Savino Gladiolo e Benedetta Fiammengo… due trovatelli e una capanna

Di Alberto Serena

Era un sabato, quel mattino del giorno 8 luglio del 1848, quando alle ore una e tre quarti, in piena notte, si sentì bussare alla porta della casa parrocchiale della chiesa di San Giacomo di Sparone, ma stavolta non si trattava di svegliare il parroco per una Estrema Unzione.

Sul greto della porta c’era un bambino abbandonato dentro una cesta, avvolto in un lenzuolino e Don Giacomo, il parroco del paese, dopo averlo portato in sacrestia, per paura che morisse di freddo, andò a chiamare il sindaco Giuseppe Gay, che dormiva sonoramente con sua moglie Maria Micheletti.

I due non si tirarono indietro e alle ore sei di quel mattino furono testimoni del battesimo impartito al piccolo trovatello a cui venne dato il nome di Savino, in onore di San Savino, patrono della città di Ivrea, dove il trovatello sarebbe stato portato nel pomeriggio.

Al fondo dello stesso atto di battesimo venne indicato anche un cognome, Gladiolo, perché a Don Giacomo piaceva tanto quel fiore.

Verso le ore 8 di quello stesso giorno, mentre il parroco, il sindaco e la consorte andarono a riposare in santa pace, toccò alla levatrice del paese prendere la bicicletta con tanto di cassetto sul retro con Savino rannicchiato dentro, e portarlo nell’Ospizio dell’Infanzia Abbandonata di Ivrea, sito in casa Rama, parrocchia della Cattedrale, in via Peretti.

Da Sparone a Ivrea la strada non era proprio il massimo e una quarantina di chilometri erano pur sempre tanti, ma lei era abituata a queste fatiche e poi quello era stato l’ordine imposto dal sindaco.

Tre giorni dopo, il giorno 11 luglio, Savino fu consegnato alla nutrice di campagna Maria Gillio, figlia di Martino, abitanti ad Andrate, che dopo tre anni però lo restituì all’Istituto.

Venne ricollocato il giorno 2 luglio del 1851 presso la nutrice Catterina Orengia, figlia di Gioanni di Strambino e 10 anni dopo, l’8 gennaio del 1861, collocato presso la famiglia di Gioanni Orengia, figlio di Pietro.

In quella famiglia abitava già un’altra trovatella, Benedetta Fiammengo, anche lei esposta il 22 marzo del 1865 in Ivrea. Fra i due orfanelli che vivevano sotto lo stesso tetto, sbocciò l’amore che si trasformò nel matrimonio avvenuto il 1° dicembre del 1881.

Savino di anni ne aveva 33 anni, Benedetta solo la metà, 16, ma tra loro nacque un’intesa perfetta, la voglia di farsi una “vera” famiglia, forse consci del loro passato.

Questi due figli di genitori incogniti andarono ad abitare al numero 34 della via centrale di Cerone, una frazione di Strambino ed in quella casa Benedetta prese subito a balia un bimbo esposto a Strambino il 24.9.1876, Cosma Giovanni Ambante, che tenne in collocamento fino al suo matrimonio avvenuto il 24 febbraio del 1900 con Marta Maria Vassia (1.11.1879).

In seguito, a Benedetta e a Savino nacque la primogenita Caterina (1883+11.11.1885) a cui seguirono ben altri undici figli: 

Giovanni (27.6.1885) morto lo stesso giorno;

Giovanni Pietro (22.5.1887+1972);

Giuseppe Pietro (12.10.1889+11.4.1890);

Giuseppe Michele (15.5.1891+13.1.1892);

Savino Giuseppe (9.1.1893+1980);

Martino Pietro (13.6.1897+16.6.1897);

Pietro Giuseppe (23.5.1900+1985);

Angela Caterina (1.9.1894);

Caterina Maria (27.8.1898+23.5.1899);

Maria Teresa (23.6.1903+1948);

Caterina (13.2.1909) che emigrò in America.

Nel 1896 Benedetta prese a balia un altro bimbo Ottavio Pallante, esposto a Locana il 22 luglio del 1887, che tenne in collocamento fino al dodicesimo anno di età e poi fu adottato.

Nel mese di giugno del 1897 la famiglia aumentò ancora con la piccola Anna Paralba, esposta ad Ivrea il 24 febbraio del 1885, presa a balia e tenuta in collocamento fino al dodicesimo anno di età e adottata in seguito.

La loro fu una vita intensa, piena di lavoro e di amore verso tutti i loro marmocchi, naturali e adottivi, senza alcuna differenza di trattamento tra i primi ed i secondi.

Savino svolse il lavoro di contadino per tutta la vita a Strambino, dove morì il 2 febbraio del 1924 a 76 anni.

Era un sabato anche quella volta, come il giorno in cui venne abbandonato davanti alla chiesa di Sparone.

La moglie Benedetta, che non poteva stare senza il “suo” Savino, lo seguì poco tempo dopo, il 23 dicembre del 1925.

Nelle sue disposizioni testamentarie stabilì di lasciare la sua eredità suddivisa in parti uguali tra i figli naturali e i figli adottivi, con la segreta speranza che questo suo gesto fosse poi patrimonio dei suoi discendenti.

Alberto Serena

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Articolo pubblicato il 11/08/2022