
Tutti, Uno, Nessuno? (di Aldo A. Mola)
Non uno che oggi non si dichiari “almeno” liberale. È un aggettivo. Non “depositato” e quindi senza tutela. D’altronde sarebbe poco... liberale negarne l’uso e persino l’abuso. Se da solo non basta, a un aggettivo se ne appiccica un altro. Insieme abbracciano l’Universo mondo. Liberal democratico, liberal socialista, liberal liberista, liberal statalista. Ogni ramo della vasta dinastia vanta i suoi antenati “politici”.
I più parchi citano la triade nostrana Einaudi-Giolitti-Cavour. Ma ci sono anche le ascendenze filosofiche.
Lì, in carenza di “pensatori” italiani senza macchia e senza paura si ricorre agli inglesi e si sale all’insù sino ad Adamo, che fu il primo vero liberale e perciò venne condannato a guadagnarsi la vita col sudore della fronte come in un gulag. Che male aveva fatto? Girava in costumi adamitici, non fondò un partito, non fece registrare il “marchio”. In un Paese nel quale oggi sono tutti sono più liberali degli altri va ricordato quando in Italia la Libertà era sostantivo. Durò poco.
La Cometa Giolitti
Esce in questi giorni Giovanni Giolitti. Liberale, una specie perduta di Sergio Turtulici (LarEditore), siciliano da decenni radicato a Pinerolo, saggista, critico d’arte, “profeta”, a metà strada tra orator e bellator. Già funzionario pubblico con alto senso dello Stato e dal temperamento di artista, a differenza del cosmografo e dello storico, che non assolve né condanna ma documenta, Turtulici si entusiasma e trascina il lettore nel vortice delle sue “visioni”. Perciò merita di essere letto proprio dai più disincantati.
Giolitti paradigma dell’Italia che non fu? Il massimo statista della Nuova Italia tentò la “grande riforma” sognata dalla generazione precedente, Garibaldi incluso, che, lontano da Mazzini, marciò con l’insegna “Italia e Vittorio Emanuele” per fare dell’Italia un Paese moderno. Giusto un secolo fa fallì l’impresa. Non ebbe eredi politici. Comparve luminoso come cometa e disparve. È in sintesi il ritratto proposto da Turtulici: vigorose pennellate su nascita, adolescenza, giovinezza e precoce avvizzimento del liberalismo all’italiana.
Dalla cima della Rocca di Cavour Giolitti capiva l’Italia, che studiava attraverso le statistiche e la miriade di “pratiche” passate al suo filtro della Commissione centrale delle imposte dirette, di segretario della Corte dei Conti e di Consigliere di Stato.
Nel suo primo decennio di vita (1861-1871) il regno d’Italia non era affatto pronto a vivere l’unità. Gli mancavano i prerequisiti indispensabili: alfabetizzazione e condivisione di prospettive politiche interne e internazionali. Tuttavia esso aveva due cardini: la monarchia rappresentativa, istituita nel regno di Sardegna con lo Statuto albertino del 4 marzo 1848, e la communio culturale che l’aveva preceduto, in specie con i Congressi degli scienziati italiani. Tra il 1838 e il 1847 questi avevano creato la vasta rete di collegamento dell’avanguardia civile nazionale con l’Europa e la sponda meridionale del Mediterraneo. Erede della stagione dei moti liberali e delle società segrete, di cui tanti reazionari scrivono a casaccio, lo Statuto fece la differenza tra il “Piemonte” e gli altri Stati pre-unitari. Preceduto dalle regie patenti che nel novembre 1847 decretarono l’elezione alle cariche di migliaia di consiglieri comunali, provinciali, divisionali, la Carta albertina introdusse quella dei deputati alla Camera “bassa” e sancì l’uguaglianza dei cittadini dinnanzi alle leggi e la libertà di professare il culto preferito (e quindi anche di non praticarne alcuno), a differenza di quanto avveniva nella Borbonia felix, a tacere dello Stato pontificio. Il regno di Sardegna era Europa.
Fare lo Stato per poi fare gli italiani
Il neonato Regno d’Italia prese sulle spalle l’onere immane di “fare lo Stato” per poi fare gli italiani. Anzitutto unificare i codici. Ci arrivò rapidamente. Il codice penale (1889) segnò il primato della Nuova Italia nel mondo grazie all’abolizione della pena di morte, all’epoca vigente in tutti gli altri Stati europei, descritti quali paradisi terrestri da cantori “temporis acti”, ed è tuttora applicata, anche in forme ripugnanti, negli Stati Uniti d’America.
Ventenne quando Garibaldi organizzò la sconsiderata spedizione “Roma o morte”, ventottenne quando Raffaele Cadorna irruppe in Roma a cannonate, capovolgendo il pensiero di Camillo Cavour, che aveva sempre escluso il ricorso alla forza e al papa aveva promesso l’“indipendenza”, Giolitti fu tra quanti concorsero a costruire l’unità effettiva del “volgo disperso”: leggi, decreti attuativi, circolari, corpo diplomatico, esercito nazionale (fondato sulla “leva obbligatoria” ignota e avversata in tante regioni, come ricorda Oreste Bovio nella “Storia dell’esercito italiano”), prefetti, segretari comunali, via via sino alla prima legge sanitaria che, voluta dal siciliano Francesco Crispi e scritta dal cuneese Luigi Pagliani (due massoni), elevò medici e veterinari condotti a ufficiali sanitari, con poteri sovraordinati rispetto alle amministrazioni locali, e impose ai comuni che ancora ne fossero sprovvisti piani regolatori nell’interesse di una popolazione ripetutamente colpita dal colera e ancora povera di acqua potabile.
All’epoca l’Europa andava dalla Prussia ai Pirenei. Al di là, affacciato sull’Atlantico, il Portogallo era una landa arretrata, col peso di un enorme e infruttuoso impero coloniale. La Spagna era lacerata dal conflitto tra due rami della dinastia dei Borbone. La Francia aveva alle spalle la sconfitta nella guerra del 1870-1871 da parte della Prussia, gli orrori della Commune e della sua spietata repressione. Nazione primogenita della chiesa cattolica, i francesi vantavano l’assassinio di due arcivescovi di Parigi, uno nel 1848, l’altro nel 1871. Spazzato via Napoleone III, la società crebbe pilarizzata, a compartimenti stagni (clericali, reazionari, socialisti, tardo-ugonotti) sino all’affaire Dreyfus che scoperchiò l’antisemitismo latente (estraneo all’Italia di Vincenzo Gioberti e dei Savoia). L’impero di Germania proclamato da Bismarck nel Salone degli Specchi del Castello di Versailles era coacervo di Stati, nessuno dei quali (Baviera, Sassonia e via elencando) rinunciò alla propria sovranità e identità. L’impero austro-ungarico reprimeva le minoranze etniche, linguistiche e religiose che ne mettessero in discussione l’assetto intrinsecamente illiberale (gli italofoni non ottennero mai un’Università a sud del crinale alpino). Lì finiva l’Europa. Il resto erano l’impero russo, che solo da pochi anni aveva cancellato, almeno nominalmente, servitù arcaiche, e quello turco-ottomano. Oltre Manica la Gran Bretagna, ove nell’opinione dominante i cattolici rimanevano cittadini di seconda classe, era impegnata nella costruzione dell’Impero coloniale con metodi spesso brutali.
Quell’Italia, dunque, aveva motivo di prendere a modello le proprie radici: la romanità classica, universale, antecedente il cristianesimo, “cantata” da Giosue Carducci, commemorato da Giolitti in Parlamento perché, egli spiegò, quel “poeta” aveva costruito la Terza Italia al pari di Vittorio Emanuele II e di Giuseppe Garibaldi.
Sorta da cospirazioni, assemblee costituenti, richiesta di annessione e plebisciti confermativi, la neonata Italia non poté sottrarsi al debito con le potenze che l’avevano propiziata per non dovervi condurre un’anacronistica guerra per l’egemonia.
Da quei precedenti politico-militari e dalla sua posizione geografica, che detta la storia, con Umberto I la Nuova Italia imboccò la via dell’espansione coloniale. Vittorio Emanuele III proseguì il cammino. Nel 1911 anche Giolitti “l’Africano” la giudicò fatale (e quindi subìta) e/o necessaria (e pertanto voluta) quando, riprendendo la politica estera di Crispi, proclamò la sovranità dell’Italia su Tripolitana e Cirenaica. L’impresa fu il punto di arrivo dell’età vittorioemanuelina-giolittiana posta al centro della riflessione di Turtulici: coronamento del consenso da un canto, rottura dall’altro.
Nei suoi mesi cruciali scesero in campo molti protagonisti della vita politica italiana dell’interno Novecento. Alcuni “padri della patria” come Teodoro Moneta, premio Nobel per la pace, e il mite esoterista Giovanni Pascoli fecero in tempo a voltare le spalle al pacifismo dottrinale e a schierarsi per la guerra contro l’esecrato dominio turco. I cattolici inneggiarono alla nuova Lepanto. I fautori della talassocrazia videro Oltremare quanto non potevano ancora ottenere nell’Adriatico. Ma in scena vi furono anche l’allora repubblicano Pietro Nenni e Benito Mussolini, socialmassimalista, che divelse i binari per impedire la partenza di un convoglio militare e finì in carcere ove, lontanissimo dall’idea di conciliazione col papato, scrisse Hus il veridico istoriato da Paolo Paschetto, al quale si deve il bozzetto dell’emblema della Repubblica italiana.
Il volto notturno dello Statista
Come la Luna anche Giolitti ebbe “volti” nascosti, sfuggiti alla generalità dei biografi, attenti agli aspetti più appariscenti della sua figura.
L’intervento dell’Italia in guerra (24 maggio 1915) fu classificato “colpo di governo” in lettere inedite dello Statista al calabrese Antonio Cefaly, che invece lo bollò “colpo di Stato”. Fu l’occaso della breve parabola del liberalismo all’italiana. Dal Parlamento il timone della “politica” passò alla piazza, che gridava “guerra o rivoluzione”. La “minoranza rumorosa” divenne puntello di quella governativa e impose al Paese la catastrofica fuga in avanti verso la guerra “grossa e lunga” nettamente superiore alle risorse disponibili a giudizio di Luigi Cadorna, unico stratega italiano nella Grande Guerra. A margine di quello snodo fondamentale della vita istituzionale italiana merita constatare che Giolitti ebbe pochi amici leali nell’Italia centro-settentrionale, quasi nessuno in Piemonte (a parte Alfredo Frassati) e nel Lombardo-Veneto di Luigi Luzzatti. Ne contò invece nel Mezzogiorno, con Cefaly, Tommaso Senise, Antonino di San Giuliano, lungimirante ministro degli Esteri, Camillo Corradini, Angelo Majorana, Camillo Finocchiaro Aprile. Napoletano era stato Pietro Rosano che, appena nominato ministro, si uccise per troncare sul nascere una ignobile campagna scandalistica destinata a lambirlo per colpire Giolitti. L’assalto al potere per il potere degenerò in guerra senza prigionieri: una triste vicenda che si ripeté nel tempo. Due volte sconfitto nel collegio elettorale della sua originaria Molfetta l’allora medievista Gaetano Salvemini col supporto del Corriere della Sera mise Giolitti alla gogna come “Ministro della malavita”, un marchio a fuoco che ancora viene ripetuto da pressapochisti. Salandra fece da ponte tra giolittofobi e il giolittofago Francesco Saverio Nitti che nelle Meditazioni, pubblicate nel secondo dopoguerra, confessò che per lui Mussolini era “un avversario” mentre Giolitti era “il nemico”.
Che cosa poteva attendersi l’Italia da un liberalismo di quella fatta?
Meglio si comprende il Giolitti “notturno”, accennato da Turtulici che va oltre la generalità dei biografi. Dal 1893 bersaglio di campagne d’opinione tese a demolirlo sul piano della moralità politica, Giolitti si chiuse nelle sue valli ed eresse a suoi giudici gli elettori: gli unici che lo conoscessero intus et in cute e fossero dunque abilitati a valutarne l’onestà. Il suo itinerario fu appunto contraddistinto dalle lunghe stagioni di forzato isolamento, di lontananza dal governo, dalle aule parlamentari, dall’alta burocrazia e dalla Corte. Monarchico per convinzione, non per convenzione, nella certezza che l’unica alternativa a Casa Savoia fosse l’avvento di un partito clericale, forte di quasi trentamila parrocchie e capace di imporre il ritorno al passato remoto, lo statista ripiegò reiteratamente da Roma alla “sua” Città Eterna: gli elettori. Borghese, orgoglioso degli antenati che avevano cospirato per ottenere il passaggio dalla monarchia consultiva a quella rappresentativa, rimase la riserva estrema della Corona: in attesa perpetua di essere chiamato a sciogliere i nodi più intricati ingarbugliati da venturieri della politica, incluso Luigi Facta, che da suo supposto diadoco nell’agosto-ottobre 1922 si erse a maldestro artefice di una coalizione comprendente Mussolini. Per Giolitti si aprì l’ultima stagione di scontroso ripiegamento in difesa della Tradizione, rivendicata nel discorso elettorale del 16 marzo 1924, in cui ammonì che «sopprimere in Piemonte perfino il nome del partito di Cavour, di d’Azeglio, di Rattazzi, di Lanza, di Sella e centinaia di alti grandi patrioti, sarebbe (stato) rinnegare le più pure nostre glorie, e rinnegarle a beneficio dei due partiti che avevano reso impossibile la normale funzione del Parlamento»: i popolari e i socialisti. Sennonché non c’era mai stato un partito liberale nazionale, né v’erano più tempo e risorse per allestirlo, se non in un lembo dell’area liguro-piemontese.
Contemplare il passato per non temere il futuro
Autore di saggi di ampio respiro, quali Il libro e il web. 500 anni dalla Riforma protestante (2016) e L’Eurasia e la piazza vuota. Ai greci non si torna (2020), con guizzo di appassionato d’arte (emerge dalle pagine di Dionisio e Apollo, 2015), Turtulici dà un giro al caleidoscopio attraverso il quale conduce alla ricerca di Giolitti, campione di “una specie perduta”, e proietta il “caso Italia” di un secolo addietro nel turbine degli eventi che, dopo la guerra dei trent’anni (1914-1945), condussero alla difficile “ricostruzione” nell’ambito della divisione bipolare del mondo: l’“equilibrio del terrore” oggi spazzato via dal nuovo multilateralismo. Sgominato il Giappone, che per un quarantennio era stata l’incarnazione del “pericolo giallo”, quell’Europa guardò con sufficienza la “Cin-dia”.
La miopia politica, osserva Turtulici, è riflesso dello smarrimento culturale, dell’eclissi degli ideali che già un secolo addietro fece intravvedere il “tramonto dell’Occidente”, variamente interpretato come disparati furono i rimedi vagheggiati per invertire il corso della storia. Tra i molti, quelli di Arturo Reghini e di Julius Evola erano e rimangono lontani dal ritorno all’età liberale. Come già nel denso saggio L’Eurasia e la piazza vuota anche nella meditazione sulla “specie perduta” dei liberali in Italia Turtulici spazia tra filosofia, letteratura, libri sapienziali, arte e drammaturgia. Ma qual è il teatro che vede in scena l’umanità odierna? Sino a qualche mese addietro, quando portava a termine il libro, sembrava potesse essere almeno l’“Europa”. Ma in breve volgere di tempo non solo non è svanita l’“Eurasia” ma si assiste al repentino crepuscolo di figure apicali (le dimissioni di Mario Draghi sono un altro anello dell’ormai lunga catena iniziata con l’uscita di scena di Angela Merkel e di Romano Prodi).
La babele delle lingue, delle formule e delle sigle obnubila. I più non sanno distinguere tra Unione Europea (una “formula” sempre più evanescente) ed Europa (questa comprende o no la Gran Bretagna?), tra l’Europa e la Nato (ma la Turchia, che rivendica il Califfato, è Europa?), tra Unione Europea e OCSE e via continuando. Non consola che sia emersa a luce meridiana l’incolmata distanza tra evangelici, riformati, cattolici apostolici romani, cristiani ortodossi, a loro volta frantumati in chiese separate e confliggenti. Sic stantibus rebus, come chi dall’alto guarda immobile la navicella naufragare con la sua piccola scorta, così lo storiografo osserva impassibile il corso degli eventi: non una linea retta verso l’alto (il “progresso”), né un “anno platonico”, ma una serie di segmenti dalla sequenza imprevedibile, separati da spazi bianchi: la casualità.
Il pessimismo totale serpeggiante nelle pagine di Turtulici trova espressione compiuta nelle pagine finali del libro, che registrano l’irreversibilità del declino a cospetto dell’incompetenza della dirigenza espressa alle urne dal corpo elettorale e dall’inutilità (prospettata dal politologo Gianfranco Pasquino) della libertà riconquistata ad altissimo prezzo e ormai smarrita.
Senza entrare nel groviglio delle ipotesi incombenti per la nuova guerra europea, scintilla di un possibile conflitto planetario dalle conseguenze irreversibili (a differenza di quelle causate nel passato prossimo e remoto, come ammonisce papa Francesco), proprio l’ultimo Giolitti fa da correttivo alla delusione e alla rassegnata contemplazione della “fine della storia”. In una lettera al nipote Curio, figlio di Enrichetta e di Mario Chiaraviglio, già deputato radicale e massone, il 26 giugno 1926 lo statista scrisse dal suo eremo di Cavour: «Io mi trovo perfettamente bene; qui la politica non giunge che una sola volta al giorno, con fogli che poi non vi è il dovere preciso di leggere con diligenza. Preferisco leggere la storia delle miserie politiche di altri tempi, pensando che se sono finite quelle, finiranno per passare anche quelle che ci allietano». È tempo di contemplazione...
Aldo A. Mola
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Articolo pubblicato il 24/07/2022