La parola agli elettori
La Tomba Plochiù-Giolitti nel cimitero di Cavour (Torino)

Saranno cavoli loro (di Aldo A. Mola)

Fare chiarezza

Lo storico ha il dovere di ricordare il Passato, che è magister vitae più di quanto creda chi lo ignora e, a occhi bendati, ripete gli errori del tempo che fu. Lo storico non cede alle “emozioni”. Verifica se le affermazioni prevalenti siano o no fondate e fa pulizia delle “parole” che inondano e intossicano la “comunicazione”. È il caso della crisi di governo in corso e delle sue possibili conseguenze. Qui ne commentiamo tre. Si può o no “votare in autunno”? Un presidente del Consiglio deve rimanere in carica se non è stato sfiduciato dal Parlamento? La “parlamentarizzazione” della crisi, cioè il rinvio del governo alle Camere, è una geniale (o scaltra) invenzione odierna?

Giova una premessa, che non è una divagazione nel bosco incantato del passato remoto, ma un “ritratto di famiglia” della secolare contesa partitico-parlamentare spacciata come “lotta politica”. Ricorrono cento anni dalla crisi del primo governo presieduto dal pinerolese Luigi Facta, messo in minoranza alla Camera dei deputati (103 voti a favore contro 288). Il 19 luglio Giovanni Amendola verbalizzò e Facta sottoscrisse: “In seguito al voto politico della Camera, il Consiglio dei Ministri delibera di presentare a S.M. il Re le dimissioni del Ministero”. Quasi tutti i “liberal-democratici” si attendevano che Vittorio Emanuele III affidasse la formazione del nuovo governo a Giovanni Giolitti, già cinque volte presidente del Consiglio. Lo Statista, che il 27 ottobre 1922 avrebbe compiuto ottant’anni, si trovò la strada sbarrata dal partito popolare di don Luigi Sturzo e dai socialisti capitanati da Filippo Turati e Claudio Treves. Sommati, i due “partiti di massa”, avevano 230 deputati su 535. Bastava l’aggiunta di una manciata di “costituzionali” per dare all’Italia il governo stabile, di cui aveva urgente bisogno dopo averne cambiati cinque in soli due anni. Ma cattolici e socialisti erano inconciliabili.

Dai socialisti nel gennaio 1921 era sorto il Partito comunista d’Italia di Bordiga, Gramsci, Togliatti e compagni (Pcd’I, più o meno il “nonno” dell’attuale Partito democratico), deciso a “fare come in Russia”. Agli ordini della Terza Internazionale leninista-stalinista, al potere nell’Unione delle repubbliche socialiste sovietiche, esso fu una sciagura per l’Italia. Il partito socialista residuo (ossessionato dal timore di avere nemici a sinistra) su impulso di Giacinto Menotti Serrati chiese di essere a sua volta ammesso alla Terza Internazionale ma venne respinto: rivoluzionario a parole, non lo era abbastanza nei fatti. Esso cacciò dalle sue file i meno estremisti, guidati da Turati e da Giacomo Matteotti, spesso vociferante e ferocemente antigiolittiano. Nati dall’ennesima scissione in soli dieci anni, questi ultimi si denominarono Partito socialista “unitario”. La diaspora suicida delle sinistre raggiunse l’acme con la proclamazione dell’indipendenza del gruppo parlamentare socialista dal partito, mentre anche le sigle sindacali “di sinistra” si moltiplicavano.

Se i partiti di massa erano incapaci di dialogare e il Pcd’I prendeva ordini direttamente da Mosca, i maggiorenti dell’area liberaldemocratica (Giolitti, Vittorio Emanuele Orlando, Francesco Saverio Nitti, Ivanoe Bonomi, ex socialriformista...) a loro volta procedevano in ordine sparso. Trattarono alla spicciolata con Gabriele d’Annunzio (politicamente irrilevante) e con Mussolini per formare un governo comprendente il neonato partito nazionale fascista che un anno dopo la nascita (Roma, 7-10 novembre 1921) arrivò a capitanare il ministero di coalizione costituzionale (31 ottobre 1922). A guidarlo era Benito Mussolini, l’ex socialmassimalista che nel 1912 aveva espulso dal partito i socialriformisti Leonida Bissolati, Bonomi e Cabrini.

Nel suo centenario la vicenda tragicomica dell’estate 1922, col suo stillicidio di morti e feriti tra opposte fazioni, merita di essere ripercorsa e approfondita perché ha molto da insegnare. Chi oggi trova deprimente lo spettacolo della “politica” e, sbagliano, spera che dall’estero qualcuno prema sul presidente dimissionario (forse quel qualcuno non comprende che Draghi ne uscirebbe sminuito) può rileggere con profitto quel che il 24 febbraio 1922 scriveva a Giolitti l’ambasciatore d’Italia a Berlino, Alfredo Frassati, proprietario e già direttore di “La Stampa” di Torino: “Viene una voglia matta di dare un calcio alla politica, al giornalismo, a tutto e andarsene a coltivare cavoli. Scoraggia l’inutilità della nostra opera”. Anche secondo Camillo Corradini, sottosegretario alla presidenza del Consiglio, la Camera era dominata da “piccole passioni di un mondo ristretto e non sempre chiaroveggente” (17 agosto). Se ne videro le conseguenze nelle settimane successive. Malgrado le insistenze del Re, mentre il Paese era in preda a una guerra civile strisciante, dopo il 10 agosto, quando il suo secondo governo ottenne una striminzita fiducia, Facta non riconvocò più il Parlamento. La Camera si radunò solo il 16 novembre. Venne presa a ceffoni da Mussolini, da due settimane presidente del Consiglio e gli votò la fiducia a larghissima maggioranza, col favore di Alcide De Gasperi, di tutti i maggiorenti liberali presenti in Aula e del teosofo Colonna di Cesarò, ministro di Poste e telegrafi.

Ben inteso, l’Italia del 1922 non è quella del 2022. Ma la lontananza tra cittadini e istituzioni è nuovamente preoccupante, come mostra l’aumento vertiginoso dell’astensione dalle urne. Essa non è affatto espressione di tacita fiducia nello Stato. All’opposto, è segno di sconforto e di malinconica corsa a “coltivare i cavoli” propri. Perciò preoccupano le obiezioni affioranti contro l’unico immediato approdo della crisi politica in corso: lo scioglimento immediato delle Camere e l’indizione delle elezioni.

Ma, obiettano alcuni con le palpebre abbassate: si può o non si può votare in autunno? È lecito e/o opportuno che un presidente del Consiglio si dimetta anche se non è stato sfiduciato in Parlamento, come appunto è accaduto il 14 luglio 2022? Infine, il rinvio del governo dimissionario alle Camere, celebrato come “parlamentarizzazione della crisi” è una geniale invenzione odierna o è secolare prassi del Quirinale sin da quando c’era il Re?

 

Perché non votare in autunno?

In via preliminare occorre distinguere tra elezioni politiche e amministrative, generali e suppletive. Le prime riguardano l’intero Stato. Dall’avvento della Repubblica le seconde furono e sono indette per l’elezione dei consigli comunali, regionali (si iniziò con quelli delle regioni a statuto speciale), provinciali (sino a quando vi fu l’elezione diretta dei presidenti delle Province: poiché funzionavano bene, vennero abolite), comunali e delle circoscrizioni (ove esistano).

Le elezioni amministrative, anche molto importanti, si svolgono nei mesi più disparati. Avvenne anche nel 1946 quando migliaia di comuni furono chiamati alle urne in primavera (marzo-aprile, prima del referendum istituzionale e dell’elezione dell’Assemblea costituente); gli altri in autunno avanzato. In carica dal lontano 1914, nell’autunno 1920 vennero rinnovati i consigli comunali e provinciali di quasi tutta l’Italia. Parecchi finirono sciolti e commissariati. Furono rinnovati nell’autunno del 1922, dopo l’insediamento del governo Mussolini (31 ottobre 1922). Fu il caso di Milano, ove un blocco costituzionale, comprendente i fascisti, sconfisse i socialisti. In sintesi, le elezioni amministrative non sono mai dipese dalle stagioni. Ebbero e hanno luogo quando necessario.

E le “politiche”? Per una panoramica rapida ma esauriente dei precedenti, merita risalire al Regno di Sardegna, unico Stato italiano pre-unitario che ebbe continuità nel tempo nella celebrazione di elezioni, introdotte con lo statuto promulgato da Carlo Alberto di Savoia il 4 marzo 1848. La prima Camera fu eletta il 27 aprile seguente. Gli elettori vennero riconvocati due o tre giorni dopo per scegliere in ballottaggio tra i due candidati che avevano ottenuto il maggior numero di voti. La prima legislatura durò poco. Il 22 gennaio 1849 fu eletta la nuova Camera, gonfia di retorica malgrado la sconfitta nella guerra contro l’impero d’Austria e l’abdicazione di Carlo Alberto. Altrettanto avvenne con la terza legislatura, sciolta dopo pochi mesi. L’elezione della quarta Camera avvenne il 9 dicembre 1849. Poi, grazie a Camillo Cavour e a Urbano Rattazzi, dal rodaggio si passò alla normalità. Le elezioni successive avvennero l’8 dicembre 1853 e il 15 novembre 1857. Nel regno (all’epoca comprendente il Nizzardo e la Savoia) nessuno protestò. Si andava alle urne quando era il momento. Il voto non era obbligatorio, ma esercitarlo era motivo di orgoglio. Per raggiungere i seggi (a piedi, a cavallo, in barroccio) gli elettori a volte impiegavano ore. Però ne valeva la pena. Nei collegi uninominali conoscevano via morte e miracoli dei candidati e generalmente sbagliavano una sola volta.

I deputati all’ottava Camera “subalpina” e prima del regno d’Italia furono eletti il 27 gennaio 1861. Potremmo continuare. Nel 1882, quando gli elettori passarono da 600.000 a 3.000.000 si votò a fine ottobre. Altrettanto avvenne nel 1913, quando i votanti balzarono a 7.500.000. Nel 1919 le urne vennero aperte il 16 novembre. Le elezioni primaverili (che tanti oggi invocano) non hanno lasciato un buon ricordo: 6 aprile 1924 (quando stravinse il Listone fascista), marzo 1929 (ormai in regime di partito unico) e nuovamente nel 1934, per farle coincidere con la fondazione del primo “fascio di combattimento”.

Dal 1948 in poi elezioni e referendum sono stati tenuti prevalentemente in primavera. Una sola volta in febbraio, con esito disastroso. Ma non è scritto da nessuna parte che i mesi primaverili debbano essere una regola. Negli USA si vota a inizio novembre e nessuno se ne lamenta. In molti Stati europei si è votato e si vota (talora in giorno feriale: è il caso della Gran Bretagna) tra autunno e inverno. Dunque, dov’è il problema per gli italiani andare alle urne nell’autunno 2022? Se necessario (e ormai lo è) si voti prima possibile per Camere dimidiate e con le leggi elettorali vigenti (nessuno ritiene che questo Parlamento, comunque all’occaso, possa vararne altre).

Dimissionari solo se “sfiduciati”?

La storia d’Italia, che non inizia nel 1946 come alcuni pretenderebbero ma dal 1848/1861, insegna che i presidenti del Consiglio si dimisero quando furono costretti o dalla sfiducia in una delle Camere o perché percepirono di non avere più il sostegno politico indispensabile. Gli annali documentano che nella maggior parte dei casi i presidenti lo fecero proprio per evitare il voto di sfiducia che li avrebbero messi in cattiva luce e preclusi dal ritorno al potere. L’elenco è lunghissimo, da Alfonso Lamarmora e Agostino Depretis – otto governi in appena dieci anni – sino alla Repubblica nelle sue varie fasi. La prima volta Crispi si dimise non per un voto ma per l’accusa di bigamia in piena Camera. Zanardelli per ragioni di salute. Altrettanto fece Giolitti nel 1905 (sovraffaticato), nel 1909 e nel 1914. Anche nel 1921 si dimise malgrado avesse ancora un’ampia maggioranza a suo favore. Avvertì che la coalizione si stava sfaldando. Si dimise per motivi “politici”, non di conteggio notarile dei voti. Staccò la spina orgoglioso del lavoro fatto, esattamente come Mario Draghi si è dichiarato della sua. Va aggiunto che l’11 novembre 2011 Silvio Berlusconi rassegnò le dimissioni non per un voto del Parlamento ma per una “manovra di palazzo” col supporto di qualche centinaio di pupazzi schiamazzanti in piazza. Mentre leggiamo “La fine della prima repubblica negli archivi segreti americani” di Andrea Spiri (Baldini & Castoldi) attendiamo lumi sulla prima fase del disastro dell’Italia contemporanea: l’invenzione, a freddo, del falso “scandalo P2”, “Tangentopoli/Mani pulite” e via continuando.

Ma nell’Italia di Cola di Rienzo, Savonarola, Masaniello ecc. chi di piazza ferisce spesso di piazza perisce. La galassia dei “Cinque Stelle” si perde nello spazio. Grattandosi, il grilletto frinisce. Terzo governo dalle formule del tutto diverse in soli quattro anni, la coalizione ora al collasso visse solo nell’apparenza. Ogni accanimento per farla sopravvivere risulta controproducente. Nell’Italia degli sperperi, dei bonus, dei superbonus, degli una tantum, delle regalie varie, onerosi cataplasmi su inflazione, svalutazione dei risparmi, tassazione feroce dei beni mobili e immobili, se proprio ve n’è bisogno si assegni per decreto legge (verrebbe convertito in un battibaleno) la pensione “a futura memoria” ai parlamentari alla prima legislatura (non solo ai pentastellati, di ormai ardua identificazione) e si vada alle urne.

 

Parlamentarizzazione della crisi? Ovvio

Dallo Statuto albertino del 1848 in poi tutte le crisi di governo hanno avuto certificazione in Parlamento. Sono state “parlamentarizzate”. Lo fece anche Vittorio Emanuele III a fine ottobre 1922. Quando si vocifera che l’Italia odierna non può fronteggiare una crisi anticipata perché nell’Europa orientale è in corso un conflitto dalle conseguenze devastanti va ricordato che durante la Grande Guerra il Parlamento italiano nel giugno 1916 sfiduciò il governo Salandra che aveva voluto l’intervento e nel 1917 silurò il governo Boselli proprio in coincidenza con l’offensiva austro-germanica nella conca di Caporetto senza che a Roma se ne sapesse alcunché, come al generale Angelo Gatti ricordò Ugo Brusati, aiutante di campo di Vittorio Emanuele III. E va aggiunto che c’è una guerra ma l’Italia (almeno formalmente) non è in guerra.

Anziché lenire le ferite causate da una lunga serie di strappi, dispetti, polemiche a viso aperto e sotto traccia, la “parlamentarizzazione” gioverà o finirà per esasperare i contrasti e rendere ancor più improbabili future convergenze, motivate da calcoli opportunistici o da stato di necessità? E davvero una grande idea costringere Draghi a correre il rischio di essere sfiduciato in Aula? Ne uscirebbe più forte o definitivamente bruciato? La siccità ha inaridito i campi compromettendo i raccolti. Ha fatto altrettanto con l’humus della politica, ormai pieno di crepe difficilmente sanabili. Esasperarle è nocivo. Vi è un solo modo per restituirgli fecondità: tornare subito al voto. Tanto si invoca “responsabilità”. Siano dunque i cittadini a farsi carico della propria. Se poi votassero a casaccio non potranno addebitare ad altri la propria pochezza. Per dirla con Alfredo Frassati, saranno... “cavoli” loro.

Aldo A. Mola

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Articolo pubblicato il 17/07/2022