Draghi SI’? Draghi NO?

In attesa del suo e del nostro destino

“Appello Usa-Ue: Draghi deve restare”, così titola a piena pagina La Stampa del 16 luglio. Basterebbe questo per capire com’è ridotta l’Italia del 2022: un paese in cui il capo del governo viene “raccomandato” da potenze straniere.

Che il nostro paese fosse ormai ridotto a una prateria dove pascolano poteri internazionali, politici ed economici, era cosa nota, ma fino a qualche tempo fa questa era una sensazione, un fastidioso e inquietante sospetto, una quasi-certezza celata però da una sorta di pudore nazionale, quasi una vergogna famigliare da nascondere accuratamente come un tradimento coniugale. Oggi è un fatto palese, squinternato sui giornali, raccontato sulle piazze, gridato dai balconi.

Ce n’eravamo accorti da tempo, ma ne parlavamo fra di noi; con l’arrivo del governo Draghi è caduta  anche la foglia di fico: oggi la nostra sudditanza estera è una malattia conclamata.

Quando, su queste stesse pagine, dicevamo che un uomo come Draghi, cresciuto nelle stanze dei poteri economici internazionali, pubblici e privati, non poteva fare i nostri interessi avevamo ragione, quantomeno per due motivi. Il primo -a cui non vogliamo credere completamente- presupponeva la malafede di un uomo che agiva coscientemente nell’interesse delle grandi oligarchie occidentali, senza spenderne il nome, per interessi e ambizioni loro e suoi personali. Il secondo -che ci auguriamo essere quello più vero- è basato sulla considerazione che un uomo abituato a vedere i problemi sotto il profilo economico mondialista non può capire, o forse non vuole capire, la natura, le esigenze e le aspirazioni di un paese di medie dimensioni e di medio peso politico come il nostro che, per quel tipo di mentalità globalista, è solo una tessera di un mosaico più ampio.

In alcuni decenni di attenzione verso il mondo politico, non abbiamo mai visto un personaggio tanto incompreso e tanto esaltato quanto Draghi. Qualcosa di simile avvenne con l’altro super-tecnico, Mario Monti, ma con più moderazione, più misura, perfino con un po’ di reticenza: forse non c’eravamo ancora pienamente abituati all’idea della politica ridotta a tecnica. Con Draghi si è invece assistito ad una esplosione nucleare di piaggeria comunicativa senza precedenti verso l’Uomo della Provvidenza in versione post-fascista e modernizzata. “Sindaci e imprese a Draghi: vai avanti, serve stabilità”, è uno dei titoli ANSA sempre del 16 luglio e anche qui traspare l’idea che i destini del paese siano legati ad un singolo essere umano, suprema versione del personalismo che, sino a non molto tempo fa, apparteneva al trash del discorso politico.

Il whatever it takes -qualunque cosa significhi (e ancora oggi non è ben chiaro)- con cui il Gran Banchiere ha posto uno straordinario sigillo comunicativo alla sua figura pubblica è diventato il pendolo dell’ipnotista che ha addormentato l’opinione pubblica nazionale, e -si narra- anche quella internazionale, nella convinzione di essere di fronte a un politico dotato di capacità paranormali, un demiurgo, un condottiero che l’Italia non conosceva più dai tempi di Cesare.

Che cosa ci sia di vero in questa pittura surrealista non è dato sapere, ma, nell’era della virtualità, è facile che i mezzi di comunicazione creino più miti della mentalità primitiva; anzi, il “primitivismo” politico verso cui ci stiamo avviando, fatto di schemi ripetitivi, nuove religiosità collettive, irrazionalismo mitologico, narrazioni avveniristiche, fantasia al potere, paure e speranze millenaristiche, costituisce il terreno psicologico su cui molto facilmente figure salvifiche come quella di Draghi attecchiscono e si sviluppano. Dai draghi della narrativa fantasy al Draghi che vive a Palazzo Chigi il passo non è poi così lungo: peccato che in entrambi i casi si tratti di creature immaginali.

In realtà Draghi è tutt’altro.

E’ un tecnico che, trasferito dal mondo della finanza a quello della politica, ha semplicemente dimostrato la sua inadeguatezza “strutturale” ai nuovi compiti: non ha capito che la governance economico-finanziaria è infinitamente lontana, da un punto di vista culturale, concettuale e metodologico, dal governo delle nazioni e dei popoli, sempre che questi due ultimi termini entrino nel vocabolario, e dunque nella mente, dei tecnocrati come lui.

A parte alcune battute pateticamente infelici come la virtuale condanna a morte dei non vaccinati, la sicurezza del green pass, l’alternativa fra condizionatore e pace che hanno fatto ridere grandi platee, dimostrando un infantilismo comunicativo che fa rimpiangere perfino Arnaldo Forlani, Draghi si è mosso in politica in maniera goffa, quasi non sapesse che in quel mondo -piaccia o non piaccia- la mediazione e il compromesso sono tutto. E’ sicuramente vero che nessun capo di governo in Italia ha mai avuto a che fare con partiti politici e capi-partito così stralunati e borderline (i Cinque stelle sono ormai entrati nei testi di psichiatria politica), ma è altrettanto vero che il Gran Banchiere non ha certo dimostrato capacità gestionali all’altezza della situazione, o quantomeno del suo avatar mediatico, tant’è vero che alla fine ha dovuto dimissionarsi, cosa che significa ovviamente e semplicemente una resa e un’ammissione di inadeguatezza.

La disperazione e il pianto fluviale dell’establishment nazionale e internazionale per questa sua scelta dimostrano poi che Draghi non rappresentava neppure sé stesso oltre a non rappresentare la nazione, bensì solo quei centri di potere euro-atlantisti e nazional-finanziari che l’avevano spinto a Palazzo Chigi sperando -come in un pellegrinaggio a Lourdes- che fiorisse un miracolo. Cosa che non è avvenuta, anche a causa di una guerra in cui Draghi ha voluto indirettamente trascinare l’Italia accodandosi come un volontario un po’ esaltato alle truppe guidate da Washington, Londra, Parigi e Berlino, nella convinzione infantile che gli italiani lo avrebbero seguito, pronti a morire per Kiev.

In realtà il fallimento del Presidente venuto da Francoforte (ah, l’antica aspirazione dantesca di un imperatore tedesco che scendesse in Italia a mettere in riga le riottose signorie della penisola...), oltre alla sopravvalutazione del personaggio -va detto con onestà- è sicuramente dovuto anche a un sistema istituzionale italiano che non regge più di fronte all’impeto della modernità. Il nostro sistema ha quattro  enormi difetti genetici: un parlamentarismo inefficiente che blocca ogni tentativo di governabilità, un sistema elettorale che produce solo frammentazione partitica, una carenza radicata di democraticità che impedisce al popolo (a cui la Costituzione assegna inutilmente la sovranità) di scegliersi i governanti, una figura come il Presidente della Repubblica che è diventato lo snodo personalistico di ogni scelta politica al di là di un significativo controllo democratico.

In un sistema del genere, che ci sta a fare un cosiddetto decisionista come Mario Draghi?

Di fronte a questi problemi veri e incancreniti di ordine istituzionale non bastano le tonnellate di incenso che l’informazione brucia quotidianamente dinanzi alla venerabile icona del Gran Banchiere, non basta una classe dirigente, soprattutto imprenditoriale, che invoca stabilità a qualunque costo per perseguire comprensibilmente i propri progetti e interessi, non basta un’opinione pubblica incantata dal culto personale di un super-eroe, non basta la tutela parentale dei potentati occidentali sulla loro creatura italiana, e forse non basta neppure la mano divina sulla sua testa, visto qualche recente endorsement vaticano.

Forse ci vorrebbe semplicemente una struttura dello stato nuova e diversa, in cui persino un Draghi potrebbe farcela ed esprimere le sue grandi qualità.

Ma questo è un altro discorso, e forse lo faremo dopo mercoledì, dopo il confronto del Presidente con un Parlamento smarrito e in disarmo. E forse potremo capire, tutti insieme, qualcosa del nostro futuro.

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Articolo pubblicato il 18/07/2022