribù ritenute infide, ne chiuse altre in “campi” recintati con filo spinato, mentre venne stesa una barriera di reticolato lungo i trecento chilometri dal Mediterraneo all’interno.

A parte la diversa accentuazione dell’uso della forza, Badoglio e Graziani operarono in continuità per l’eliminazione del ribellismo con l’impiego di ogni mezzo disponibile. Non mancarono “incomprensioni” tra italiani e nativi, soprattutto per questioni concernenti la “legge islamica” e costumi che non potevano essere sradicati in pochi anni né solo “per legge”. Altrettanto avvenne nelle colonie di altri Paesi europei.

La riconquista culminò con la cattura e l’impiccagione di Omar al-Mukhtar (16 settembre 1931): una decisione deprecata da studiosi di storia coloniale inclini ad applicare retrospettivamente principi prevalsi dopo la decolonizzazione. Gli stessi che imporrebbero di “chiedere scusa” per la costruzione dell’Impero Romano, le crociate e l’invenzione della stampa grazie alla quale esplose la Riforma luterana.

Verso la disfatta

Durante il suo fattivo governatorato (1933-1940), Italo Balbo, a sua volta quadrumviro della “marcia su Roma”, massone, nettamente ostile alle leggi antiebraiche (mai applicate in Libia), voltò pagina con la realizzazione di opere pubbliche imponenti (la prima strada costiera, detta “Balbia”), la promozione dell’agricoltura compatibile con il clima e le avare risorse idriche, e l’accoglienza di immigrati dall’Italia: non solo “contadini” ma di tutte le professioni. Su suo impulso, speciale attenzione venne dedicata alla scolarizzazione. La Quarta Sponda visse anni di effettivo progresso civile, constatato anche da osservatori di Paesi ostili.

L’intervento dell’Italia in guerra a fianco della Germania, il 10 giugno 1940, segnò per tutte le colonie una drammatica svolta. Come noto, esso venne deciso nell’errata previsione di un conflitto di breve durata, con un piano di guerra “difensivo” su tutti i fronti. Roma era consapevole di quanto fossero esigui i mezzi militari a disposizione Oltremare e delle difficoltà che si opponevano ad alimentarvi lo sforzo bellico. Lo storico Gioacchino Volpe non esitò a scriverne direttamente a Mussolini. Il governo italiano spianò la strada alla richiesta di armistizio da parte della Francia prima che i tedeschi arrivassero sul Mediterraneo. La “pugnalata nella schiena” è propaganda. La guerra non terminò affatto. Invece di porre il Mediterraneo al centro dello sforzo bellico dell’Asse, Mussolini andò a rimorchio delle decisioni di Hitler.Nel primo anno dopo l’intervento andò perduta l’intera Africa orientale italiana. Dopo la dichiarazione di guerra della Germania contro l’URSS il “duce” destinò a quel fronte remoto le risorse che sarebbero state vitali per la Libia e per la difesa del territorio nazionale. Malgrado sforzi eroici, tra la primavera del 1941 e il novembre 1942 gli italiani subirono l’avanzata degli inglesi, che avevano alle spalle l’antico “dominio” sull’Egitto, il Vicino Oriente e la netta superiorità di mezzi navali e “punti d’appoggio” nel Mediterraneo, a cominciare dall’isola di Malta mai seriamente minacciata. Il 23 gennaio 1943 gli inglesi entrarono in Tripoli. Per la resistenza dell’Asse non bastò neppure l’Afrika Korps comandato da Rommel. Ne rimangono due nomi simbolo: Giarabub ed el-Alamein, entrambi resi famosi da canti guerreschi e da film che emozionarono e vanno guardati con rispetto per quell’Italia. Furono e rimangono due esempi dell’eroismo dei militari e della loro capacità di sacrificio, non in nome di un regime ma dello Stato sorto con il Risorgimento, l’unificazione nazionale e l’espansione coloniale, sino all’estrema resistenza comandata dal Maresciallo Giovanni Messe in Tunisia, più volte documentata e descritta dal generale Antonio Zerrillo.

 

E ora? 

Nel 1945 la Libia fece un salto nel passato remoto. Nel novembre Tripoli fu teatro di un feroce pogrom ai danni degli ebrei: 130 assassinati, sinagoghe date alle fiamme, violenze d’ogni genere soprattutto contro donne e ragazzi. Tre anni dopo, il 12 giugno 1948, si ripeté lo stesso orrore. La commissione d’inchiesta inviata dai “vincitori” per accertare se la Libia fosse in grado di autogovernarsi concluse che, tornata tra i paesi più poveri del mondo, in pieno caos e incapace di pensarsi in termini unitari, non lo era affatto. Contesa dagli appetiti neocoloniali delle potenze vincitrici (anche l’URSS di Stalin mirò ad inserdiavisi) il 24 dicembre 1951 la Libia venne riconosciuta Stato indipendente con Idris I (al-Sanusi Muhammad) quale monarca. Un paravento. Diciotto anni dopo vi esplose la “rivoluzione” degli “Ufficiali liberi”, sfociata nel regime di Gheddafi, chiuso nel sangue e nello sfascio totalitario tra il febbraio e l’agosto del 2011: cent’anni dopo l’“impresa” e la dichiarazione di sovranità dell’Italia sulla Libia, accompagnata dalla celebre canzone “Tripoli, bel suol d’amore”.

I sacrifici dei militari caduti Oltremare, a Giarabub e ad el-Alamein (non solo lì, s’intende, ma anche nell’Africa Orientale Italiana: basti ricordare la resistenza di Amedeo di Savoia Aosta sull’Amba Alagi) si saldarono con la riorganizzazione delle Forze Armate italiane dopo la resa senza condizione del 3-29 settembre 1943 e il Trattato di pace del 10 febbraio 1947 che misero fine all’indipendenza politico-militare dell’Italia. Essa venne spogliata delle colonie e mutilata sul fronte orientale, ove fu cancellata l’unità raggiunta con la Vittoria del 1918, quando il suo confine politico coincise con quello geografico, come sognato da secoli. Però, a differenza di quanto qualcuno pretenderebbe, né la resa né il diktat del 10 febbraio 1947 imposero agli italiani di dimenticare la propria storia né impediscono di rivendicare, senza inopportuna iattanza, il loro ruolo odierno e futuro nel Mediterraneo e oltre.

Aldo A. Mola

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Articolo pubblicato il 10/07/2022